Intervista al giornalista Raúl Zibechi, coordinatore del libro Tempi di collasso III (Baladre-Zambra).
Il giornalista e ricercatore uruguayano Raúl Zibechi ricorda la seguente idea del Subcomandante Marcos, formulata nel 2007: “Le grandi trasformazioni non incominciano in alto né con fatti monumentali ed epici ma con movimenti piccoli nella loro forma e che appaiono come irrilevanti per il politico e l’analista dall’alto”.
Zibechi tira fuori anche un insegnamento del poeta greco Konstantino Kavafis, autore di Viaggio ad Itaca: “L’importante è camminare, molto di più che giungere a qualche meta”.
Lo scrittore montevideano condivide queste riflessioni nell’introduzione del libro collettivo “Tempi di collasso III: Costruzione è lotte dei popoli in resistenza”, pubblicato nel 2021 dal coordinamento Baladre e iniziative sociali Zambra. Coordinato da Aida Morales Franco, Manolo S. Bayona e Raúl Zibechi, l’opera include articoli sul colonialismo in Palestina, dell’attivista Daniel Lobato, la lotta delle/degli occupanti dei Mulini contro il Treno ad Alta Velocità (TAV) in Val Clarea (Torino), il movimento Genuino Contadino e le reti per l’accesso alla terra in Italia (Giovanni Pandolfini), o il Collasso nelle Canarie, dell’Assemblea Canaria per la Ripartizione della Ricchezza, tra gli altri.
– Tu affermi nell’introduzione del libro che “gli stati non sono più una parte della soluzione, perché sono uno dei problemi che affrontiamo”. È un passo avanti la vittoria di un candidato delle sinistre -Gabriel Boric- nelle elezioni presidenziali del Cile (dicembre 2021), di fronte al candidato di ultradestra e ammiratore di Pinochet, José Antonio Kast?
-Il dibattito si centra su quello che può fare Boric rispetto ai temi cruciali del Cile: la ribellione mapuche, la monocoltura estrattivista di pini, la crisi idrica, il sistema privato delle pensioni e della salute, per dirne appena alcuni. La mia convinzione è che non ci saranno cambiamenti strutturali, il modello continuerà ad essere il medesimo, come è successo in tutti i paesi con governi progressisti. In nessuno si sono ottenuti cambiamenti, al contrario sono aumentate l’attività mineraria a cielo aperto, le monocolture di soia e la speculazione immobiliare.
D’altra parte, i governi progressisti indeboliscono i movimenti e i popoli, e anche questa è una costante in tutti i casi. Aumento del capitalismo neoliberale e debolezza dei movimenti. Dopo, quando c’è mancanza di mobilitazione per bloccare la destra, la gente è disorganizzata e, ancor peggio, confusa.
Ma si può anche scegliere un altro scenario, un altro punto di vista: se non vince Boric, vince l’ultradestra. Qui ci sono due aspetti di cui si deve tener conto. Da un lato, impedire che vinca l’ultradestra è importante, ma, dall’altro, il prezzo non può essere la smobilitazione, né disarmare le centinaia di assemblee territoriali che sono nate durante la protesta cilena.
-Nel contesto delle ultime rivolte in America Latina (Cile, Ecuador, Perù, Bolivia, Nicaragua, Haiti o Guatemala), perché evidenzi la protesta sociale iniziata nell’aprile del 2021 in Colombia?
-Perché è il paese dove non c’erano rivolte urbane dall’assassinio di Jorge Eliecer Gaitán nel 1948. In Colombia ha sempre governato l’oligarchia latifondista, non c’è stata una riforma agraria e le lotte erano sempre state incentrate nelle aree rurali. Dal 2019, poco prima della pandemia, e soprattutto dal 28 aprile 2021, il centro della lotta passa nella città.
