Il potere cocalero: La “falsa guerra”, la resistenza e la violazione dei diritti umani


Alex Contreras Baspineiro

TERZA PARTE

Il Piano Triennale, l’Opzione Zero, il Piano Quinquennale, gli Annessi I, II e III, il Piano Dignità e le altre politiche governative destinate a sradicare le coltivazioni di coca negli insediamenti del Tropico di Cochabamba sono stati il sinonimo di morti, feriti e di una flagrante violazione dei diritti umani, ma non hanno raggiunto il loro obiettivo. Sono fracassati.

Mentre i produttori di coca sono stati le vittime delle politiche governative di turno, gli indigeni assoggettati nei propri territori sono entrati in una intensa fase di riorganizzazione.

Nel 1961, il Convegno delle Nazioni Unite, a Vienna, proibì la masticazione della foglia di coca considerandola una attività illecita. La coca era considerata uno stupefacente.

Da questo momento, vari governi hanno cercato in modo equivoco di mettere fine alle piantagioni di coca.

È stata negli insediamenti cocaleri una tappa di circa 50 anni molto dura, difficile e drammatica. Lo sradicamento forzato della foglia di coca ha prodotto duri scontri tra le forze d’operazione congiunta e i coloni che ha lasciato un saldo di morti e feriti, detenuti e confinati, orfani e vedove.

Prima di questa tappa – nell’epoca delle dittature militari – alcuni insediamenti del Tropico di Cochabamba si trasformarono in poco meno che nell’emporio della droga, dove centinaia, bensì migliaia di colonizzatori entrarono a far parte del circuito coca-cocaina. Il denaro sporco fu sinonimo del progresso delle loro comunità e il narcotraffico l’alleato dei governanti.

“Per esempio Shinahota, paese che tra la fine del decennio dei 70 e gli inizi degli 80 fu la capitale mondiale della cocaina, con la circolazione di milioni di dollari gestiti dai principali cartelli del narcotraffico mondiale. Oggi è un paese di commercianti che offrono le loro mercanzie ai contadini colonizzatori, che vanno in paese nei fine settimana a rifornirsi di viveri e a vendere i propri prodotti agricoli” (Salazar Fernando, 2008: 12).

Il 28 dicembre 1988, durante il governo di Víctor Paz Estensoro (MNR), fu approvata la Legge 1008 sul Regime della Coca e delle Sostanze Controllate. Questa legislazione – il cui testo originale arrivò nel paese redatto in inglese e dove si confonde intenzionalmente la coca e la cocaina – fu la base con cui i governi di turno cercarono di imporre lo sradicamento forzato delle coltivazioni di coca.

Di fronte a questi tentativi, le mobilitazioni e i blocchi di migliaia di produttori di coca furono costanti.

Al Piano Triennale del 1987 (ILDIS-CEDIB 1994: 23) del governo di Víctor Paz Estensoro (MNR)  si rispose con i blocchi, fatto che finì con una operazione poliziesco-militare che lasciò un saldo di otto morti e 19 feriti gravi nella località di Parotani e nel Chapare (Presencia, 29/05/1987 e El Diario 29/05/1987). La pressione cocalera affinché fosse redatta una Legge sulle Sostanze Controllate, separando definitivamente i delitti del narcotraffico e della foglia di coca, richiese vari anni e duri scontri.

Nel giugno del 1988 il conflitto arrivò ad un punto insostenibile perché avvenne il massacro di Villa Tunari che causò 16 cocaleri morti, alcuni raggiunti dai proiettili e altri che persero la vita affogati (Balderrama Ramiro 2000:16). Un mese più tardi, il governo, con l’appoggio dell’ambasciata nordamericana, approvò la controversa Legge 1008 che implica: 1) definizione della coca come stupefacente; 2) specificazione delle zone di produzione tradizionale, eccedentaria e illecita; 3) penalizzazione delle zone e dei volumi di produzione.

