Alberto Curamil: “Per il mapuche la prigione significa un doppio castigo, fisico e spirituale”


Jordi Campabadal Graus

Il Lonko Alberto Curamil, dirigente mapuche e vincitore del premio Goldman per la difesa dell’ambiente, è uscito dal carcere lo scorso dicembre. Ora, dal Lof Radalko, parla della lotta del suo popolo e di come si articola con le proteste che dal passato ottobre il Cile sta vivendo.

Alberto Curamil (Ercilla, 1977) è stato assolto il passato mese di dicembre dell’anno 2019, insieme ad Álvaro Millalén, da vari delitti relazionati ad un furto, per i quali la Procura cilena chiedeva fino a quasi cinquant’anni di carcere. Curamil, che ha sempre denunciato di essere vittima di una montatura, passò quindici mesi in prigione aspettando che si celebrasse il processo.

Fu durante questo periodo, che il dirigente mapuche ricevette il premio Goldman, considerato il Nobel della difesa dell’ambiente, con il quale è stata riconosciuta la lotta di numerose attiviste come Berta Cáceres o Francia Márquez. Con le parole della Fondazione Goldman, si tratta di “eroi a livello di base, che realizzano straordinarie azioni per proteggere la natura, molte volte affrontando gravi rischi personali”.

Sua figlia maggiore, Belén, viaggiò per ricevere il premio a nome di suo padre, che in quel momento si trovava prigioniero nel carcere di Temuco. Con questa onorificenza si riconosceva la lotta che Curamil, come membro dell’organizzazione Alleanza Territoriale Mapuche, aveva condotto lungo l’ultimo decennio in difesa del fiume Cautín, di fronte a diversi progetti idroelettrici.

Abbiamo conversato con il Lonko -capo tradizionale- Alberto Curamil, che si trova nel territorio mapuche Lof Radalko (Comune Curacautín), sulla sua esperienza nel carcere, l’attuale situazione dei prigionieri politici mapuche, la lotta in difesa del suo popolo e il suo territorio, così come la sua posizione di fronte alla rivolta che è incominciata in Cile nell’ottobre dell’anno 2019.

Come hai ricevuto la notizia della tua assoluzione? Te l’aspettavi?

La prigione e il processo che subimmo furono una persecuzione politica come risposta alle mobilitazioni in difesa del nostro territorio. Noi avevamo la piena sicurezza della nostra innocenza, ma molti dubbi su quale sarebbe stato il verdetto del tribunale. L’impatto che sentii ricevendo la notizia dell’assoluzione fu molto forte, il petto mi ardeva. Nonostante ciò, sebbene Álvaro Millalén ed io fummo assolti, ci furono altri due compagni che furono condannati (José Cáceres e Víctor Llanquileo) e questo mi generò dei sentimenti contrastanti. Quando uno di loro, che apparteneva alla mia medesima comunità, si avvicinò per congratularsi, sentii che ora tutto andava bene. La lotta per il nostro territorio doveva continuare.

Come hai vissuto la tua esperienza nel carcere? 

Ho chiare le mie convinzioni e le ragioni del perché stavamo lottando. Quando mi toccò stare in carcere per questo motivo, lo affrontai con il morale sempre alto. In nessun momento fui depresso. Insieme agli altri compagni mapuche, che ugualmente erano prigionieri nel medesimo carcere, ci aiutavamo e sostenevamo sempre. Nonostante che tutti fossimo lì per diverse cause, ci univa la rivendicazione della nazione mapuche. Il cameratismo e l’impegno tra di noi fu quello che mi mantenne forte durante tutta la mia reclusione.

Ricevesti il riconoscimento del premio Goldman mentre eri prigioniero, cosa significò per te in quel momento?

In quei momenti io pensavo solo alla mia libertà, il principale obiettivo di qualsiasi prigioniero politico mapuche. Nonostante questo, ricevere questo riconoscimento stando in carcere, così come tutto quello che questo significò, fu molto forte emotivamente. Il fatto che chi dovesse riceverlo fosse mia figlia maggiore, Belén, così come tutto il lavoro e l’organizzazione che portò a termine la mia comunità, mi creò molta emozione e impotenza per non poter stare lì.

“Se danneggiano la natura, il popolo mapuche sente questo dolore perché in lei è coinvolta la nostra spiritualità”

Il premio Goldman è concesso ai difensori dell’ambiente, nel tuo caso fu per la lotta contro due progetti idroelettrici e la protezione del fiume sacro Cautín, qual è la relazione del popolo mapuche e la natura?

Noi mapuche siamo parte della natura. I nostri anziani e anziane, che sono un pilastro fondamentale della nazione mapuche e della sua vita, dicono ngenkülelaiñ, iñchiñ may ta mapu ngeiñ, come dire, noi siamo gente della terra, siamo parte di lei. Se danneggiano la natura, anche noi sentiamo questo dolore, perché in lei è coinvolta la nostra spiritualità.

Attualmente, ci sono vari prigionieri politici mapuche nelle carceri cilene che stanno portando avanti proteste per la loro situazione, che ci puoi dire su questo?

In questo momento ci sono vari prigionieri politici che portano avanti scioperi della fame nelle carceri situate nel Wallmapu. Tra loro c’è il Machi Celestino Córdoba, con il quale condivisi la reclusione nel carcere di Temuco. Il suo caso è specialmente preoccupante perché si trova con la salute danneggiata a causa di un altro sciopero che fece precedentemente.

Lo stato cileno e il suo governo castigano severamente la nostra lotta mediante l’imposizione di pene molto alte. Una delle richieste dei nostri prigionieri è di essere trasferiti in centri di reclusione aperti, per poter aver un contatto con la natura, con il sole e poter praticare la propria spiritualità. Per il mapuche la prigione significa un doppio castigo, fisico e spirituale.