Credo che le principali organizzazioni colombiane continuino ad essere rurali, contadine, indigene e nere, ma ora si consolida un forte attivismo nelle periferie urbane, con un’enorme creatività culturale e sociale, con una capacità di aprire spazi nella città come è successo a Cali con la creazione di 25 “punti di resistenza”.
Abbiamo finito di pubblicare un libro con compagni del gruppo Kavilando di Medellín e Desdeabajo di Bogotá (“Tra la ribellione e la speranza”), un libro collettivo, dove si raccolgono le enormi creazioni dal basso durante più di tre mesi.
-In che consiste e che importanza -materiale e simbolica- attribuisci al Movimento per la Resistenza, inaugurato nel giugno del 2021 a Santiago de Cali?
-Perché appare l’attivismo giovanile, femminile e nero, che si intreccia con la Guardia Indigena nasa che è giunta a Cali solidarizzando con i poveri della città. Sul lungo periodo questa alleanza farà parlare molto, giacché gli indigeni possono contribuire all’organizzazione urbana, che è dove la repressione agisce in modo più spietato.
Cali è una città meticcia; la metà della popolazione è afrodiscendente e vive nelle peggiori condizioni in quartieri segregati dal resto della città. Cali è stata una città industriale e ora non può offrire un futuro a questa metà povera e nera, di modo che siamo di fronte ad un attivismo che prende coscienza che, o lotta o se lo porta via la repressione. Perché questa è l’alternativa reale.
Durante la rivolta, questo settore si intreccia con giovani di classi medie con formazione universitaria, e creano cose meravigliose. Nei punti di resistenza appaiono biblioteche popolari in locali dove funzionava la polizia di zona, sorgono spazi per il tempo libero, l’arte, danza, musica, creati da quelli e quelle, perché la presenza delle donne è molto alta. I punti di resistenza hanno avuto un forte sostegno da parte del quartiere. Ci sono state abitanti che aprivano le loro porte ai giovani affinché usassero i loro bagni, sapendo che molti di loro erano stati in carcere per piccoli furti.
Voglio dire che per alcune settimane si sono formate relazioni comunitarie, che sono state enormemente creative, come lo straordinario anti-monumento Resisti. La rivolta ha distrutto e simultaneamente ha creato, ha abbattuto la statua di Belalcázar, fondatore della città, e ne ha erette altre in base al lavoro collettivo.
-Passati i mesi di crisi per il COVID-19, “osserviamo che le più trascendentali sollevazioni dei popoli stanno venendo riportate verso l’ovile elettorale”, scrivi. Per esempio?
-Cile, Colombia, tra i più recenti. Mi sembra che questo sia inevitabile, è già un modello nelle lotte sociali. Le grandi rivolte delegittimano i governi e naturalmente la gente cerca un cambio di governo. Non si tratta di giudicare ma di intendere. I popoli hanno bisogno di fare questa esperienza, e questo è qualcosa che non possiamo criticare.
Personalmente, l’unica cosa che dico è che non si aspettino molto da questi governi, la cosa principale è essere organizzati, perché il sistema non risolverà i tuoi problemi. Siamo in un periodo in cui “solo il popolo salva il popolo”, e per questo abbiamo bisogno di essere organizzati.
-Che esperienze di solidarietà, scambio e autorganizzazione popolare evidenzieresti in America Latina durante la pandemia? Che conclusione trarresti da queste iniziative?
-Molte. Da un lato ci sono movimenti formali, istituiti, come quello indigeno del Cauca colombiano, i senza terra del Brasile, la CONAIE dell’Ecuador, in generale i più potenti sono indigeni e contadini, in tutto il continente. Ma stanno nascendo collettivi di nuovo tipo, tanto urbani come rurali, che hanno meno visibilità ma molta energia.
Mi interessa evidenziare l’Unione dei Lavoratori della Terra (UTT) in Argentina, migliaia di famiglie rur-urbane che coltivano alimenti e li distribuiscono attraverso canali propri. La Teia dos Povos del Brasile, un’alleanza di comunità nere, indigene e contadine che nasce nel Bahia e ora è in tutto il paese. Fino ai movimenti meno strutturati, come le centinaia di assemblee territoriali in Cile, le mense comuni in Uruguay, Cile e Paraguay, tra le molte altre esperienze notevoli.