Durante il governo di Jaime Paz Zamora del Movimento Rivoluzionario della Sinistra (MIR), 1989-1993, in materia di antidroga la situazione non cambiò neanche di una virgola. Nonostante il discorso della “diplomazia della coca” o della “coca per lo sviluppo”, alla fine la situazione fu la medesima: repressione dei produttori, sottomissione alle imposizioni internazionali e fracasso dello sradicamento.

Durante questo periodo di governo furono firmati in modo riservato i famosi allegati: l’Allegato I che voleva ridurre il prezzo della foglia di coca, destinata alla lavorazione e commercializzazione di stupefacenti, al di sotto del suo costo di produzione come principale strategia per l’eliminazione della produzione e del traffico di stupefacenti; l’Allegato II si riferiva al piano integrale di sviluppo alternativo, e l’Allegato III stabiliva le condizioni per la partecipazione delle forze armate in materia di antidroga.

La militarizzazione della lotta contro il narcotraffico non fu una soluzione solo perché spinse i colonizzatori a cercare, per la propria sopravvivenza, nuove terre, soprattutto nei parchi nazionali. I più danneggiati: i popoli indigeni.

“Colonizzatori del Chapare raccontano che nei primi anni di residenza nelal località subtropicale (decennio degli anni 50) mettevano trappole per cacciare gli yuracaré, come se si trattasse di animali. Catturati, gli aborigeni, a quel tempo nomadi, erano obbligati a lavorare per i colonizzatori, i “colla con documenti (meticci della regione occidentale della Bolivia, ndt) che assumevano il tipico comportamento degli invasori” (Contreras Alex, 1991: 158).

L’ex ministro della coalizione MIR-ADN, Mauro Bertero, dichiarò: “I tagliatori di legname trattano gli indigeni peggio degli animali”.

Mentre i produttori di coca facevano dure battaglie contro gli agenti dell’antidroga in difesa delle loro coltivazioni di sopravvivenza, i popoli indigeni del TIPNIS erano le maggiori vittime, sia dei coloni che dello stesso governo, perché da un lato erano danneggiati dagli insediamenti illegali, e dall’altro perché si voleva costruire un oleodotto e una strada attraverso l’area naturale.

UN ESEMPIO DI DIGNITÀ

Durante i costanti conflitti sociali, tra il 26 e il 29 luglio 1990, fu effettuato a San Lorenzo de Moxos il Secondo Incontro di Unità dei Popoli Indigeni, dove emersero tutte le rivendicazioni nei confronti del governo.

In questa occasione analizzeremo le richieste che si riferiscono al Parco Nazionale Isiboro Sécure che è la regione ubicata tra i dipartimenti di Cochabamba e del Beni. In quel periodo il Parco Isiboro Sécure era considerato come una “area indigena” quando dovrebbe essere un “territorio indigeno”.

La proposta iniziale del governa specificava che la delimitazione della colonizzazione l’avrebbero dovuta fare gli stessi coloni – senza la partecipazione indigena – ma si arrivò all’accordo di fare un lavoro congiunto senza permettere più la vendita dei lotti da parte dei colonizzatori.

“Nel quinto articolo, i progetti dell’oleodotto e della strada non saranno iniziati, sono in esecuzione, per cui il documento deve decidere: paralizzare queste opere fino a quando si potrà contare su un dettagliato studio di impatto ambientale debitamente approvato dalla Sottosegreteria delle Risorse Naturali e dell’Ambiente e dalle organizzazioni indigene. Le organizzazioni indigene parteciperanno attivamente allo studio”.

Inoltre, richiesero che ogni studio o progetto da realizzare ed eseguire nel territorio indigeno avrebbe dovuto contare sulla partecipazione e approvazione dei popoli indigeni.

Non essendo state ascoltate dal governo le loro richieste, i popoli indigeni del paese, furono i protagonisti della storica marchia “Per il Territorio e la Dignità”.

Per la prima volta nella nostra storia un settore sociale marciava per il “territorio” inteso come la rivendicazione del sottosuolo, del suolo e di ciò che sta sopra il suolo e, inoltre, per la difesa della “dignità” delle persone. Fino a quel momento le marce, i blocchi, e le proteste erano per la difesa della terra, contro lo sradicamento della coca o per migliorie salariali. Gli indigeni furono i primi a difendere il territorio e la dignità perché si sentivano assoggettati nei loro diritti più elementari.

