Indigenizzare il marxismo. Appunti per decolonizzare i progetti emancipatori


Hernán Ouviña

“Confesso di essere giunto alla comprensione, ad intendere il valore e il senso di quanto è indigeno, nel nostro tempo, non attraverso il cammino dell’erudizione libresca, né dell’intuizione estetica, nemmeno della speculazione teorica, ma attraverso il cammino, -simultaneamente intellettuale, sentimentale e pratico- del socialismo” – José Carlos Mariátegui (1928)

“Trentadue milioni di indigeni strutturano -così come la stessa Cordigliera delle Ande- l’intero continente americano. Chiaro che per coloro che l’hanno considerata quasi come una cosa, più che come una persona, questa umanità non conta, non contava e credevano che non avrebbe contato” – Seconda Dichiarazione dell’Avana (1962)

“Che i potenti non prendessero in considerazione i popoli indigeni non c’è da stupirsi. Ma il rimprovero raggiunge anche la sinistra ortodossa latinoamericana. La quale, ancora fino ad oggi, continua a non prendere in considerazione riguardo i popoli indigeni la loro stessa identità, la loro storia, la loro cultura, la loro tradizione di ribellione” – Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (2006)

Sebbene siamo partiti dal riconoscere l’enorme validità che ha il marxismo come costellazione critica e autocritica per l’analisi e la trasformazione del mondo contemporaneo, nonostante ciò, crediamo che uno dei maggiori errori del socialismo come progetto civilizzatore alternativo, sia stato l’aver privilegiato l’endogamia teorica e pratica nel momento di cercare di potenziare gli orizzonti emancipatori, per cui pensiamo che debba nutrirsi di altre esperienze e saperi, tra i quali risaltano quelli elaborati e difesi dai diversi popoli indigeni che hanno abitato per secoli e ancora oggi sono presenti in lungo e largo nella Nostra America. Si tratta, insomma, di essere volontariamente adulteri e meticci, aprendoci ad indigenizzare il marxismo (o indianizzarlo, secondo il katarismo), come dire, ad arricchirlo a partire da questo crogiolo di lotte che, attualmente, assume una centralità sempre più rilevante nella regione. Questo presuppone di articolare l’analisi di classe con l’etnico, con l’obiettivo di rafforzare una prospettiva critica del capitalismo che risulti, simultaneamente, anticoloniale. Un marxismo, perciò, che si lasci dietro l’eurocentrismo e possa mettere radici nelle -e nutrirsi delle- tradizioni e storie sotterranee che hanno delineato i popoli e le comunità, tanto indigeni come afrodiscendenti, del nostro continente ribelle.

Tenendo conto di questa scommessa teorico-politica, quelle che seguono saranno alcune riflessioni e idee per rafforzare l’orizzonte del socialismo, mettendo in discussione la matrice liberale, europeista e monoculturale che, salvo alcune notevoli eccezioni, ha predominato in buona parte della militanza di sinistra al momento di analizzare le società latinoamericane nelle quali, quotidianamente, cerchiamo di costruire potere popolare con vocazione rivoluzionaria. Cercheremo di recuperare certe enunciazioni dentro il marxismo critico, che sono compatibili con -e arricchiscono- la prospettiva di lotta indigena, comunitaria e plurinazionale. Questa concomitanza di punti di vista e resistenze risulta imprescindibile per dotarci di maggiori strumenti nella lotta frontale che ingaggiamo contro il capitalismo coloniale moderno come sistema di dominazione multipla.

Riscoprire il marxismo da legami comunitari, indigeni e anticoloniali

Anche quando gran parte del marxismo più dogmatico ha teso a sottostimare le esperienze e i processi di lotta portati avanti dai popoli indigeni e dalle comunità contadine, è possibile passare parallelamente al setaccio una tradizione oscurata che sì, ha cercato di rendere complessa l’analisi critica, e di incorporare questo tipo di realtà e soggetti che non hanno affinità con il proletariato classico di certe società europee. Lo stesso Karl Marx giunse a rivalutare, in particolare durante l’ultimo decennio della sua vita, la potenzialità rivoluzionaria tanto della classe contadina come delle comunità in resistenza stanziate in vaste regioni della periferia capitalista, proponendo per esempio che le comuni rurali in Russia potevano servire da calcio per saltare direttamente nel socialismo, senza necessità di passare per una violenta fase “capitalista” che “modernizzi” le forme di vita e le relazioni di produzione nella campagna. La cosa interessante del suo progetto è che metteva in discussione la visione unilaterale del divenire storico e, secondo la sua interpretazione, “l’arretrata” Russia si trovava più vicina ad una possibile rivoluzione trionfante della “industrializzata” Inghilterra.

