Il dibattito sulla Bolivia e il ruolo di García Linera nella stagnazione del processo di cambiamenti


Mauro Alcócer Hurtado

A sei mesi dal sanguinoso golpe fascista in Bolivia del 10 novembre 2019 che abbatté il governo di Evo Morales, è iniziato un dibattito sulle cause che hanno portato a questa terribile conclusione.

Al riguardo, alcuni autori boliviani hanno già pubblicato studi ancora preliminari: Rafael Bautista (“Bolivia: genesi e natura del golpe”), Jorge Viaña (“Il ciclo statale delle lotte in Bolivia 2006-2019, cronaca di una morte annunciata”) e Hugo Moldiz (Colpo di stato in Bolivia, la solitudine di Evo Morales”). Il fatto curioso è che, finora, nessuno dei più importanti dirigenti del precedente governo ha effettuato un’integrale autocritica politica. Anche se si deve riconoscere che effettuano campagne internazionali denunciando il governo golpista di Jeanine Añez, l’uno non vale per l’altro; denunciare il golpe non sostituisce la necessità di un bilancio dei risultati e degli errori.

Per cui richiama di più l’attenzione è il silenzio di Álvaro García Linera su questo tema, che per quasi 14 anni è stato il vicepresidente di Evo Morales. Fungendo da ideologo nel medesimo tempo in cui era gestore pubblico, García Linera è stato Presidente dell’Assemblea Legislativa (Congresso nazionale dei deputati e senatori) e membro permanente dei gabinetti di Morales nel potere esecutivo. Non c’era nessun tema (economico, politico, sociale, comunicativo, ambientale, di relazioni estere, di sicurezza) del governo a cui non partecipasse, per cui stiamo parlando di una persona chiave per il processo politico giacché le sue idee influivano decisamente -per il bene o per il male- nelle azioni governative. Stando così, può Álvaro García continuare ad evadere il dibattito?

Dopo il colpo di stato, in Bolivia le cose non hanno fatto altro che peggiorare. La repressione militare e poliziesca, che ha già lasciato un saldo di almeno 35 morti nei massacri di Yapacaní, Sacaba e Senk’ata, nelle ultime settimane si è intensificata con l’illegale incarcerazione di centinaia di attivisti sociali che guidano le proteste, così come di cibernauti che esprimo critiche al governo di fatto. L’economia è sprofondata nella recessione e nella disoccupazione, con gravi conseguenze di scarsità e rincari degli alimenti e delle medicine. I diritti lavorativi sono quotidianamente lesi lasciando i lavoratori in una precaria situazione. Gli abusi razzisti contro gli originari aymara e quechua sono cosa comune in un paese che, fino a poco fa, si vantava di essere quello che in Latinoamerica era più avanzato nell’inclusione sociale. La crisi per la pandemia del Covid-19 (le cui vere dimensioni il governo della Añez sta occultando al popolo e alla comunità internazionale) potrebbe fare in Bolivia 4.000 morti e 48.000 persone infettate, secondo le proiezioni dell’ex ministro della salute, Aníbal Cruz, cessato nell’incarico per essersi rifiutato di manipolare l’informazione.

Noi che siamo rimasti in Bolivia lottando contro i golpisti che hanno osato bruciare la nostra wiphala, abbiamo l’obbligo di analizzare criticamente il “proceso di cambio”, per non tornare a commettere gli errori che hanno portato alla sua sconfitta. È in questo contesto che convochiamo García Linera ad assumere le proprie responsabilità essendo l’autore intellettuale di due concetti non rivoluzionari che hanno portato ad una pratica governativa che ha bloccato, da dentro, il processo di trasformazioni durante il governo di Evo Morales. Questi due concetti sono stati: 1) Il progetto del “capitalismo andino” come obiettivo della cosiddetta rivoluzione democratica e culturale, fissandola a politiche di moderazione pattuita, che hanno finito con il salvaguardare il capitalismo estrattivista. 2) L’atteggiamento collaborazionista con la borghesia, definendola niente meno che “alleata del processo”, con la logica che i grandi investitori privati costituiscono il soggetto economico necessario per il “capitalismo andino”.