Tra il 15 agosto e il 17 settembre 1990 nel paese fu effettuata la prima marcia indigena “Per il Territorio e la Dignità”.

Yuracaré, chimanes, moxeños, sirionós, junto a guaraníes, chácobos, ese ejjas, matacos, tapietes, mosetenes, movimas, cavineños, guarayos, tacanas, araonas e altri popoli indigeni uscirono dalla selva, dai boschi e dai propri territori per decidere che la Bolivia non era solo un popolo aymara, quechua e “tupi-guaraní”, ma che convivevano 36 popolazioni indigene.

Il termine “tupi-guaraní” fu coniato dalla nostra storia “ufficiale”, proclamata dalle più importanti autorità, per accomunare il resto dei popoli indigeni del paese. Ma, dal 1990 si sono incominciati a conoscere culture, tradizioni, idiomi, autorità e valori dei popoli indigeni che fino a questo momento sono stati vittime della colonizzazione interna ed esterna.

In 34 giorni la marcia indigena, che percorse più di 610 chilometri da Trinidad (Beni) fino a La Paz, fu capace di muove le fibre più intime della maggioranza dei settori sociali. Al suo passaggio conquistò una grande simpatia, al suo passaggio si aggiunsero l’appoggio e la solidarietà dei settori aymara e quechua e anche dei colonizzatori e produttori di coca. Fu una lezione di dignità.

Nel paese di Yolosa, a quattro giorni dall’arrivo a La Paz, si unì un gruppo di produttori di coca guidato in quel periodo dal dirigente Evo Morales Ayma.

Dopo duri negoziati con il governo – ma sotto la pressione dei settori del legname, degli allevatori e dei colonizzatori – i popoli indigeni con l’appoggio dei settori più poveri ottennero la loro prima vittoria politica e sociale: il riconoscimento dei loro territori.

Il Supremo Decreto 22610, del 24 settembre 1990, riconosce il Parco Nazionale Isiboro Sécure come territorio indigeno dei popoli yuracaré, moxeño e chimán che ancestralmente lo abitano e che costituisce lo spazio socioeconomico necessario per il loro sviluppo, e si chiama Territorio Indigeno Parco Nazionale Isiboro Sécure (TIPNIS).

La superficie del TIPNIS fu ampliata con le aree esterne dei fiumi Isiboro e Sécure e fu fissato il confine con una “linea rossa” per evitare nuovi insediamenti nell’area naturale.

“Ogni costruzione e opera di sviluppo, particolarmente di vie di attraversamento ed oleodotti che vengano realizzati nel TIPNIS, deve contare preventivamente su un dettagliato studio di impatto ambientale debitamente approvato dal Ministero degli Affari Contadini e Agropastorali, con la partecipazione dell’organizzazione indigena della regione. Le opere che siano in esecuzione devono essere bloccate fino a quando non potranno contare sul loro rispettivo studio di impatto ambientale”, dichiarava l’articolo sesto del suddetto decreto.

La marcia indigena fu una pesante misura a cui parteciparono bambini, donne, anziani e uomini, famiglie intere dei popoli indigeni – come tradizionalmente e quotidianamente fanno – e riuscì a strappare al governo neoliberista di MIR, ADN e PDC, le sue principali richieste.

Furono anche approvati il DS 22611 a favore del popolo sirionó di El Ibiato e il DS 22612 che favoriva gli indigeni Chimanes del Bosque.

“La storica marcia dei popoli indigeni si concluse in modo memorabile perché questo grande movimento ottenne anche  territorio e dignità … Ora tutti i fratelli indigeni sanno di avere territorio, risorse naturali e che avranno educazione e sanità e una legge che li protegga”, ha sottolineato  Ernesto Noe, presidente della Centrale dei Popoli Indigeni del Beni (CPIB); “Il principio di assegnare dei territori a certi settori di boliviani a detrimento del resto della popolazione è un precedente funesto, ancor di più se si aggiunge la violazione dei contratti che lo stato aveva sottoscritti con gli industriali del legname e gli allevatori”, ribatteva Carlos Calvo, presidente della Confederazione degli Impresari Privati della Bolivia (CEPB), (Contreras Alex 1991: 181).

