Il linguista Noam Chomsky e la poetessa Margaret Randall tra i firmatari della petizione-appello inviata ai governanti del Nicaragua in cui si afferma che «i crimini del governo degli Stati Uniti, passati e presenti, non sono la causa, né giustificano o legittimano i crimini contro l’umanità commessi dall’attuale regime di Daniel Ortega e Rosario Murillo». Le storie degli internazionalisti ai tempi dell’orteguismo.
Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non può essere usato per dire nulla (Umberto Eco, Trattato di semiotica generale).
All’inizio del mese di luglio oltre cinquecento statunitensi sostenitori della Rivoluzione Popolare Sandinista, molti dei quali volontari o cooperanti negli anni Ottanta, hanno sottoscritto una petizione-appello inviata ai governanti del Nicaragua, affermando che «i crimini del governo degli Stati Uniti, passati e presenti, non sono la causa, né giustificano o legittimano i crimini contro l’umanità commessi dall’attuale regime di Daniel Ortega e Rosario Murillo». Una posizione chiara, senza possibili fraintendimenti. Fra i firmatari, il linguista Noam Chomsky e la poetessa Margaret Randall. Non certo tacciabili di tendenze destrorse o di essere agenti della CIA. Però, se Lula soffre della sindrome di Stoccolma, secondo i corifei orteguisti più intransigenti, probabilmente loro hanno il problema della demenza senile.
Quella rivoluzione del 1979 non solo aveva distrutto la quarantennale dittatura della famiglia Somoza, ma aveva ricevuto una enorme e fattiva solidarietà da parte dei progressisti e della sinistra in tutto il mondo. Che finalmente intravedeva una via possibile per un nuovo tipo di società rispetto alle storture dell’Est e all’arroganza dell’Ovest. Da allora, oltre ad armare la contra, gli Stati Uniti hanno fornito lauti e costanti finanziamenti ad alcuni gruppi dell’opposizione interna. Ma, secondo i nostrani corifei acefali della propaganda, ripetendo come pappagalli la versione ufficiale, il governo di Washington ha ricominciato nel 2007 a sborsare milioni su milioni per ostacolare in ogni modo Daniel Ortega, dopo un quindicennio abbondante di pessimi governi neoliberisti. Viene da chiedersi: non se ne sono accorti prima in Nicaragua? Dov’era Néstor Moncada Lau con tutto il suo capillare apparato di sicurezza e i suoi infiltrati in ogni luogo? Ma questa è un’altra storia, direbbe Carlo Lucarelli.
È indubbio che dalle proteste di massa del 2018 a oggi si sia verificata una profonda spaccatura ideologica (e di conseguente analisi storico-politica) nella sinistra a livello internazionale: una parte punta tutte le sue carte sul fatto che il Nicaragua sta vivendo un rinnovato e splendido processo rivoluzionario (la segunda etapa de la revolución) e l’altra propone una interpretazione assai meno manichea che vede una involuzione di tipo reazionario dietro la facciata retorica di parole d’ordine rivoluzionarie e antimperialiste. E pensa che il Nicaragua stia trasformandosi nella piccola isola della baia californiana di San Francisco, dove un tempo abitavano i pellicani e dalla quale in molti tentavano di fuggire.
Basterebbe riflettere con la mente sgombra da pregiudizi sul fatto che il COSEP (la locale Confindustria), la CEN (Conferenza episcopale nicaraguense) con il vecchio Obando y Bravo in testa e persino una buona fetta di quelli che negli anni Ottanta facevano parte della contra a partire da colui che fu eletto alla vicepresidenza nel 2007, Jaime Morales Carazo, decisero di sostenere Ortega. In un patto scellerato che coniugava lo sviluppo del neoliberismo con un discorso rivoluzionario che non corrispondeva più a nessun programma o a una condotta politica chiaramente di sinistra o di destra, se non quella di promuovere i propri interessi personali e di gruppo, assicurandosi un posto nel blocco dominante.
Se fosse sufficiente un buon Welfare State per avere il socialismo, noi italiani avevamo quello migliore al mondo fino a qualche decennio fa. Eppure facevamo tutto il possibile per cacciare la DC e i suoi alleati dal governo, senza capire che stavano costruendo il socialismo. A questo proposito, ci torna in mente un comizio del ragazzo rosso Giancarlo Pajetta nel periodo del cosiddetto «centro-sinistra organico»: se vogliono fare loro il socialismo, comincino pure, non abbiamo il monopolio.
E lo stesso dicasi per gli investimenti nelle infrastrutture: strade, scuole, ospedali, energia elettrica, ecc. Certamente è un miglioramento nella vita delle masse popolari, ma a nostro avviso è solo un piccolissimo passo. Soprattutto, non serve per distinguere due sistemi che dovrebbero basarsi su scelte economico-sociali profondamente diverse e contrapposte.