Il “capitalismo andino”. A metà del 2005, dopo una traiettoria politica nell’indianismo cercando di organizzare la ribellione delle comunità aymara con la teoria marxista, che gli costò vari anni di carcere, Álvaro García fu designato dal Movimento al Socialismo (MAS) ad accompagnare Evo Morales nel binomio elettorale. Allora già stava sorprendendo per il suo tono politicamente discreto, molto lontano da qualsiasi radicalismo, che si sforzava di mostrare come opinionista in un programma televisivo chiamato “Il Pentagono”. Come parte di questa riconversione politica e negando tutto quello che aveva scritto negli anni novanta, fece conoscere in quel 2005 la sua proposta del “capitalismo andino”, espressa inizialmente nel seguente modo:

“Il nostro obiettivo non può essere il socialismo giacché non sono date le condizioni materiali per quello. Con una formulazione più concreta propongo un modello di capitalismo adeguato alle caratteristiche del nostro paese, provvisoriamente denomineremo questo modello capitalismo andino amazzonico” [ii].

Le critiche rivoluzionarie a questo pensiero conservatore non si fecero attendere, ma Álvaro García rispondeva in modo petulante: “Osserviamo in Bolivia questa sinistra cadaverica, degli anni 50 e 70, pseudo marxista, che è già un fantasma, di fronte alla quale sorge una nuova sinistra indigena di azione collettiva con una sua propria struttura, ideologia e simbologie” [iii].

Siccome i rimproveri dei veri comunitaristi non cessarono e venivano anche dalle fila del Movimento al Socialismo, il candidato alla vicepresidenza dovette cambiare il suo iniziale pensiero, cercando di far intendere che non si era riferito ad un modello economico che solo il sistema capitalista amministra, ma che stava parlando di una lunga fase di transizione postneoliberale. Lo fece in un articolo che scrisse nel gennaio del 2006, nelle cui parti essenziali si poteva leggere:

“Il trionfo del MAS apre una possibilità di trasformazione radicale della società e dello stato, ma non in una prospettiva socialista (almeno a breve termine), come propone una parte della sinistra. Attualmente ci sono due ragioni che non permettono di visualizzare la possibilità di un regime socialista nel nostro paese. Da un lato esiste un proletariato minoritario demograficamente e inesistente politicamente; e non si costruisce socialismo senza proletariato. Secondo: il potenziale comunitarista agrario e urbano è molto debilitato (…) Il potenziale comunitario che scorgerebbe la possibilità di un regime comunitarista socialista passa, in ogni caso, per il potenziamento delle piccole reti comunitariste che ancora sopravvivono e arricchirle. Questo permetterebbe, in 20 o 30 anni, di poter pensare ad una utopia socialista (…) Le sfide della sinistra nella gestione degli affari pubblici si incammineranno fondamentalmente nella messa in marcia di un nuovo modello economico che ho denominato, provvisoriamente, ‘capitalismo andino-amazzonico’. Come dire, la costruzione di uno stato forte, che regoli l’espansione dell’economia industriale, estragga le sue eccedenze e le trasferisca all’ambito comunitario per potenziare forme di autorganizzazione e di sviluppo mercantile propriamente andino e amazzonico” [iv].

In questa conclusione c’è una frode storica: “non si costruisce socialismo senza proletariato”. Meno male che non furono guidati da questo assioma i rivoluzionari in Vietnam o Cuba, dove il proletariato era demograficamente molto piccolo. Lì sono durati effettuando vere rivoluzioni di orientamento socialista, con le conseguenti misure di trasformazione strutturale.

Ma lasciamo che sia lo stesso García, non il raffinato gradualista del 2005 ma il ribelle socialista del 1991, che risponda alla frode:

“Marx ci mostra che queste lotte di queste masse non capitaliste possono assumere un profondo carattere rivoluzionario adottando il ‘punto di vista del proletariato’, questo è, che in determinate condizioni le lotte delle masse lavoratrici non capitaliste contro l’avanzata borghese possono assumere il medesimo carattere progressivo e rivoluzionario di quello, che in un determinato momento possono adottare quelle del proletariato” [v].

“La possibilità di rivoluzionarizzare la società non si basa né sulla quantità di queste forze produttive, né sul numero di questi proletari, ma, sull’esistenza più o meno generalizzata di questi, qualsiasi sia il loro numero, nella lotta radicale del lavoro vivo per autodeterminarsi al di sopra e contro dell’essere imposto dalla borghesia” [vi].