Ancora meno visibili, sono i governi autonomi come quello wampis e quello awajún che si sono formati nel nord del Perù, così come altri processi di autonomia, da quello mapuche fino a quelli amazzonici, che vanno in un direzione simile a quella dello zapatismo, che continua ad essere il principale referente della corrente autonomista.
La mia principale conclusione è che noi, settori popolari, dobbiamo aiutarci tra di noi, perché quelli in alto non lo faranno. Per questo credo fermamente nell’orientamento verso l’autonomia e l’autogoverno.
-In che consiste “l’approfondimento nel radicamento territoriale” delle esperienze, nel caso dei movimenti sociali europei?
-Dalla crisi del 2008, vedo la proliferazione di orti urbani, di centri sociali e culturali, di spazi recuperati. Barcelona, in particolare il quartiere di Sants, è un referente ineludibile, dove coesistono decine di cooperative con sindacati di abitazioni e un’enorme fabbrica recuperata come Can Batlló.
Ma conosco una Fattoria Senza Padroni vicino a Firenze, fabbriche recuperate ad Atene e Milano, decine di iniziative di spazi comuni e perfino un intero quartiere recuperato, come Errekaleor a Gasteiz/Vitoria. Sono nati anche, edifici “alternativi” e sostenibili, come Entrepatios a Madrid. Dico che il “mondo altro” continua ad essere piccolo e minoritario, ma non è più marginale, né in America Latina né in Europa.
-Avverti nel tuo articolo di un presente attraversato dalla confusione, anche dalla disperazione, paure e angosce che possono condurre a vie d’uscita individualiste o a una ricerca di sicurezza nel fascismo. Includeresti in questa riflessione la militanza dei movimenti sociali?
-Può essere, anche se penso piuttosto alla popolazione non organizzata. In Messico e in Colombia ci sono organizzazioni sociali che ora agiscono come paramilitari, e questo è un trionfo della politica controinsurrezionale. D’altra parte, ci sono molte organizzazioni che sono state cooptate dallo stato e possono allontanarsi in un sostenendo uscite di ultradestra. Ma è ancora molto presto per poterlo analizzare.
-Da ultimo, consideri che l’umanità si trova di fronte ad una crisi civilizzatrice? (come conseguenza della cosiddetta influenza spagnola del 1918 morirono tra i 20 e i 40 milioni di persone).
-Tutto è relativo. In due anni per Covid ne sono morte 5,5 milioni. Ma ogni anno ne muoiono 7 milioni per la contaminazione dell’aria (https://ourworldindata.org/data-review-air-pollution-deaths) e altri 4 milioni per l’acqua contaminata (https://elpais.com/sociedad/2010/03/22/actualidad/1269212403_850215.htm). Ossia, credo che bisogna relativizzare tanto l’influenza spagnola come la pandemia di Covid che, effettivamente, è molto nociva ma non dobbiamo dimenticare gli altri problemi gravi.
Credo che siamo di fronte ad una crisi civilizzatrice che è cominciata prima della pandemia e che ora si è approfondita, che ha vari nuclei ma il principale è la disuguaglianza, di potere e di reddito. Ma non voglio nemmeno salvare una civiltà che è patriarcale, capitalista e coloniale/razzista, e che è quella che ha provocato questa pandemia.
Immagine: Colectivo Manifiesto; fonte La Tinta
13/01/2022
Rebelión
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Enric Llopis, “Estamos ante una crisis civilizatoria que comenzó antes de la pandemia” pubblicato il 13-01-2022 in Rebelión, su [https://rebelion.org/estamos-ante-una-crisis-civilizatoria-que-comenzo-antes-de-la-pandemia/] ultimo accesso 15-01-2022. |