All’interno di questa originale lettura, guadagna ancora maggiore centralità il secondo paragrafo dell’emblematico XXIV capitolo del Capitale sull’accumulazione originaria, che ha il seguente titolo: “Espropriazione della popolazione rurale, che viene depredata della terra”. L’espansione del capitalismo per il vecchio Marx non era più un sintomo di “progresso”, ma sinonimo di barbarie e spoliazione. Non è casuale che durante i suoi ultimi anni di vita, uno dei temi che più lo ossessionarono furono le forme comunitarie di vita sociale in Europa e America Latina, non solo in un passato remoto, ma soprattutto come realtà persistenti e contemporanee all’espansione planetaria del capitalismo lungo il XIX secolo. I molteplici appunti da lui redatti tra il 1871 e il 1883, pubblicati postumamente con il nome di Appunti della Guerra Civile in Francia, Scritti sulla Comune rurale russa e Appunti Etnologici, costituiscono una fonte imprescindibile per riscoprire un Marx distante dall’evoluzionismo “produttivista” e attento ad ampliare la propria visione intorno al soggetto del cambiamento sociale, al di là della classe operaia esistente nelle città. Per questo non ebbe paura di affermare che quello che divideva tragicamente i lavoratori urbani e la classe contadina rurale non erano le loro differenze reali, ma i loro reciproci pregiudizi (qualcosa che, curiosamente, ripeterà quasi in modo testuale Emiliano Zapata, comparando in una delle sue lettere del 1918, la rivoluzione messicana con quella russa).

Anche la militante polacca Rosa Luxembourg ha avuto la capacità di individuare questa potenzialità della classe contadina e dei popoli indigeni nelle lotte anti-capitaliste. Nel suo libro L’accumulazione del capitale ci spiega che “il capitalismo viene al mondo e si sviluppa storicamente in un ambiente sociale non capitalista”, per cui uno dei requisiti ineludibili per la sua esistenza ed espansione si fonda nello smembramento delle forme di “economia naturale” che caratterizzano gran parte dei popoli indigeni e delle comunità contadine delle colonie e dei paesi che formano la periferia del capitalismo, inteso come sistema diseguale e combinato di dominio e sfruttamento globale. Da lì che l’accumulazione per spoliazione, basata sulla violenta appropriazione e la crescente privatizzazione dei beni naturali e dei territori comunitari, non debba essere intesa secondo lei come qualcosa avvenuto solo nelle lontane origini del capitalismo (nel nostro caso, con l’emblematica, sanguinosa e mal chiamata “conquista del deserto”), ma come un costante processo dinamizzato dai capitalisti e dallo stato per il sostentamento del sistema in quanto tale. Nello stesso senso, nelle sue lezioni intitolate Introduzione all’Economia Politica, dichiarerà che “gli europei si scontrarono nelle loro colonie con relazioni completamente estranee per loro, che invertivano direttamente tutti i concetti relativi alla santità della proprietà privata”. Da questa prospettiva, le lotte che indigeni e contadini sono venuti sostenendo per la difesa della madre terra e della proprietà comunitaria dei loro territori, costituiscono un anello fondamentale nella catena antimperiale e di resistenza contro l’attuale offensiva capitalista, che cerca di ricomporre la propria stabilità e di superare la crisi a partire dalla crescente privatizzazione e il saccheggio dei beni comuni e della natura.