Come si intende questa contraddizione così flagrante tra quello che scriveva García nei novanta e quello che fece quando quindici anni dopo fece parte del governo? Certamente non obbedisce ad una maturazione teorica perché, se questo fosse il caso, da lui sarebbe stato scritto qualche libro nel quale revisiona i suoi postulati di gioventù che abbiamo letto nelle sue opere “Di demoni nascosti e momenti di rivoluzione” (1991) e “Forma valore, forma comunità” (1995). Ma non ce n’è nessuno. Per questo si può giudicare quello fatto da Álvaro García come un cambiamento pragmatico, carente di onestà intellettuale.

Ma questa non è l’unica osservazione alla via gradualista proposta da García nel 2006. Iniziando il governo di Morales, il suo vicepresidente propose un obiettivo pratico, che nei seguenti anni si evidenzierà come un inganno: che bisogna “cavalcare” dentro il capitalismo postneoliberale, per potenziare lo stato e rafforzare le reti comunitarie, per poter pensare così, in un lontano futuro (20 o 30 anni), ad una utopia socialista.

Quattordici anni fa, quando stava iniziando il governo di Evo Morales, noi comunitaristi abbiamo affermato che, con la sua teoria del cambiamento graduale (prima il “postneoliberalismo”, dopo il “postcapitalismo”) formulata in termini così volatili, Álvaro García avrebbe condannato il processo di trasformazione boliviano a rimanere dentro i limiti del capitalismo. Non fummo gli unici nel mettere in allarme su questo pericolo, ricordiamo quello che scrisse il fratello Raúl Prada Alcoreza, un conosciuto pensatore marxista in Bolivia: “Prospettare il capitalismo andino dopo sei anni di lotte per la sovranità, contro le poliformi strutture coloniali, non è altro che proporre un nuovo colonialismo interno che continuerà a distruggere le relazioni comunitarie in una decodificazione culturale e una colonizzazione di corpi su una patria ristretta”.

Opportunamente e con simili parole, noi comunitaristi avvisammo Evo Morales che il suo vicepresidente stava utilizzando il suo passato politico in modo opportunista, per mostrarsi come un quadro teorico per una avanzata quando, nei fatti, avrebbe finito con il convertirsi in un ostacolo per l’avanzata del programma di trasformazioni rivoluzionarie in Bolivia. Oggi, con i fatti consumati nel nostro paese, possiamo dire con tristezza che la realtà ci ha dato ragione.

Il collaborazionismo con la borghesia. La conclusione politica ed economica che deriva dalla promessa di costruire un “capitalismo andino” è che bisogna ottenere la collaborazione della borghesia, che si cominciò a denominare “nazionale e patriottica”.

Il proposito di rafforzare una “borghesia nazionale” per una via autonoma di sviluppo, molto tempo fa si è dimostrato che è una chimera e già nessuno studioso serio propone qualcosa di simile. Nel dibattito economico [vii] continentale di più di mezzo secolo è rimasto scolpito che non ci può essere una “borghesia nazionale” in America Latina, ancor meno in Bolivia. Se una volta si è potuto pensare che sorgesse, fu nel periodo successivo alla grande depressione capitalista iniziata nel 1929, quando in alcuni paesi (Argentina, Messico, Brasile) si cercò di applicare il modello di industrializzazione sostitutiva delle importazioni. Ma, esaurendosi questo modello con la grande espansione economica dopo la seconda guerra mondiale con il predominio del capitalismo statunitense, la cosiddetta “borghesia nazionale”, nella misura in cui si articolava al mercato mondiale, passò con l’essere sempre più dipendente dai grandi capitali transnazionali.

Una caratteristica dei progetti che propongono lo sviluppo dentro il capitalismo con una forte regolazione statale, come è il caso della teoria linerista del “capitalismo andino”, è che come passano gli anni deve realizzare sempre più concessioni alla grande impresa privata. Questo si deve alla necessità pratica del suo stesso modello economico di contare sugli investimenti diretti di capitali privati, per preservare la stabilità economica e un certo livello di crescita.