L’ESEMPIO CHE SI PROPAGA

Con la marcia indigena come esempio di lotta e unità che unì un centinaio di insediamenti tra il Beni e La Paz, differenti settori sociali del paese con altre richieste e da differenti punti del territorio nazionale cercarono di imitare quella misura di pressione.

A meno di un anno dalla marcia “Per il Territorio e la Dignità” dei popoli indigeni, il 24 giugno 1991, i produttori di coca del Tropico di Cochabamba si unirono intorno alla marcia “Per la Dignità e la Sovranità Nazionale”.

La marcia da Villa Tunari voleva arrivare fino a La Paz, passando per Cochabamba, ma ad una settimana del suo cammino fu brutalmente repressa da agenti della polizia e militari nella zona conosciuta come El Cañadón. Il saldo: un cocalero morto, vari feriti, circa 20 dirigenti arrestati, tra loro Evo Morales Ayma, e la maggioranza dei partecipanti alla marcia trasferiti a forza nelle loro comunità di origine (P, 2/07/1991:1).

Potremmo ricordare che la prima marcia cocalera fu un fracasso, ma autocriticamente non fu considerata in questo modo. Servì per tessere nuove strategie per le loro future mobilitazioni: appoggio economico e comunale a ciascuno dei marciatori, lavoro reciproco (ayni) negli insediamenti cocaleri, la designazione dei responsabili (comandanti) di colonna dei marciatori, l’appoggio di brigate sanitarie, le cucine comuni, i gruppi di avanguardia e retroguardia per avere sicurezza, e la solidarietà con gli altri settori sociali.

Uno degli aspetti di coesione che utilizzarono i produttori di coca nelle loro mobilitazioni si riferisce alla difesa delle richieste del proprio settore: rifiuto dello sradicamento delle piantagioni di coca, sviluppo alternativo, contro la militarizzazione e la difesa dei diritti umani; ma furono anche molto inclusivi: rifiuto della capitalizzazione delle imprese statali, contro la privatizzazione delle nostre risorse naturali, la difesa della terra-territorio o l’appoggio militante alle rivendicazioni della COB.

La repressione governativa – quasi quotidiana nello sradicamento delle coltivazioni di coca – non li intimorì, ma provocò un rafforzamento delle organizzazioni cocalere del Tropico di Cochabamba che dopo un ampio processo democratico di appoggio ai partiti di sinistra e una vittoria contundente in tutta questa regione con l’Unità Democratica e Popolare (UDP) o la Sinistra Unita (IU) tracciarono il cammino per procedere dalla via sindacale a quella politica.

“Non vogliamo essere più una scala politica”, si sentì con frequenza nelle riunioni cocalere.

Il governo di Gonzalo Sánchez de Lozada (1993-1997) si caratterizzò per essere uno dei più sottomessi alle politiche nordamericane. Contemporaneamente alla privatizzazione delle risorse naturali e alla capitalizzazione delle nostre imprese strategiche cercò di eliminare la totalità delle piantagioni di coca con l’imposizione del programma “Opzione Coca Zero”.

In materia di antidroga il governo degli Stati Uniti imponeva le direttrici che avrebbero dovuto essere attuate; in caso contrario, si correva il rischio della “de-certificazione” o della sospensione degli aiuti economici.

Nell’agosto del 1994, i produttori di coca furono i protagonisti della marcia “Per la Vita, la Coca e la Sovranità Nazionale”, mobilitazione che si cercò di evitare  arrestando vari loro dirigenti, ma seguendo le mulattiere dei nostri antenati da Cochabamba arrivarono fino a La Paz per ottenere quanto richiesto. Nel dicembre del 1995, anche circa un migliaio di donne cocalere, stanche dei continui abusi dei loro diritti, decisero di marciare “Per la Difesa della Vita, la Coca e i Diritti Umani”, e nonostante la repressione, in varie occasioni, le donne con l’appoggio massiccio della popolazione boliviana riuscirono nel loro obiettivo.