Con uno sguardo ugualmente attento alle forme coloniali di sfruttamento ed oppressione, il marxista italiano Antonio Gramsci fece una suggestiva analisi della particolare relazione nord-sud nell’Italia della sua epoca, che risulta oltre misura attuale. In vari testi precedenti alla sua reclusione nelle carceri fasciste, propose l’esistenza di una specie di colonialismo interno che implicava la sottomissione del sud agrario (e specialmente delle sue comunità e dei contadini poveri) da parte del nord industriale, non solo sul piano economico, ma anche politico-culturale e geografico. Il carattere del compromesso con cui si preserva l’unità dei gruppi dirigenti borghesi e agrari, dichiarerà Gramsci, “rende ancor più grave la situazione e colloca le popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno [del sud dell’Italia] in una posizione analoga a quella delle popolazioni coloniali. La grande industria del nord svolge, rispetto a quelle, la funzione delle metropoli capitaliste; in cambio, i grandi proprietari terrieri e la stessa media borghesia meridionale sono nella situazione delle categorie che nelle colonie si alleano alla metropoli per mantenere sottomessa la massa del popolo lavoratore”. Da questo punto di vista, le comunità rurali subirebbero -all’interno del loro stesso paese- condizioni generali simili a quelle vissute da quelle nazioni che si trovano sottomesse in una relazione coloniale su scala internazionale.

Già nei suoi Quaderni dal Carcere, Gramsci ironizzerà riguardo gli enormi pregiudizi che predominavano nei lavoratori urbani del nord dell’Italia, che partecipavano in modo incosciente -e indirettamente- a quella situazione di oppressione, riproducendo la concezione del mondo razzista dei settori dominanti, veri beneficiari di questa logica coloniale: “la miseria del Mezzogiorno fu storicamente ‘inesplicabile’ per le masse popolari del Nord; queste non comprendevano che l’unità non avveniva su una base di uguaglianza ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno, in una relazione territoriale di città-campagna, questo è, in cui il Nord era concretamente una ‘sanguisuga’ che si arricchiva alle spalle del Sud e che il suo arricchimento economico aveva una diretta relazione con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolo dell’Alta Italia pensava al contrario che le cause della miseria del Mezzogiorno non erano esterne ma solo interne e innate alla popolazione meridionale, e che data la grande ricchezza naturale della regione non c’era se non una spiegazione, l’incapacità organica dei suoi abitanti, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica”. Per denominare queste diverse forme di oppressione che andavano oltre la tradizionale relazione di sfruttamento tra operai e impresari, Gramsci proporrà la categoria di subalternità (o di gruppi e classi subalterne). Essere subalterno/a implica, letteralmente, stare sotto a o subordinato a. Nonostante ciò, a causa del fatto che la società in cui viviamo si struttura come sistema di dominazione multipla, questa relazione di sottomissione assume diverse modalità e coinvolge differenti causalità. Si può essere subalterno come operaio (o operaia), nell’ambito di un vincolo di sfruttamento in qualsiasi fabbrica o impresa, ma anche bisogna pensare a situazioni dissimili o complementari dove coloro che subiscono (o sostengono) queste dinamiche di subalternizzazione sono donne o, come nel caso che analizziamo, indigeni e popolazione contadina.

Decenni più tardi, diversi teorici del pensiero critico latinoamericano riprenderanno le idee di Gramsci per descrivere le forme di colonialismo interno e di subalternizzazione che ancora oggi perdurano in America Latina e nei Caraibi. Questa nozione ha permesso di interpretare realtà dove esiste una considerevole popolazione indigena e/o afrodiscendente, e la specifica configurazione di stati capitalisti forgiati al calore di pratiche di razzialità, e ai quali gli si sovrappone la combinazione di fattori etnici e di classe. Il punto di partenza è non limitare il vincolo coloniale alla sottomissione, da parte di una potenza o stato espansionista, di popolazione o nazioni esterne al proprio territorio. Con la nozione di colonialismo interno si propone di denunciare le forme di colonialità che hanno persistito nel continente durante gli ultimi secoli e fino ai giorni nostri, nonostante esistano Repubbliche “indipendenti” sul piano giuridico-politico. Ciò che si vuole mettere in discussione con questo concetto, è la congettura che con lo smembramento dei Vicereami e dei Capitanati sia finito anche il colonialismo. Si è concluso, sì, il periodo “coloniale”, ma hanno persistito -e anche in molte dimensioni e regioni si è intensificato, attraverso un complesso processo di ristrutturazione e metamorfosi di quella relazione di dominio e subalternità- la colonialità e il razzismo. Questo tipo di stati mono-culturali e omogenizzatori, hanno teso a costruire società risolte in una nozione di cittadinanza liberale, che rifiuta decisamente qualsiasi diritto collettivo dei popoli indigeni e afro-americani, trasformando i loro membri in individui atomizzati e isolati in sé, vale a dire, distaccati dal contesto culturale, produttivo e comunitario che storicamente gli ha dato senso.