Se su questo terreno è stato fatto parecchio, e la cosa è innegabile, in campo economico dal 2007 a oggi l’ormai eterno presidente pseudo-sandinista ha difeso con forza i rapporti di proprietà esistenti, ricevendo elogi a non finire dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale per le sue scelte di politica pro-capitalista e pro-transnazionali. Non solo il locale COSEP, ma lo stesso governo yanque ha più volte applaudito sia per queste scelte sia per la sempre più stretta cooperazione con il Comando militare Sud dei marines (quello di stanza a Panamá, la mai sufficientemente vituperata School of Americas dalla quale sono usciti tutti i vecchi dittatori latinoamericani), la Drug Enforcement Agency e le politiche draconiane sull’immigrazione.
Nonostante le indicazioni di numerosi economisti di sinistra, provenienti da vari Paesi, il governo non ha mai sviluppato nessuna delle politiche tipicamente associate a un’agenda orientata al socialismo. Da questo punto di vista, il presidente in carica da un quindicennio no sirve. Neppure ha capitalisticamente realizzato una minima industria di trasformazione che consentisse la vendita di prodotti finiti e non solo di materie prime: continua a esportare cacao e a importare cioccolate marca Nestlé. Continua a esportare notevoli quantità di oro e non gioielli (nel 2020 l’oro è diventato la più cospicua entrata nelle esportazioni), oltre a un’altra merce, intendendo marxianamente il termine, denominata mano d’opera. Pure sotto questo aspetto, no sirve. Nulla è stato investito per meccanizzare l’agricoltura, per creare sistemi di irrigazione efficienti e per sviluppare la produzione biologica che ha un mercato in costante crescita. Neppure hanno mai pensato di sostituire le sportine di plastica dei supermercati con altre fatte con gli scarti del mais: altro che «Somos hijos del maíz, constructores de surcos y de sueños» (Luis Enrique Mejía Godoy, 1982).
In compenso, si fa l’elemosina ai più bisognosi, regalando loro qualche lamina di zinco per il tetto o il «paquete AFA» (zucchero, fagioli e riso), tanto per farli mangiare gratis alcuni giorni e osannare la generosità del gobierno solidario. Regalie che non cambiano una pizca della loro condizione di vita. Ormai neppure più la Caritas si comporta in questo modo paternalistico. O, in vista delle elezioni, si concedono dieci giorni di vacanze pagate ai dipendenti pubblici e statali in occasione delle prossime Feste Patriottiche (14 e 15 settembre). In uno dei paesi con il maggior numero di festività che, in più, se cadono di domenica, sono recuperate il lunedì. Ma che, un anno dopo l’altro, il ministero del Lavoro deve stabilire che il 1° maggio è festivo, poiché non lo è ufficialmente.
Eppure, grazie al Venezuela, per dieci anni il Nicaragua ha avuto a disposizione un milione di dollari al giorno, circa quattro miliardi in totale. Più tutti i prestiti e le donazioni di vari Paesi e organismi internazionali. Stando ai dati ufficiali nel 2007 il debito estero era di 3.415 milioni di dollari, salito a 11.512 nel 2017, oltre il triplo. Negli ultimi anni, le leggi finanziarie sono in deficit, prevedendo di colmare il divario fra le entrate e le uscite con ulteriori prestiti (scritto nero su bianco). Tant’è che dal 2007 Daniel non ha mai parlato della deuda eterna… creata da lui stesso.
Può essere definito socialista un paese dove il 96% della proprietà è in mani private? Parliamo ovviamente di banche, industrie di vario tipo piccole e grandi, ecc. ecc., non di televisori o automobili. E tralasciamo i sogni nel cassetto come il Canale del Nicaragua o la mega-raffineria «Supremo sueño de Bolívar». Stendiamo pure un velo pietoso sulle inutili cattedrali nel deserto come il laboratorio biologico Mechnikov.
In compenso, dagli anni Novanta fino ad oggi si è verificata una sempre più vasta espansione degli investimenti nazionali e transnazionali in operazioni minerarie (soprattutto il suddetto oro), disboscamento persino nelle aree protette (nelle quali c’è chi sospetta si creino apposta quegli incendi che stranamente non avvengono nelle aree non protette), agroindustria, turismo e zone franche. Nessun mutamento rispetto al modello estrattivo neoliberista, anzi peggiorato.
Eppure, negli anni Ottanta uno dei punti cardine del Nicaragua Libre era l’economia mista. Che più o meno funzionava, nonostante il blocco economico e commerciale e una guerra di aggressione che non esistono più dal 1990.
