Il processo politico in Guatemala è segnato da una crisi che si manifesta in due aspetti centrali: la trama golpista del potere istituito e la resistenza a questa volontà perversa da parte di una società civile articolata intorno alle organizzazioni indigene e contadine. Come dire, una forma comunitaria di resistenza, che appare oggi, in modo inedito, come forza materiale ed etico-morale di un campo articolatore delle domande generali della cittadinanza.
Questo fatto, non solo manifesta una profonda mutazione storica delle relazioni sociali e politica della società, ma ha generato uno degli assi centrali della speranza intorno a un cambiamento democratico (materiale e simbolico) nella vita politica del paese.
Come si sa, i risultati delle recenti elezioni, che hanno dato come vincitore Bernardo Arévalo, sono sfociate in una situazione di grande turbolenza politica, che mette a nudo e compromette il potere istituito. Lontano dall’essere processati secondo le norme della legge, si è creato una scenario di aperta cospirazione golpista, nella quale è coinvolto l’apparato giudiziario e le sue figure più visibili, come la Procuratrice Generale, Consuelo Porras, personificazione del cinismo e della corruzione istituzionali.
Nonostante ciò, la Porras e i suoi complici sono appena dei volti pubblici di un fenomeno più profondo di decomposizione istituzionale relazionato alla trama della dominazione nel paese. Questo fenomeno ha un temporalità che risale, per lo meno, ai fatti che terminarono con il colpo di stato ad Árbenz, il cui progetto di modernizzazione capitalista era legato a quello della democratizzazione sociale. Parole più, parole meno, il progetto arbenzista di trasformazione si potrebbe sintetizzare nell’idea del superamento di un capitalismo di storico segno oligarchico, razzista e servile, come condizione di uno stato dove il potere sia mediato da relazioni democratiche sui piani sociali e politici.
Il patto reazionario che lo sostituì fu, nei fatti, la negazione della democrazia in nome della democrazia; come dire, un fatto che segnava fin dalla sua origine una forma politica reazionaria e repressiva del potere, così come delle istituzioni formalmente democratiche ma sottomesse a detta forma. Da lì, tra le altre cose, l’inconsistenza e la decomposizione istituzionale.
Il deterioramento della democrazia e delle sue istituzioni non è un fatto casuale e congiunturale, ma obbedisce ad un processo di lungo termine dove il dominio e la decomposizione istituzionale si intrecciano e mediano.
Sebbene quanto segnalato sia vero, sarebbe un errore ridurre la crisi a questa dimensione. In termini generali, perché l’antagonismo, che è costitutivo di detto potere, ha generato e genera molteplici forme di resistenza che tendono a superarlo, come lo registra la storia nazionale.
In questo senso, è da sottolineare che, nel caso particolare, la cosa più significativa della crisi è che è il risultato delle lotte di resistenza contro la corruzione istituzionale e i tentativi golpisti, in un primo momento, questo si è manifestato nelle recenti elezioni come stanchezza cittadina; e, attualmente, come resistenza di settori popolari organizzati intorno alla guida indigena, un fenomeno inedito di primordiale importanza. Per la prima volta nella storia del paese, la forma comunitaria-indigena è sfociata nel nucleo organizzato più importante della resistenza cittadina dando una sua propria colorazione alla crisi politica di carattere nazionale.
Da una parte, questo parla di una modificazione delle relazioni di forza tra gli attori in questo spazio materiale e simbolico chiamato società civile, così come di un possibile cambiamento storico della sua morfologia. D’altra parte, parla anche della capacità di recupero del soggetto comunitario di fronte ai periodi di intensa repressione (incluso il genocidio), di cui è stata caricata la temporalità della dominazione.
Ma, soprattutto, parla del fatto che nell’attuale crisi la forma comunale indigena ha acquisito una proiezione politica nazionale e un carattere protagonista. Questo si manifesta nella sua capacità di organizzare le occupazioni delle strade in una sorta di accerchiamento pacifico dell’urbe capitolina, luogo dove si trovano concentrati gli organi di potere. Tra le altre cose, queste occupazioni pacifiche hanno permesso che si sviluppassero manifestazioni collettive nei quartieri popolari e in altri spazi, inalberando le loro proprie rivendicazioni; fatto che parla del possibile emergere di un campo di confluenza di lotte rurali e urbane.
Il soggetto comunitario indigeno reclama che si compia la volontà cittadina espressa nelle urne. Lo fa appropriandosi del codice liberale. Ma lo fa a partire dalla propria autonomia, dai suoi propri codici comunitari, che implicano relazioni orizzontali; come dire, lo fanno in un modo molto differente di intendere la democrazia.
Questi sono giorni segnati dalla lotta e dall’incertezza. Nonostante ciò, si può prospettare con certezza che la speranza di un cambiamento politico profondo nel paese dipende molto dal dispiegamento della potenza di quest’altra forma di democrazia radicata in forme comunitarie di relazioni sociali.
26 ottobre 2023
Desinformémonos
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Sergio Tischler, “La esperanza como eje de la crisis política”, pubblicato il 26-10-2023 in Desinformémonos, su [https://desinformemonos.org/la-esperanza-como-eje-de-la-crisis-politica/] ultimo accesso 30-10-2023. |