Bisogna riconoscere che nel nostro continente fu José Carlos Mariátegui il primo a rendere complessa la matrice di analisi marxista in funzione di una delle regioni con maggior presenza indigena, come era (ed è) quella andina. Nel suo Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana, così come in innumerevoli articoli e documenti politici, ebbe il coraggio di discutere l’impostazione dogmatica di considerare il proletariato urbano come il soggetto esclusivo della rivoluzione. Il socialismo, secondo una sua lucida lettura, non doveva essere “né calco né copia”, ma una creazione eroica dei popoli, e per questo risultava imprescindibile rivendicare (è chiaro, senza idealizzarle) le forme comunitarie di produzione, solidarietà e cooperazione che ancora persistono in seno ai popoli originari. Nelle loro pratiche e modi simbolico-materiali di relazionarsi, potevano trovarsi “elementi di socialismo pratico” che prefigurassero la società comunista per la quale si lotta tanto nel campo così come nelle città. La sua visione, quindi, rompeva dei vuoti con la concezione euro-centrica e paternalista radicata in molti partiti e organizzazioni di sinistra, che consideravano gli indigeni come “minori d’età” in termini politici e parlavano a favore della loro “proletarizzazione”, costringendoli a lasciare indietro il proprio modo di vita “primitivo” per poter acquisire, subito lì, una potenzialità rivoluzionaria come soggetti. Contrario a queste tesi schematiche e alienanti, Mariátegui riconobbe la capacità auto-emancipatoria dei popoli indigeni, in articolazione organica con la classe lavoratrice insediata nei centri urbani. Per quello si prodigò instancabilmente a erigere un socialismo indoamericano, che senta quel passato e presente di lotte originarie come una frondosa radice, più che in termini di un programma congelato nel tempo che deve essere restaurato. “Il nostro socialismo -concluderà il Saggio in modo categorico- non sarebbe peruviano, non sarebbe neanche socialismo, se innanzitutto non solidarizzasse con le rivendicazioni indigene”.

Rompere con il colonialismo intellettuale e conoscere le nostre Grecie

Rivitalizzare il pensiero critico-trasformatore richiede anche recuperare qualcosa che proponeva José Martí e che è decisiva: “conoscere le nostre Grecie”. Lo scrittore e rivoluzionario cubano diceva che ci è più necessario conoscere le nostre Grecie che la Grecia degli arconti. E con quello non si stava riferendo solo alla così mal chiamata storia universale, che a rigor di termini è rigorosamente europea, ma a poter scoprire, interiorizzare e soprattutto riconoscere come progetti fratelli, un crogiolo di tradizioni di lotta, cosmovisioni, culture, popoli e storie della Nostra America che ancora non sono storia: non lo sono, in primo luogo, perché siamo in presenza di processi organizzativi, dinamiche di produzione e riproduzione della vita e di resistenza comunitaria che ancora oggi perdurano -sebbene affondano le loro radici in tempi remoti. Ma simultaneamente non lo sono a causa del fatto che ancora non sono stati sistematizzati, riscattati dall’oblio e infilati come parte ineludibile della storia invisibile e subalternizzata di Abya Yala 1. Esercitare la memoria storica di breve, media e lunga durata, tanto attraverso fonti orali e documenti e testimonianze scritte, come mediante l’identificazione e la lettura dialogica di quei “nuclei di buon senso” che si annidano nella cultura popolare (in canti, danze, racconti, cibi, narrazioni o vestiti), servono come base e materia prima per ricomporre il caleidoscopio di resistenze e dei processi autoaffermativi che da secoli si sono venuti sperimentando in modo sotterraneo e interstiziale in lungo e largo il continente.