In Bolivia è successo questo con coloro che per quasi 14 anni hanno amministrato il governo, applicando la ricetta gradualista: hanno finito con l’amministrare il capitalismo, per colmo nella sua versione estrattivista, senza giungere a trasformarlo.

Nonostante ciò, se facciamo riferimento ai principali mandatari, bisogna differenziare il caso di Evo Morales dal caso di Álvaro García. Il nostro fratello Evo Morales è sempre stato orientato da un solido vincolo con la sua base sociale contadina, che subisce l’oppressione originata nella sussunzione formale del potere economico del capitale sulle sue comunità. Questo spiega che Evo non abbia cambiato, durante tutti questi anni, l’identità del Movimento al Socialismo (MAS) come un partito politico anticolonialista, antimperialista e anticapitalista.

Il caso di García è differente. Uomo della classe media senza nessuna base sociale organica che lo controlli, deciso a trasformarsi nell’interlocutore ufficiale con i settori imprenditoriali, convinto di quello che lui ha definito come “la concezione patteggiatrice del potere”, ha cominciato ad agire in termini sempre più funzionali alla sicurezza giuridica che chiedevano le organizzazioni borghesi e le imprese multinazionali.

Nell’anno 2007, già avvenuta la nazionalizzazione degli idrocarburi [viii], il vicepresidente aveva cominciato a fare un nuovo giro pragmatico: il rafforzamento dello stato (con le nazionalizzazioni) non sarebbe stato più orientato principalmente alla costruzione di un modello economico che cominciasse a trasferire le eccedenze verso il settore sociale e comunitario dell’economia [ix]. Il nuovo orientamento era che lo stato si trasformasse nella locomotiva dello sviluppo dentro un “modello economico produttivo” ispirato ad alcune esperienze asiatiche (Corea del Sud, Giappone), nelle quali lo stato assumeva un forte ruolo di regolazione interna e di ampliamento delle opportunità degli affari e dei mercati dell’esportazione per gli stessi imprenditori borghesi.

Vediamo quello che Álvaro García affermava in quell’anno 2007 in un’intervista nella città di Santa Cruz, il luogo dove è insediata la borghesia più potente della Bolivia: 

“Il fatto è che lo stato è l’unico che può unire la società, è quello che assume la sintesi della volontà generale e quello che pianifica l’ambito strategico e il primo vagone della locomotiva. Il secondo sono gli investimenti privati boliviani, il terzo sono gli investimenti stranieri, il quarto è la microimpresa, il quinto l’economia contadina e il sesto, l’economia indigena. Questo è l’ordine strategico su cui deve strutturarsi l’economia del paese” [x].

Cominciavano le lusinghe ai grandi investimenti privati nazionali (borghesi) e stranieri (imprese transnazionali). Dove rimaneva il settore contadino? Al quinto posto. Dove i modi produttivi indigeni? Al sesto posto. Dove le imprese operaie autogestite? Nemmeno le menzionava. Cosa delle iniziative economiche collettive del settore sociale dell’economia, che non sono pubblico-statali né private-capitaliste? Non le ha mai prese in considerazione.

La formula di governabilità pattuita con la borghesia era: stabilità politica per il governo in cambio di sicurezza giuridica per i capitalisti. Inevitabilmente ha modificato il progetto programmatico che il MAS aveva difeso nell’Assemblea Costituente del 2006-2008: il Modello Economico Sociale Comunitario. Questo modello aveva come punto di partenza il rafforzamento dello stato attraverso nazionalizzazioni sempre più profonde in aree strategiche dell’economia. Ma questo fu valido solo tra gli anni 2006 e 2008, quando furono effettuate le nazionalizzazioni più importanti: quella degli idrocarburi, quella della principale impresa di telecomunicazioni, quella della miniera di Huanuni, quella dell’impresa metallurgica ad Oruro, quella di un’impresa nazionale di energia elettrica. Fino a lì giunse la volontà politica governativa, perché dopo cominciarono a pesare di più gli interessi degli investitori nazionali e stranieri. Álvaro García lo riconobbe nell’anno 2010, quando in una conferenza in Argentina affermò:

“Il paese gradualmente va acquisendo le sue stesse risorse, frutto di questi processi di recupero del gas e del petrolio, delle telecomunicazioni e dell’energia elettrica che sono le 4 aree che abbiamo proceduto a nazionalizzare gas, petrolio, energia elettrica, telecomunicazioni e parte dell’attività mineraria. Lì ci siamo fermati a questo primo slancio e sicuramente in un qualche altro momento bisognerà dare un altro slancio per avanzare in altre aree che diano allo stato una capacità di gestione, capacità di amministrazione e di investimento e fondamentalmente di distribuzione della ricchezza” [xi].

