“Ogni gesto di fraternità tra le famiglie e i prigionieri è anche un modo di resistere all’isolamento in cui sono mantenuti”.
Avvicinandosi già le tre del pomeriggio del 31 dicembre, noi, una sfilata di centinaia di familiari dei prigionieri politici, usciamo dalla piazza delle manifestazioni del Carcere Modelo, a Tipitapa. Le facce sono tristi. I visi delle donne sono coperti di lacrime. Anche i bambini, già più coscienti, piangono. Una madre mi si avvicina con un bambino in braccio, di circa cinque anni, che piange sconsolatamente e mi dice: “Glielo dica lei! È vero che suo papà deve trattenersi perché lavora qui?”. Io non so che risponderle, muovo solo affermativamente la testa.
Anche alcuni prigionieri piangono. Gli stanno mettendo le “chachas” (manette) e facendoli salire sugli autobus che li portano alla Galería 300, di massima sicurezza. La sfilata è prima di donne e bambini, i maschi si vedono alla fine. La processione ora prende una strada selciata che porta alle porte del carcere penale. Portiamo cesti e borse vuote dove abbiamo dovuto mettere gli alimenti. Mi si avvicinano alcune madri e mi abbracciano con affetto. In un momento la sfilata mi sembra una manifestazione e uno scherzo: “giacché non ci lasciano manifestare nelle strade, qui insieme potremmo gridare le parole d’ordine che ci escono dall’anima: libertà per i prigionieri politici”. E ridono e anche scherzano.
Una madre in sedia a rotelle mi si avvicina. Chi spinge la sedia è una figlia di Tobías Gadea Medina. Si identifica con me. Suo nipote è tra i prigionieri. Le dico, “tuo papà è un eroe. Sta lottando da prima che si conoscesse il nome di Daniel Ortega”. “Sì”, e mi ricorda che andò nella Guerriglia di Manuel Díaz e Sotelo, e anche nella Colonna 15 Settembre di Julio Alonso Leclaire.
Così termina una visita speciale, che i governanti hanno concesso ai prigionieri politici per l’Anno Nuovo.
La visita speciale permetteva che, a partire dalle dieci del mattino, i familiari precedentemente autorizzati potessero giungere con alimenti preparati da condividere ad un tavolo collocato sotto alcune tende con il proprio prigioniero politico. Una famiglia a tavolo. Proibita la comunicazione tra tavolo e tavolo. Mentre suonava una tumultuosa musica, gli ufficiali stavano attenti. In alcuni tavoli c’era una vigilanza speciale.
Entrando con le mie sorelle e mia cognata, vedo in primo luogo il Colonnello Carlos Brenes. Ha la vigilanza vicina, cosicché posso solo gridargli: “Carlos, ti voglio bene, ti ammiriamo, forza!”, mentre faccio dei gesti di abbracciarlo. Dirigendoci al tavolo che ci hanno assegnato non posso non vedere Víctor Díaz, dirigente contadino della Comunità di El Fajardo, a San Miguelito. Lo conosco molto bene perché mia figlia alcune volte lo ha portato a casa nostra. Faceva parte della dirigenza del Movimento Contadino per la Difesa della Terra, del Lago e della Sovranità. Senza pensarci vado direttamente da lui e lo copro di baci, mentre gli dico che il Nicaragua presto sarà libero, che resistano. Più tardi ci scambiamo degli alimenti, lui ci porta dell’atol di mais tenero (bibita di farina di mais, ecc.), che gli hanno portato dei suoi familiari contadini, noi gli restituiamo il vaso con della macedonia di frutta fresca.
Ogni gesto di fraternità tra le famiglie e i prigionieri è anche un modo di resistere all’isolamento in cui sono mantenuti particolarmente i prigionieri che oggi vediamo faccia a faccia. Tra loro c’è Medardo Mairena, Lenner Fonseca, Jonh Amort, con la sua testa canuta, e più di cento prigionieri politici. Nardo Sequeira situato al nostro fianco, attira con il suo sorriso tranquillo e sicuro. Ci regala delle ciambelle, noi gli rispondiamo con della frutta.
Prima di entrare alla visita dobbiamo aspettare il minuzioso controllo di tutto quello che si porta, e delle persone. Anche affrontare degli ordini assurdi… che tutti osservano, ma in molti casi con proteste. Lì ho potuto incontrarmi con Myriam Perez Amador, una delle eroine delle insurrezioni di Estelí, e la cui testimonianza ho recuperato nelle Memorie della Lotta Sandinista. Mi sorprende vederla, fino a poco tempo fa si esprimeva a favore del regime. Ma mi racconta che suo fratello fu imprigionato a luglio, e dopo due suoi nipoti. In totale ha tre prigionieri. Indagando leggo che i giovani di Estelí furono arrestati a settembre nel Quartiere di El Rosario, quando non c’erano più barricate, quando volevano mobilitarsi per la libertà e la democrazia. Tra di loro ci sono Kevin di 24 anni, Kitzel di 22, e Tobías Gadea, di 19. Questo è il nipote dell’eroe di cui ho parlato.