Tralasciando la questione della disoccupazione, della sottoccupazione e del lavoro informale, da alcuni anni si propaganda il raggiungimento della sovranità alimentare (da noi si chiamava autarchia). Peccato che poche settimane fa, il 4 agosto 2021, il governo stesso ha dichiarato che si prevede il raggiungimento del 95% di questo obiettivo nel 2026. Esattamente quando scadrà il prossimo mandato presidenziale. Chissà se è solo una coincidenza?
Qualcuno forse ricorda che nel settembre del 1990, alla festa nazionale di l’Unità, Daniel affermò chiaramente che non può esistere democrazia nel capitalismo. Rimbeccando il traduttore decisamente impacciato di fronte a una dichiarazione simile, difficilmente accettabile per il nuovo partito nato sulle ceneri del PCI. Oggi come oggi, quelle parole si dimostrano tragicamente vere nello stesso Nicaragua.
Per non parlare dei rapporti internazionali, che all’epoca della Rivoluzione Popolare si basavano sul non allineamento. Oggi sono privilegiati quelli con l’Egitto, la Turchia, la Russia, la Bielorussia… senza dubbio campioni di libertà e di democrazia.
Tutto ciò, e tantissimo altro, è assolutamente tabù per i suddetti corifei nostrani, a partire da un romano de Roma che ci fa venire l’orticaria ogni volta che lo leggiamo. Proprio grazie a questa sua disinteressata propaganda talebana spesso basata su argomenti dantescamente «falsi e bugiardi», quando non tergiversati o inventati di sana pianta, riesce persino a farsi pagare un viaggio con relativo soggiorno. Ne abbiamo parlato alcune settimane fa, ma repetita juvant. Il cittadino di uno dei Paesi più sviluppati al mondo, nel luglio del 2019 si è fatto un viaggetto gratis a spese dal secondo Paese più povero del continente americano. Davvero un bell’esempio di coerenza rivoluzionaria e di solidarietà. Questo pseudo-giornalista embedded merita una standing ovation.
A questo punto è opportuno stabilire una verità storica: i finanziamenti del National Endowment for Democracy (NED) in Nicaragua, iniziati a metà degli anni Ottanta, non sono mai cessati. Neppure per un secondo. È infatti una balla clamorosa che siano ripresi nel 2007: «è il ruolo della CIA nella costruzione dell’opposizione sovversiva al governo sandinista iniziata subito dopo l’insediamento nel Gennaio 2007 e culminata nel tentativo di colpo di Stato del 2018», aveva scritto il falsificatore specializzato de Roma (6 giugno 2021). In realtà, dopo la derrota electoral del Frente nel 1990 il NED ha continuato imperterrito a sostenere quella che era l’opposizione (contro tutti i pronostici diventata governo), con il fine di farle conquistare l’egemonia all’interno della società civile. E ha proseguito senza interruzioni fino a oggi. Inutilmente, perché la destra nicaraguense è talmente troglodita che da sola non è in grado neppure di fare una “O” con il bicchiere.
C’è da dire che il nostro corifeo romano, che prendiamo come «modello», di certo non conosce la storia del NED, fondazione creata nel 1983 da Ronald Reagan, ma congiuntamente sostenuta da repubblicani e democratici. Per cui approfittiamo dell’occasione per dargli alcune dritte. Fino agli anni Novanta è un’agenzia poco nota collegata alla United States Agency for International Development (USAID), fondata nel 1961 da J.F.K. È finanziato principalmente dal governo attraverso stanziamenti annuali e soggetto alla supervisione del Congresso. Attualmente finanzia parecchi progetti in giro per il mondo (circa duemila), nella maggior parte in Paesi non certo nemici di Washington. Negli ultimi cinque anni ha investito in Nicaragua circa sei milioni di dollari, ma nello stesso periodo una cifra identica è arrivata in Guatemala, in Honduras e in Colombia. Invece, oltre 25 milioni di dollari li ha spesi per destabilizzare Cuba. Solo un cieco può non notare la differenza.
Inutile dire che sui finanziamenti non ci sono segreti da nascondere per il NED, anche se vengono spacciati come scoop sia in Nicaragua sia dal nostro buon romano de Roma che scopre l’acqua calda in America: nel loro sito compaiono tutti i finanziamenti dell’anno precedente. Lo scorso anno in Nicaragua è arrivato un milione e mezzo di dollari. Per Cuba ha investito tre volte tanto e la differenza è indicativa su chi vuole davvero destabilizzare.
Il bello è che l’ultra-destra accusa il NED di essere socialdemocratico, termine che per i gringos equivale a Satana. Facciamoci sopra una bella risata e passiamo oltre.
