I cosiddetti governi progressisti nella nostra regione continuano a dare molteplici impatti negativi sui movimenti popolari e i popoli in movimento. Così come siamo usciti dalle dittature più forti e meglio organizzati, dai periodi progressisti usciamo divisi e debilitati, per una doppia pinza di isolamento e repressione.
Ci isolano dispiegando miserabili politiche sociali e continuano a reprimerci con il medesimo o maggiore accanimento di prima. L’aspetto chiave, il nucleo che permette tanto l’isolamento come la repressione, è la legittimità che hanno questi governi, e con loro l’apparato statale, che gli permette di fare quasi qualsiasi sproposito senza subirne seri costi politici.
Si presentano come anti-neoliberali anche se continuano a portare avanti l’estrattivismo, l’attività mineraria e le grandi opere di infrastruttura. Inalberano un discorso contro la destra ma governano con i medesimi modi e obiettivi, ossia l’accumulazione sfrenata di capitale. In gran misura, la loro legittimità si deve a certi capi che si abbeverano nella cultura patriarcal-coloniale che ha formattato le nostre repubbliche.
Acquisiscono una simile legittimità perché, dopo decenni di dolore e sangue, la gente ha bisogno di credere, con la medesima devozione di chi va a messa, con atteggiamenti che non ammettono discussione perché sono verità che i capi scendano dal cielo per il consumo delle masse.
I progressismi hanno qualcosa a loro favore, che mai hanno avuto le destre: nei posti di comando inglobano funzionari che provengono dai movimenti o dalle loro periferie, che conoscono molto bene la cultura della contestazione, i modi delle e dei militanti e, pertanto, i nostri punti deboli. Il potere li utilizza per distruggerci e dopo li butta nella discarica della storia, come direbbe Marx.
Coloro che hanno venduto la propria coscienza per un pugno di dollari e un quarto d’ora di potere e di brillio mediatico, dovrebbero mirare il destino dei quadri del PT del Brasile, che sono finiti nell’anonimato e scontano condanne, disprezzati tanto da quelli in alto come da quelli in basso. L’operazione si ripete, un’altra volta, in Argentina e in Ecuador, dove buona parte di questi quadri sono finiti dimenticati anche da coloro che li hanno fatti salire in groppa.
Per noi che persistiamo nell’anticapitalismo, questi governi sono un incubo. Ma, soprattutto, sono il maggior pericolo che incombe sulle classi popolari, i popoli originari e i neri. Nel Cono Sud, non abbiamo trovato una via d’uscita a questa situazione, e il ritorno delle destre al governo ci ha trovati enormemente indeboliti e, sopratutto, senza un progetto proprio.
Per quanto sopra, credo che l’iniziativa dell’EZLN delineata nel comunicato del 5 ottobre “Una montagna in alto mare”, segna una direzione importante: il gemellaggio di resistenze e ribellioni al di là delle frontiere nazionali, di montagne e di mari.
Il cammino tracciato consiste nel camminare/navigare per “trovare quello che ci rende uguali”, le resistenze di qualunque geografia che sono “piste di un’umanità che si rifiuta di seguire il sistema nel suo affrettato passo verso il collasso”, come dice il comunicato.
“Ribellioni e resistenze che intendono, ciascuna a modo suo, a suo tempo e nella sua geografia, che le soluzioni non sono nell’orizzonte dei governi nazionali, non si sviluppano protette da frontiere né vestono bandiere e lingue diverse”. Riconoscerci, guardarci, avvicinarci e continuare a camminare uniti, un esercizio che in piena pandemia è più necessario che mai.
Fedeli alla propria traiettoria e al proprio modo di vedere il mondo, gli zapatisti cercano di aprire spazi d’incontro tra quelle e quelli che lottano, invece di costruire apparati burocratici che inalberano la “unità” come nucleo del processo emancipatorio che, in realtà, si trasforma in nuovi modi di dominazione imponendo all’insieme del mondo anti-capitalista una direzione unica e centralizzata, che comanda senza obbedire alle basi.
Questo tipo di apparati, come i partiti e le chiese, incarnano i modi patriarcali e coloniali di fare politica, che si limitano a cambiare chi sta in alto, ma lascia intatto il modello, le sue forme di agire e perfino i suoi obiettivi.
Aprire nuovi spazi e luoghi di incontro tra noi che resistiamo, cerca di superare l’isolamento e il confino al quale ci vogliono sottoporre i potenti per continuare meglio nei propri affari. Sappiamo che non basta, ma è un passo ineludibile per rompere l’accerchiamento politico, militare e informatico del progressismo messicano e regionale.
Come nel poema “Viaggio ad Itaca” di Konstantino Kavafis, desideriamo che “il cammino sia lungo, pieno di avventure, pieno di esperienze”. Perché la cosa importante non è dove giungiamo ma il medesimo cammino, gli incontri e gli affratellamenti tra quelli in basso in lotta.
12 ottobre 2020
Desinformémonos
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Raúl Zibechi, “Romper el cerco, navegando el mundo” pubblicato il 12/10/2020 in Desinformémonos, su [https://desinformemonos.org/romper-el-cerco-navegando-el-mundo/?fbclid=IwAR2kOVoGfy7r1Z6CN04WDgxDXqznEoeZaQQ97Tk4_lYLI1laV5ESxtQA_vY] ultimo accesso 17-10-2020. |