“María Libertad” un’indiscutibile sandinista, ora non dubita delle prigioni ingiuste che subiscono i nicaraguensi. Lo sta subendo sulla sua stessa carne. Mio fratello Ricardo mi dice -più tardi- che secondo un suo calcolo c’è un 70% dei detenuti che hanno radici sandiniste… e probabilmente lo stesso avviene con gli assassinati. E non è strano, secondo quanto penso, perché il vero sandinismo ci ha insegnato a lottare contro le ingiustizie, e nulla di più ingiusto e criminale del regime di Ortega e Murillo, che ancora stiamo patendo.
Durante la visita, mentre parliamo senza fermarci con nostro fratello, posso vedere i vari tavoli. In molti ci sono bambini di diverse età, anche in tenera età, recentemente nati, che sicuramente sono venuti al mondo quando i loro padri erano già ingiustamente detenuti. Ci sono donne che si vedono stanche. Secondo quanto mi spiegano alcune stanno viaggiando dal giorno precedente, il regime ha imposto che tutti i processi fossero a Managua, e non nella loro giurisdizione come dettano le leggi. Cosicché realmente intere famiglie subiscono una situazione di tortura.
Da quando il prigioniero entra nel Chipote, le madri hanno dovuto portargli i tre pasti. Molte hanno dovuto pernottare nella Cattedrale, per altre sono stati organizzati dei comitati di sostegno. Noi a Popol Na davamo letto e alloggio alle madri che venivano da lontano, come la madre di Víctor Díaz. Ma oltre alla persecuzione del regime verso i comitati, mentre giungono a El Chipote le madri sono perseguitate da gruppi di scontro, situati alle entrate dell’Aiuto Giudiziario, dopo che avevano sgomberato le madri dei prigionieri che pernottavano lì.
Quando il prigioniero è già passato a La Modelo, la frequenza della visita cambia. Ora dipende dal padiglione dove è posto il reo, la visita può essere settimanale, quindicinale o mensile. Per i detenuti nella Galería 300, la visita è mensile. Quelli della Galería 300 subiscono un brutale isolamento, con un regime di castigo a tempo indefinito. Si tratta di celle completamente chiuse, senza nessuna entrata di luce. Solo da poco hanno collocato alcune candele. Ma il calore è asfissiante, la stessa candela risulta scomoda. I prigionieri non ricevono mai il sole. Per questo la loro pelle diventa di legno. Esamino mio fratello, che già compie più di 100 giorni e la sua pelle è diventata come traslucida, le mani si vedono un po’ violette, perché le vene si vedono un po’ più chiaramente per la magrezza della pelle. Non possono scrivere, non hanno accesso ai libri. Nessuna distrazione. Passano 24 ore in un isolamento brutale. Queste misure di umiliazione e castigo verso i prigionieri sono disposte direttamente dalla presidenza.
In questa mattinata del 31 dicembre, i prigionieri della Galería 16 e i loro familiari sono stati posti in un salone con il tetto, al lato del campo delle manifestazioni dove noi ci trovavamo.
Quelli della Galería 16 si azzardano ad alzarsi e allora intravedo Jonathan e Hansel, due dei dirigenti studenteschi della protesta. Quando vado intenzionalmente al bagno posso avvicinarmi a loro e abbracciarli.
In queste gallerie ci sono vantaggi e svantaggi. Il vantaggio è che possono camminare in maggior spazio. Tra prigionieri politici e prigionieri comuni. Ma nella galleria ci sono più di 100 prigionieri. Questo fa diventare asfissiante l’affollamento, e ci sono anche alcuni pericoli, come si può dedurre. Anche se i familiari mi hanno spiegato che i comuni rispettano i politici. In questa galleria abbondano i prigionieri politici più giovanetti. Anche nella 300 ci sono giovani come Yubrank Suazo che anche abbiamo abbracciato ed Edwin Carcache, che non abbiamo potuto vedere, dato che la visita gli toccava il primo di gennaio.
I ragazzi che erano visibili dal nostro tavolo li ho identificati per le foto che abbiamo visto nei giornali e alla TV, ma sono molti più giovanetti di come figurano nelle grottesche fotografie che divulga il regime. L’anima l’abbiamo appesa ad un filo vedendo dei ragazzi così giovani imprigionati, come ribadisco, castigati per aver esercitato i propri diritti a protestare e a ribellarsi contro il sistema.
L’ora della separazione sta giungendo. Il primo ad essere portato via è Carlos Brenes. Non sono riuscita a vedere la sua partenza, ma dopo tocca a Medardo, e mentre già stava camminando, gli grido: “Addio Medardo, Forza Medardo!!”, il mio grido risuona in tutto lo spazio e allora anche la gente grida e cominciano ad applaudire. Medardo ci guarda, sente l’omaggio e sorride alzando il pugno. La gente applaude e suona il tavolo come se fosse un tamburo. Le guardie si muovono nervose.
La sfilata dei familiari comincia… con il pianto nei loro occhi. Anch’io piango, ma non me ne vado triste. Sento che la libertà dei prigionieri politici sarà il principale motore delle lotte del nuovo anno che comincia, il 2019, anno della liberazione.
1 gennaio 2019
Confidencial
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Mónica Baltodano, “Un 31 de diciembre con los presos políticos de la dictadura” pubblicato il 01/01/2019 in Confidencial, su [https://confidencial.com.ni/un-31-de-diciembre-con-los-presos-politicos-de-la-dictadura/] ultimo accesso 08-01-2019. |