È curioso: in genere noi sappiamo a memoria e perfino enunciamo come luogo della “nascita della democrazia” il territorio greco, senza raccontare che quella era una società dove non avevano nessun tipo di partecipazione le donne, gli stranieri, né certamente gli schiavi. Una delle società più antidemocratiche nella storia dell’umanità, appare come la “culla della democrazia”, e al contrario, conosciamo molto poco dei processi di democrazia comunitaria e delle forme di autogoverno dei popoli indigeni e afrodiscendenti della Nostra America. Quilombi 2, palenque 3, riunioni e consigli, per nominare solo alcuni dei più emblematici progetti di territori liberi forgiati al calore della lotta anti-coloniale, e che precedettero anche i processi indipendentisti avvenuti nei primi decenni del XIX secolo. Pertanto, un progetto emancipatorio decolonizzatore deve poter riesumare queste esperienze, non tanto in chiave di un passato remoto che cerca di essere restaurato, ma nella prospettiva di certi “elementi di socialismo pratico” che, attualmente, pulsano e si risignificano nel campo e nelle periferie urbane, al calore dei flussi migratori di famiglie che portano legami di solidarietà e di lavoro collettivo, così come una soggettività ribelle segnata da un mito mobilitatore che gli permetta di resistere al saccheggio e allo sfruttamento propri del sistema.

Conoscere le nostre Grecie comporta senza dubbio rivitalizzare quei bagliori di auto-organizzazione popolare e comunitaria, che oggi hanno numerosi punti di connessione con il nostro presente di lotta quando sventola la wiphala 4 nella regione andina, dalle montagne del sud-est messicano lo zapatismo afferma di essere il “prodotto di 500 anni di lotte”, i quilomboli si creano e si diffondono nel territorio brasiliano, e i popoli indigeni o afrodiscendenti propongono il buen vivir 5 e l’interculturalità critica come alternativa civilizzatrice. Ma è anche necessario spazzolare contropelo la nostra storia, anche quella costruita dalla sinistra. Decolonizzare la nostra concezione del divenire storico e delle lotte e resistenze, e allo stesso tempo depatriarcalizzare quegli itinerari e rotte. Per quello, il dialogo intergenerazionale, il recupero della memoria di media e lunga durata, e non solo di corta durata -alla quale siamo così abituati/e deplorevolmente nelle grandi città- costituisce un esercizio ineludibile.

La “minore età” nella quale hanno fatto sprofondare per tanto tempo il nostro continente bisogna romperla definitivamente, e questo implica conoscere e rivalutare le nostre lotte. A modo di esempio: qualsiasi militante conosce dettagliatamente le gesta della Comune di Parigi e perfino certi dibattiti che seppero generare questa esperienza (e va molto bene che sia così), ma ignorano completamente le “nostre Comuni”. Ne menzioniamo due che risultano tanto emblematiche come sconosciute, e che inoltre ebbero il Messico profondo come scenario vitale: la Comune di Morelos e la Comune di Oaxaca. La prima ebbe luogo nel 1916 in piena ebollizione della rivoluzione contadina, e fu guidata dalle e dai zapatisti in armi (sì, prima della caduta dello zarismo in Russia e del sorgere dei soviet); mentre la seconda avvenne nel 2006 nel sud di questo paese e comportò l’emergere per vari mesi di un potere popolare alternativo allo stato, a tal punto che domandando a quel tempo ad un maestro zapoteco quale fosse la differenza o in cosa si sentissero imparentati con la Comune di Parigi, ci rispose in chiave ironica che “la Comune a Parigi durò solo settanta giorni e noi già duriamo da cinque mesi”. Non era, certamente, proprio un problema di estensione del tempo, di prolungamento dell’esercizio del potere popolare. Si riferiva anche all’intensità che ha coinvolto l’insieme di popoli e settori in lotta che facevano parte di quel processo di autogoverno. Ma deplorevolmente, non solo si eclissò quel progetto comunale (per diversi motivi che vanno oltre questo testo), ma neppure ha potuto essere sistematizzato in profondità.