Da quando sei uscito dalla prigione, è continuata la persecuzione contro la tua persona?

La persecuzione è praticamente mantenuta ventiquattr’ore al giorno, non solo contro la mia persona, ma contro tutti i fratelli che si mobilitano. Recentemente sono stato fermato nell’ambito di una protesta che stava portando avanti il popolo pewenche, con lo scopo di poter prendere il controllo del proprio territorio e applicare le misure necessarie di fronte alla pandemia che stiamo patendo a livello mondiale. I Carabinieri mi hanno arrestato con l’obiettivo di impedirmi di accompagnare quella mobilitazione. L’attuale militarizzazione dei territori non risponde a criteri sanitari così come afferma il presidente Piñera, ma alla protezione degli interessi di determinati impresari.

Come è incominciata la tua presa di coscienza e lotta per i diritti della nazione mapuche?

Da piccolo la mia vita fu segnata dalla lotta del mio popolo. I miei genitori e nonni ebbero sempre un ruolo importante nella comunità, coinvolti nell’aspetto culturale e nella difesa del territorio. Nonostante che noi non abbiamo tutta la loro conoscenza ancestrale, abbiamo la forza per continuare con il movimento e la lotta per la vita. È quello che oggi mi tocca assumere personalmente come Lonko, come dire, come la faccia visibile di una famiglia e un territorio.

Qual è la situazione nei territori mapuche dalla morte del comunero Camilo Catrillanca per un proiettile della polizia cilena nell’anno 2018?

La nazione mapuche vive in un permanente conflitto con lo stato cileno per un territorio usurpato che ci appartiene. Lo stato viola il nostro diritto alla vita e ad esistere. Ci sono imprese che si impadroniscono dei boschi e dell’acqua, privatizzata a suo tempo da un governo militare. Questo ha le sue conseguenze, come la morte di Camilo Catrillanca o come l’esistenza di prigionieri politici e la persecuzione. Le forze di polizia dispiegate nei nostri territori esercitano violenza contro le comunità. Quando effettuano sgomberi non c’è distinzione, colpiscono chiunque, donne e bambini inclusi.

“La nostra lingua, il mapudungun, è un elemento molto importante per continuare a rivendicare la nazione mapuche”

La conservazione della vostra lingua, il mapudungun, fa parte di questa lotta? Che ruolo gioca la scuola in questo?

In un sistema colonizzatore la scuola non è altro che uno strumento al servizio di questo. Il mapudungun si trova in pericolo, di poter scomparire e la nostra sfida è recuperarlo. In Wallmapu c’è una parte importante del movimento che lavora a questo. La lingua è un elemento molto importante per continuare a rivendicare la nostra nazione mapuche.

Personalmente, fortunatamente con mia moglie abbiamo una buona conoscenza del nostro idioma e lo utilizziamo in modo abituale tra di noi. Conservarlo è un lavoro che realizziamo costantemente, anche a casa, insegnandolo ai nostri figli affinché non si perda.

Perché credi che lo stato cileno tema tanto il popolo mapuche?

Noi siamo sempre stati il muro contro quello che il Governo e gli impresari hanno fatto nel momento di sfruttare le risorse naturali nel Wallmapu. La difesa della terra e dei fiumi fa parte della nostra identità e cosmovisione. La nostra salute dipende da quello. Se ci temono è perché siamo una minaccia per gli interessi delle imprese transnazionali e delle industrie estrattive.

Se ci temono è perché siamo una minaccia per gli interessi delle imprese transnazionali e delle industre estrattive

Qual è la visione del popolo mapuche riguardo allo stato? Credi che un proprio stato potrebbe essere una soluzione al conflitto?

Ci sono molte posizioni distinte e legittime riguardo a questo tema. Nonostante ciò, è importante segnalare che quando il mapuche parla di uno stato non lo fa riferendosi al modello imperante nella maggioranza del mondo, con la sua costituzione e il resto delle istituzioni che già conosciamo. Noi abbiamo il nostro proprio ordinamento e modo di intendere il territorio. Il nostro Nord non è il nord comune che utilizza il mondo occidentale, per noi il Nord è dove esce il sole, dove inizia il giorno, la forza e l’energia.

Qual è la tua posizione di fronte alla rivolta che da ottobre dell’anno 2019 si vive in Cile, di cui la bandiera mapuche si è trasformata in uno dei suoi simboli?

Dentro la rivolta la bandiera Wenufoye è un simbolo di lotta e resistenza. Noi mapuche coincidiamo nella denuncia di molte delle ingiustizie contro le quali c’è questa sollevazione popolare e abbiamo anche un nemico comune: il Governo capitalista al servizio degli impresari e dei loro interessi. Orbene, il nostro popolo ha un proprio modo di organizzarsi nei territori usurpati. Considero che non dovremmo partecipare al processo di cambiamento costituzionale, giacché lo stato cileno ci è estraneo. Vogliamo che ci si riconosca come nazione con un proprio territorio e che si ratifichi il Trattato di Tapihue, mediante il quale nel 1825 fu riconosciuta l’indipendenza del popolo mapuche.

3 giugno 2020

El Salto

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Jordi Campabadal GrausAlberto Curamil: Para el mapuche la prisión significa un doble castigo, físico y espiritual” pubblicato il 03/06/2020 in El Salto, su [https://www.elsaltodiario.com/pueblos-mapuche/alberto-curamil-mapuche-prision-doble-castigo-fisico-espiritual] ultimo accesso 08-06-2020

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