Mai è giunto il nuovo slancio. Gli accordi di governabilità pattuita lo hanno impedito con il discorso governativo che: “non bisogna dare segnali negativi agli investimenti privati”.

In cambio di questa sicurezza giuridica sulle sue proprietà e investimenti, che avrebbe l’effetto di un detonatore sul modello economico venendo applicato negli anni seguenti, la borghesia alla fine dell’anno 2008 abbandonò la cospirazione politica ed iniziò a coordinare azioni economiche con il governo di Evo Morales. A suo modo, la borghesia fu anche pragmatica: rendendosi conto che poteva continuare a realizzare buoni affari con un governo che non li rappresentava, accettò la coabitazione. La collaborazione pattuita durò, da parte dei grandi capitalisti, il tempo necessario per evitare una nuova radicalizzazione governativa, preservando e incrementando in tutti questi anni il proprio potere economico, fino a quando nel novembre del 2019 decisero come classe di unirsi al golpe fascista.

Per tutto il tempo che Evo Morales ha governato la Bolivia, il suo vicepresidente Álvaro García è stato il più entusiasta promotore e operatore di questi patti con la borghesia, che niente meno mostrava come “alleata” del processo di cambiamento. Quando si riuniva con i suoi rappresentanti gli parlava di sicurezza giuridica dei loro investimenti, del ruolo positivo che giocavano per l’economia nazionale, dell’importanza del loro modello capitalista imprenditoriale e di come il governo stava esaudendo l’agenda imprenditoriale. Per dimostrare questo che affermo farò un piccolo racconto di fatti significativi:

Nell’ottobre del 2014, il vicepresidente assistette nella città di Santa Cruz alla cerimonia per il 50° anniversario della Camera Agropastorale dell’Oriente. La CAO è l’organizzazione degli impresari agro-pastorali che si dedicano alla monocoltura e all’esportazione di comoditties e che costantemente chiedono sovvenzioni, crediti, più terre e garanzie che non saranno riprese indietro le loro proprietà. A questi borghesi molto forti García Linera propose, con le seguenti parole, di estendere la frontiera agricola di un milione di ettari l’anno a favore dell’agro-industria: “Faremo quello che è necessario, con leggi, norme amministrative, crediti. Dite di cosa avete bisogno, vi aiuteremo in quello che sarà necessario, oggi abbiamo due terzi del congresso per cui non ci saranno intralci per giungere a questa sfida. L’ampliamento della frontiera agricola è una delle priorità del paese e voi siete i principali attori di questa strategia” [xii].

Nel luglio del 2015 viaggiò fino alla frontiera con il Cile, nel dipartimento di Potosí, vicino all’enorme miniera di San Cristóbal, per dire agli investitori giapponesi della Sumitomo: “In questi ultimi giorni c’era la minaccia che avrebbero tagliato l’elettricità, che avrebbero  occupato San Cristóbal, il Governo non lo permetterà… voi fate un buon lavoro, continuate a fare il vostro buon lavoro” [xiii]. La multinazionale Sumitomo sfrutta la maggiore miniera di concentrati di zinco-argento e piombo-argento in Bolivia. Il suo apporto fiscale è stato sempre infimo in relazione ai milionari utili che ottiene, tanto in territorio boliviano come fuori del paese, ma ha goduto della massima protezione governativa.

Nel marzo del 2016, García fu invitato alla presa di possesso del nuovo direttorio della Camera dell’Industria, Commercio e Servizi (CAINCO) nella città di Santa Cruz. La CAINCO è l’organizzazione borghese più potente della Bolivia. Vediamo la seguente rassegna che ha fatto su questo atto un giornale boliviano: “Ieri sera il vicepresidente Álvaro García Linera ha offerto una ‘alleanza’ tra lo stato e il settore imprenditoriale per promuovere la crescita dell’economia boliviana, nel caso in cui la rotta dell’economia mondiale non sia così incoraggiante. García Linera ha sostenuto che il Governo non sarà un rivale né un competitore degli impresari, ma un alleato per la crescita economica” [xiv].