Lo stesso potremmo dire riguardo le Comuni nel Venezuela bolivariano, le Giunte di Buon Governo zapatiste in Chiapas o certi territori e riserve indigene nel Cauca, in Colombia, così come della molteplicità di saperi e forme di conoscere la realtà e di vincolarsi con quella che esercitano le comunità e i popoli del resto della Nostra America. A questo punto, rompere con il colonialismo intellettuale, comporta la costruzione di un pensiero proprio in una chiave senti-pensante, dove non sia solo la razionalità occidentale, ma gli affetti, i sentimenti, i vissuti quotidiani e la corporalità, quello che si può mettere in gioco nella ricostruzione di un progetto storico in pieno XXI secolo. Oggi risulta chiaro che si conosce, allo stesso tempo, attraverso il corpo e il dolore. Le distruzioni che fa l’estrattivismo si evidenziano nei corpi delle bambine e dei giovani delle comunità colpite dai progetti megaminerari, dall’avanzata dell’agro-negozio e dall’uso del glifosato. I femminicidi e le molteplici forme di violenza verso le donne sono palpati e sentiti anche dai corpi e dal dolore, dagli affetti e dalle soggettività modellate dal patriarcato, dall’eteronormatività e dalla colonialità del potere. Con-muoverci implica lasciarci commuovere, apprendere a condividere il dolore e allo stesso tempo accompagnare e mobilitarci con coloro che quotidianamente resistono contro “il saccheggio, lo sfruttamento, il disprezzo e la repressione”, le quattro ruote che fanno girare il capitalismo contemporaneo come macchina da guerra.

Unità nella diversità: verso un’articolazione delle lotte contro il capitalismo, la colonialità e il patriarcato

Come si sa, questa condizione coloniale di sfruttamento e oppressione che subiscono milioni di indigeni in America Latina -sebbene contrastata in modo permanente fin dai tempi della conquista- è stata messa in discussione con molta più forza e decisione negli ultimi decenni, al calore delle lotte guidate da numerosi popoli, movimenti e comunità che combattono per il proprio pieno riconoscimento e la propria identità collettiva. Il mosaico è così vario come il crogiolo di colori che compone la whipala: dalle esperienze della Bolivia e dell’Ecuador, che portate avanti dal basso sono riuscite a porre nell’agenda pubblica il problema della colonialità, giungendo ad imporre processi di Assemblea Costituente cercando di rifondare i propri rispettivi stati da un’ottica plurinazionale, fino ai progetti che chiedono piena autonomia per la costruzione territoriale di spazi di autogoverno, come è il caso del popolo mapuche nel sud del continente, o delle e dei zapatisti e di altri popoli del Messico profondo, per nominare solo i più emblematici.

Al di là delle sfumature e differenze, in tutti i casi si percepisce una comune vocazione decolonizzatrice, che si fa carico della sfida di creare una nuova istituzionalità politica e socio-economica distante dall’eurocentrismo, e che contempli, tra gli altri fattori nuovi, il pluralismo giuridico, l’attivazione di forme di autogoverno e produzione comunitaria, l’interculturalità integrale e il pieno rispetto dei diritti della madre terra. Più che un punto di partenza, questi temi fanno parte di un complesso e arduo orizzonte che è necessario conquistare. In ultima istanza, quello di cui si trata è garantire il riconoscimento delle differenze, allo stesso tempo in cui si sopprime ogni tipo di disuguaglianze, intendendo che l’origine di quelle poggia su un sistema di dominazione molteplice. Parlare di un sistema comporta intendere che le differenti forme di oppressione (di classe ed etniche, ma anche di genere, a causa del regime patriarcale ed etero-normativo che predomina nelle nostre società) si trovano articolate o connesse tra di loro, in generale rafforzandosi mutuamente le une con le altre. Pertanto, sebbene sia importante raccontare le caratteristiche specifiche che distinguono ciascuna forma di dominazione (da lì il loro carattere molteplice), è anche necessario analizzare che vincoli o nessi esistono tra ciascuna di loro, da una prospettiva integrale o di totalità, evitando l’incapsulamento delle lotte.