Assai diversa la questione per USAID, che non rende noto nulla. Però, come ciliegina sulla torta, che andrà di traverso al talebano de Roma, dal 2007 al 2020 una buona fetta dei finanziamenti dell’USAID sono andati direttamente al governo per progetti in campo sanitario, educativo o per emergenze (ultimi in ordine di tempo 6,6 milioni di dollari per i due uragani dello scorso anno e 750mila dollari per la pandemia di Covid-19). Ha finanziato pure la magistratura, la procura della Repubblica e la polizia, che adesso stanno indagando su come l’opposizione ha gestito i dollari ricevuti (assai meno di quelli andati al governo). Per la cronaca, spesso e volentieri, fino alla metà di aprile del 2018 Rosario Murillo nei suoi sproloqui quotidiani definiva «hermanos» i funzionari di questa agenzia che, stando alla attuale propaganda, è preposta al finanziamento esclusivo di progetti di destabilizzazione.
Un esempio indiscutibile di quanto affermiamo è che nel corso delle proteste del 2018 l’ambasciata yanque a Managua, che gestisce i fondi di USAID, ha chiesto al governo la restituzione o il pagamento di veicoli donati alla polizia. Nel corso degli scontri, si vedevano infatti alcuni di questi che recavano la scritta «Donación USAID». Restituiti senza polemiche.
Si potrebbe discutere sulla logica di finanziare l’opposizione perché faccia un golpe e al tempo stesso fornire mezzi e addestramento alle forze dell’ordine e all’esercito (svolgendo pure manovre congiunte con i marines). Ma sorvoliamo perché il solo pensiero di dover ragionare su questi fatti manderebbe in tilt i cervelli di tutti i corifei. Nonostante tutto, sapendo bene cosa siano l’USAID e il NED, ci piacerebbe essere smentiti, con documenti e non con chiacchiere.
Ciò che non vogliono vedere coloro che dividono il mondo in bianco e nero, scartando a priori qualsiasi possibilità di grigio, a partire dal suddetto talebano, è che dal 2007 i settori popolari sono intrappolati tra un sistema politico-economico che si autodefinisce rivoluzionario e la tradizionale oligarchia, senza alcun dubbio appoggiata e finanziata da istituzioni internazionali di destra, la quale ha fatto di tutto per sfruttare una massiccia protesta popolare nata spontaneamente e che ha stupito prima di tutti l’allora ambasciatrice Laura Dogu.
Fra coloro che invece vedono la situazione alquanto grigia vi sono parecchi internazionalisti degli anni Ottanta, quelli che all’epoca la destra definiva sandalistas e ormai stabilitisi da decenni in Nicaragua, costretti a fuggire dal Paese o per scelta o per obbligo, solo per avere fatto uso di quella che si chiama «libertà di espressione». Teoricamente tutelata dalla Costituzione, ma se non basta la sorveglianza continua e assillante per convincerli ad andarsene (come hanno fatto noti personaggi dell’epoca rivoluzionaria, dal comandante Luis Carrión, a Mónica Baltodano, a Sergio Ramírez… tutti autoesiliati), è sufficiente non rinnovare loro la residenza con qualche scusa burocratica e il gioco è fatto. Mica ti proibiamo di parlare, solo ti impediamo di vivere nel nostro Paese. Qualcuno lo conosciamo personalmente.
Dall’altra parte della barricata, alcuni si sono messi il paraocchi, per convinzione o per opportunismo poco importa, e sono stati insigniti di una bella onorificenza. Mica possono pagargli un viaggio-premio, visto che già vivono nel Paese. Pure in questa seconda categoria conosciamo qualcuno.
Chissà chi, fra gli uni e gli altri, è dal lato sbagliato della storia? Sarà la storia a dirlo. Ammesso che sia davvero magistra vitae: «la storia dei secoli passati è una grande maestra di vita, ma la storia dei nostri giorni, la cronaca, quella è una professoressa addirittura» (Antonio Gramsci).
E chissà se tutti coloro che, in giro per il mondo, hanno pubblicamente espresso le loro critiche potranno mettere o rimettere piede in Nicaragua nei prossimi anni?
*Nella foto: Benjamin Ernest Linder, giovane ingegnere statunitense assassinato dalla contra il 28 aprile 1987 assieme a due compagni di lavoro, Sergio Hernández e Pablo Rosales, nella zona di San José de Bocay. Una sua sagoma in ferro sul monociclo venne installata a pochi passi dalla casa della famiglia Ortega e, per due o tre anni, il parco di El Carmen si intitolò «Parque Benjamín Linder». A lui, che «da grande» voleva far divertire i bambini, dedichiamo questo articolo.
27 agosto 2021
La Bottega del Barbieri
Bái Qiú’ēn, “2021: Fuga dal Nicaragua” pubblicato il 27-08-2021 in La Bottega del Barbieri, su [https://www.labottegadelbarbieri.org/2021-fuga-dal-nicaragua/] ultimo accesso 07-09-2021. |