Continuo a dirlo: durante tutti gli anni (2006-2019) della cosiddetta rivoluzione democratica e culturale, García è stato il principale ideologo della collaborazione con la borghesia per la crescita economica, ha dato un forma teorica a questo collaborazionismo. Quello che era vicepresidente non è un eterodosso come gli piace definirsi, è un eclettico che si compiace di essere “attualizzato” e che prende concetti prestati da autori europei come Negri, Bourdieu, Foucault, Harvey, Piketty e altri, adeguandoli ai suoi propri fini pratici, anche se facendolo non rispetta la logica interna di questi concetti e li deforma.

C’è un chiaro esempio di questo in una grossolana interpretazione che fece del pensiero del teorico comunista italiano Antonio Gramsci. In occasione della XX riunione annuale del Forum di San Paolo di partiti politici di sinistra e centro sinistra del Latinoamerica che si realizzò a La Paz, toccò ad Alvaro García pronunciare un discorso. In questa dissertazione e parlando su come dovrebbero comportarsi i governi progressisti nella loro relazione con i “gruppi di potere economico” si inventò niente meno che la seguente perla: “Come si costruisce egemonia? Non dimenticate: bisogna sempre sommare Lenin a Gramsci. L’avversario bisogna sconfiggerlo, questo è Lenin. Ora Gramsci: l’avversario bisogna incorporarlo, ma non si incorpora l’avversario in quanto avversario organizzato ma come avversario sconfitto” [xv].

All’ammirevole marxista italiano non gli è mai venuto in mente che la borghesia fosse alleata della rivoluzione proletaria. Ci sono numerosi scritti di Gramsci per corroborarlo, menzioniamo uno di quelli: “Il criterio metodologico sul quale bisogna fondare l’esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’. Un gruppo sociale è dominante rispetto ai gruppi avversari che tende a “liquidare” o a sottomettere anche con la forza armata; ed è dirigete dei gruppi vicini o alleati. Un grupo sociale può e perfino deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (questa è una delle condizioni principali per la conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene con fermezza nelle mani, diventa dominante, ma deve continuare anche ad essere ‘dirigente’” [xvi].

Come si può vedere, Álvaro García utilizzava Gramsci nel modo peggiore, per giustificare la sua propria visione collaborazionista con la borghesia. Il proletariato organizzato deve cercare di diventare dirigente dei settori sociali vicini o alleati, vale a dire i settori contadini e gli altri settori di lavoratori urbani per, attraverso una rivoluzione, giungere ad essere dominante in relazione alla borghesia, proponeva l’italiano. García lo reinterpretava dal suo gradualismo: la borghesia passava ad essere “vicina” e “alleata”, per cui bisognava “incorporarla” come “avversario sconfitto”.

Per questo tipo di propositi si spiega la graduale perdita di credibilità di García tra le organizzazioni rivoluzionarie in Bolivia. Così anche tra le organizzazioni sindacali, che lo ricordano come un operatore di interessi padronali. Lo stesso tra le organizzazioni contadine originarie, che lo incolpano per gli errori che commise Evo Morales. Per queste ragioni, il linerismo oggi è scomparso in Bolivia.

Non è allora per la sua attuale importanza nella politica boliviana che mi interessa saldare i conti con lui che era vicepresidente. In nessun modo. È per il ruolo che ebbe nel processo di cambiamento, Álvaro García Linera con le sue concezioni neocoloniali ebbe la sua quota di responsabilità nella stasi della cosiddetta rivoluzione democratica e culturale, che finirà con l’essere uno dei fattori -non l’unico, certamente- che logorò lo stesso governo di Evo Morales fino al precipizio.