Dobbiamo pertanto decolonizzare il marxismo. Bisogna indigenizzarlo, da ora, ma anche renderlo nero e depatriarcalizzarlo (giacché, come ben denunciano le femministe comunitarie aymara, nel nostro continente è esistito un “collegamento” del capitalismo con certe logiche patriarcali che lo precedevano), senza concepire mai come verità rivelate né passioni le categorie, i concetti, le forme del sentire, pensare e fare che abbiamo ereditato dalla modernità. Le cosmovisioni dei popoli indigeni e afroamericani, i femminismi popolari, neri e comunitari, l’eco-socialismo e il buen vivir, i pensieri di frontiera e le pedagogie critiche, come tradizioni emancipatore abitate da quanto è diverso, devono essere adattate e attualizzate per denaturalizzare (e paragonare) quelle molteplici e complementari forme di dominazione e subalternità.

Si potrebbe pensare che questa realtà -in particolare la condizione coloniale- poco e nulla abbia a che vedere con quella che viviamo quotidianamente in Argentina. Nonostante ciò, anche quando risulta evidente che il grado di oppressione etnica (sia in termini quantitativi o qualitativi) nella nostra società sia molto minore di quella di paesi come la Bolivia, Perù, Guatemala, Messico o Ecuador (tra le altre questioni, perché qui l’etnocidio fu molto più estensivo), questo non nega che continuino ad esistere comunità e popoli indigeni (e anche afro-discendenti) che chiedono il proprio genuino riconoscimento come tali, e che giorno dopo giorno subiscono le imposizioni di una cultura e un modo di vita totalmente alieni alla propria cosmovisione, essendo lo stato corresponsabile di innumerevoli soggiogamenti dei loro diritti più elementari, di soprusi che attualizzano la dinamica coloniale e segregano i nostri popoli indigeni come soggetti di diritto collettivo, a tal punto che la riforma del Codice Civile approvata anni fa -sulla quale c’è stato consenso tra coloro che oggi dicono di essere oppositori e coloro che attualmente governano- li qualifica come “persone giuridiche di diritto privato”. A sua volta, questa giuridicità razzista nega il loro diritto come popoli ad amministrare e controllare pienamente i propri territori, riducendo il loro contesto comunitario ad un mero “immobile” materiale, spogliato della sua dimensione culturale e cosmogonica. E ora, perpetua e rafforza anche la proprietà privata e la recinzione di milioni di ettari nelle mani di proprietari terrieri e di imprese transnazionali.

A giudicare da queste e molte altre ingiustizie, non ci sono dubbi che in Argentina la ferita coloniale sia ancora aperta, come nell’insieme della Nostra America profonda. Suturarla da una prospettiva emancipatoria non sarà un compito facile, ancor meno in un contesto dove l’odio razziale, patriarcale e di classe si acutizza e amplifica, tanto nei mezzi di comunicazione egemonici come da parte delle stesse istituzioni statali. Nonostante ciò, risulta una questione etica e militante ineludibile, che richiede, oltre che una attualizzazione del marxismo latinoamericano -incorporando come uno dei suoi nuclei più rilevanti il fattore etnico-, anche l’impegno politico di ciascuno/a di noi. Se bisogna ancora avere come orizzonte il socialismo, questo dovrà essere uno in cui ci siano molti socialismi. Tra loro, il buen vivir, la plurinazionalità e l’interculturalità critica, che oggi risorgono con più forza che mai dalle viscere stesse dell’Abya Yala. E che non smette di domandarsi dove merda stia Santiago Maldonado, perché in vita se lo sono portato via e in vita lo vogliamo.

Illustrazioni di Alan Dufau 

Gramsci en América Latina

Note del traduttore:

1 – Abya Yala è il nome dato al continente americano dal popolo Kuna di Panama e Colombia prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo e degli europei. Letteralmente significherebbe terra in piena maturità o terra di sangue vitale.

2 – Comunità formate da schiavi fuggiti in Brasile.

3 – Luoghi di difficile accesso dove a Cuba si rifugiavano schiavi neri fuggiti.

4 – Bandiera rappresentativa degli indigeni andini.

5 – Il vivere bene.

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Hernán Ouviña, Indigenizar el marxismo. Apuntes para descolonizar los proyectos emancipatorios” pubblicato in Gramsci en América Latinasu [https://gramscilatinoamerica.wordpress.com/2017/10/12/indigenizar-el-marxismo/] ultimo accesso 20-10-2017

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