Tra marce, blocchi e scioperi della fame, ma anche tra morti, feriti e arrestati, i produttori di coca del Tropico di Cochabamba e di Los Yungas di La Paz, insieme alle loro organizzazioni di origine come la CSUTCB e CSCB, nel 1995, presero la decisione di costruire uno Strumento Politico chiamato Assemblea per la Sovranità dei Popoli (ASP). L’obiettivo: prendere il potere locale e nazionale.

“È triste dirlo ma – in risposta al nostro appoggio – molti dirigenti di sinistra, autodefiniti rivoluzionari e qualificati come intellettuali, ci utilizzarono solo per giungere nel Parlamento Nazionale e molto velocemente si dimenticarono dei nostri problemi”, disse Evo Morales Ayma, quando era dirigente cocalero.

Durante il governo di Hugo Banzer Súarez (ADN), tra il 1997-2001, i militari giocarono un ruolo da protagonisti nello sradicamento delle coltivazioni di coca nel tropico cochabambino per mezzo della Forza Operativa Congiunta di circa 500 poliziotti e 1.500 effettivi militari (LR, 3/08/2000: 8 y 9a).

La presenza militare causò una maggiore violenza. In tutto questo periodo di conflitto, con schiaccianti blocchi che paralizzavano il paese da oriente ad occidente, con picchetti di scioperi della fame, con cortei di massa e anche con tentativi di attraversare la linea verso la lotta armata, i produttori di coca si rafforzarono non solo nei propri sindacati ma anche come Strumento Politico.

Le rivendicazioni cocalere avevano una alleanza strategica con la Centrale Operaia Boliviana (COB) e con le altre organizzazioni nazionali, ma furono fatte anche una grande campagna e una grande pressione a livello internazionale. A livello mondiale era frequente la presenza di dirigenti cocaleri in vari eventi con la loro bandiera di lotta: la foglia di coca.

Nonostante tutti i tentativi dispiegati dalle autorità di governo per eliminare le piantagioni di coca, mai si riuscì ad eliminare totalmente le coltivazioni perché, nonostante i programmi di sviluppo alternativo, non si poté rimpiazzare l’economica che generava il circuito coca-cocaina.

Per il settore dei produttori di coca, la lotta antidroga imposta dai governi di turno si trasformò solo in un pretesto per eliminare la loro organizzazione, per mettere fine alla leadership di alcuni dirigenti e per installare una base militare nel cuore del tropico cochabambino. La presenza di consiglieri nordamericani gli fornì il migliore discorso politico: inalberare la difesa della sovranità nazionale di fronte all’imperialismo.

Nel libro “La Falsa Guerra” di Michael Levine, un agente della DEA nordamericana, sono descritte in modo drammatico le cospirazioni della CIA e della DEA contro gli interessi dei paesi, tra i quali la Bolivia, a favore dell’imperialismo nel suo impegno di controllo del narcotraffico, di dominio politico internazionale e di espansione geopolitica.

Insomma, la lotta antidroga che si cercò di imporre tra le popolazioni del Tropico di Cochabamba a sangue e fuoco si trasformò in una vera “falsa guerra”: non ci fu nessuna soluzione, ma un problema.

13 marzo 2013

Aini Noticias

 

Prima parte: http://comitatocarlosfonseca.noblogs.org/post/2013/03/20/il-potere-cocalero-lespansione-politica-e-territoriale-e-la-distruzione-dei-valori-indigeni/

Seconda parte: http://comitatocarlosfonseca.noblogs.org/post/2013/03/25/il-potere-cocalero-la-rilocalizzazione-il-sindacalismo-e-le-nuove-forme-di-organizzazione/

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da:
Alex Contreras Baspineiro, “El poder cocalero: La “guerra falsa”, la resistencia y el atropello a los derechos humanospubblicato il 13-03-2013 in Aini, su [http://www.aininoticias.org/wp-content/uploads/2013/03/TERCERA-PARTE-contreras.pdf] ultimo accesso 10-04-2013.

 

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