Non sto dicendo che García Linera sia colpevole della caduta, questo sarebbe un eccesso inaccettabile e un’ingiustizia considerando che dette anche un apporto positivo. Dico che a causa della messa in pratica della concezione ideologica linerista il processo boliviano non è più avanzato. Ed è risaputo che in sociopolitica, come nella vita, quello che non avanza, perde lo slancio, termina con l’arenarsi e dopo retrocede. E non è semplicemente un tema di “correlazione di forze sociali”, anche questa correlazione si costruisce; è un tema di lotta tra concezioni ideologiche rivoluzionarie e non rivoluzionarie che terminano, come è successo nel caso della Bolivia, con l’indebolire alcune forze sociali e preservare e aumentare il potere economico di altre forze sociali.

È tempo di fare il bilancio di quanto successo in Bolivia. Un bilancio crudo, coraggioso, frontale, incisivo, senza false modestie. Non sto proponendo di distrarci in interminabili dibattiti, trascurando la lotta contro i golpisti, questo sarebbe assurdo. La resistenza in Bolivia non si fermerà e noi continueremo a correre rischi insieme ad un popolo eroico, che si è nuovamente trasformato, come hanno detto i nostri anziani, in guerrieri dell’arcobaleno (wiphala). Non si tratta nemmeno di voltare pagina come propone qualcuno, se non apprendiamo dagli errori commessi, domani inciamperemo un’altra volta sulla medesima pietra.

Note:

i – Componente del “Colectivo de Estudios Comunitarios Larama” della città di El Alto, Bolivia. Questo articolo è il risultato di una riflessione collettiva.

ii – Giornale La Prensa, intervista ad Álvaro García, edizione del 30 agosto 2005. La Paz, Bolivia.

iii – Dichiarazione di Álvaro García alla BBC.com. Dicembre 2005.

iv – García, Álvaro. “El capitalismo andino – amazónico”. In Le Monde Diplomatique, gennaio 2006.

v – García, Álvaro. “De demonios escondidos y momentos de revolución”. La Paz, 1991. Pagina 112.

vi – García, Álvaro. “De demonios escondidos y momentos de revolución”. La Paz, 1991. Pagina 289.

vii – Si possono menzionare molti autori economici che hanno fatto parte di questo dibattito: André Gunder Franck, Vania Bambirra, Theotonio Dos Santos, Ruy Mauro Maurini, Osvaldo Sunkel, Raúl Prebisch.

viii – Il 1 maggio 2006, il governo di Evo Morales nazionalizzò per decreto gli idrocarburi anche senza espellere le imprese transnazionali che operavano nel paese.

ix – Alcune tecnocrati che hanno fatto parte del governo del MAS cercano di confondere dicendo che sono stati distribuiti trattori, che è stato rafforzato il Fondo Indigeno ed è stato aumentato il budget dei municipi rurali. Sebbene questo sia vero, può essere giudicato solo come “fattori di redistribuzione” delle entrate, che non hanno cambiato per nulla il modello capitalista.

x – Giornale El Deber, intervista ad Álvaro García, edizione del 21 gennaio 2007. Santa Cruz, Bolivia.

xi – García, Álvaro. Conferenza pronunciata su “Proprietà privata, Proprietà pubblica e comunità” nell’Università Popolare Madri di Plaza de Mayo, Centro di Studi Economici e Monitoraggio delle Politiche Pubbliche. Buenos Aires, 6 ottobre 2010. Pagina 11.

xii – Sito del giornale El Deber. Santa Cruz, Bolivia. 28 ottobre 2014.

xiii – Giornale La Razón digital. La Paz, Bolivia. 27 marzo 2015.

xiv – Giornale Los Tiempos digital. Cochabamba, Bolivia. 18 marzo 2016.

xv – Partecipazione di Álvaro García alla XX Riunione del Forum di San Paolo. La Paz, Bolivia. 28 agosto 2014. Archivio di video nel seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=M_GLRjNTzKg

xvi – Antonio Gramsci. “Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello stato moderno in Italia”. In Antología. Selección, traducción y notas de Manuel Sacristán. Siglo XXI editori. Madrid, Spagna. Sedicesima edizione. 2007.

19/05/2020

Rebelión

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Mauro Alcócer HurtadoEl debate sobre Bolivia y el rol de García Linera en el estancamiento del proceso de cambio” pubblicato il 19/05/2020 in Rebelión, su [https://rebelion.org/el-debate-sobre-bolivia-y-el-rol-de-garcia-linera-en-el-estancamiento-del-proceso-de-cambio/] ultimo accesso 29-05-2020

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