Il saldo negativo dei governi “progressisti” in America Latina e l’arrivo di AMLO alla presidenza del Messico, un esame di Raúl Zibechi


Gloria Muñoz Ramírez / Raúl Zibechi

Città del Messico / I governi progressisti in America Latina “si sono rivelati un regresso e per i popoli indigeni hanno significato un doppio o triplice regresso, perché sono stati folklorizzati. Oggi ci sono nel parlamento uomini con cappello e donne in crinolina, ma folklorizzati, non rappresentando politicamente i propri popoli. È una politica di saccheggio che li forza a spostarsi. E in questo non c’è nessuna differenza tra i governi progressisti e i governi di destra e conservatori, come quello del Perù o quello della Colombia. L’atteggiamento anti-indigeno è una costante in ambedue i casi”, avverte Raúl Zibechi, giornalista uruguayano, scrittore e accompagnatore da più di 30 anni di diversi movimenti sociali del continente.

“Il saldo dei governi progressisti in America Latina è negativo”, sentenzia Zibechi in una intervista a Desinformémonos, dopo aver partecipato ad una serie di incontri con i movimenti sociali ed indigeni del Chiapas e dell’Oaxaca, durante un breve giro per il Messico nel quale ha presentato il suo più recente libro: Los desbordes desde abajo (Le esplosioni dal basso) (Ediciones Bajo Tierra, 2018).

Dell’arrivo di Andrés Manuel López Obrador alla presidenza del Messico, Zibechi dice che per la regione non rappresenta nessun cambiamento. E le sue consultazioni, pensa, “sono meccanismi di disarticolazione della protesta”. Ci sarà resistenza, dice, “le lotte non scompariranno perché c’è un governo che sorride”.

La disarticolazione dei movimenti sociali, l’inclusione di quadri dal basso nel nuovo governo, l’imposizione di progetti estrattivisti, l’isolamento dei critici, la polarizzazione della stampa, il ruolo degli Stati Uniti, tra gli altri, sono i temi di questa intervista.

– Qual è il saldo dei governi progressisti in America Latina?

– Il saldo dei governi progressisti in America Latina è negativo. Il saldo è Bolsonaro, il saldo è Macri, è un Venezuela distrutto. Il saldo è Daniel Ortega, genocida, violentatore. Come ha detto Chico de Oliveira in Brasile, fondatore del Partito del Lavoro dei Lavoratori, “il lulismo è stato un regresso politico”.

E quando diciamo questo non parliamo di quei milioni che sono usciti dalla povertà ma che ora ci sono tornati, non parliamo di alcune questioni interessanti che sono diventate interessanti, come le quote per le persone nere nelle università brasiliane. Parliamo del fatto che hanno distrutto la potenza emancipatrice dei popoli perché hanno disperso i movimenti sociali, si sono portati via i dirigenti nei ministeri, si sono corrotti.

Non c’è paese con un governo progressista nel quale non ci siano stati casi di corruzione. Chi è stato vicepresidente del mio paese, Uruguay, ha un cognome nobile, Raúl Sendic, ha dovuto rinunciare alla vicepresidenza per un caso di corruzione. In Argentina tiravano borse piene di denaro dentro un convento per eludere il tema dell’appropriazione indebita che c’è stata.

Il saldo è negativo, ma questo non vuol dire che non comprenda la gente che li ha votati, che li ha appoggiati e che li continua ad appoggiare, perché di fronte a questo c’è una destra spaventosa. Ma in fin dei conti il saldo è negativo.

– Concretamente, qual è il saldo nell’ambito economico?

– Nell’economico non c’è stata riforma agraria, ma non c’è stata una riforma del sistema impositivo. Non ci sono state riforme strutturali. C’è stato un maggior reddito per i settori popolari, ma questo reddito è stato bancarizzato, finanziarizzato, e allora hanno ottenuto, attraverso le politiche sociali, che la gente avesse un po’ più denaro, ma ha anche un cartoncino come quello delle carte di credito o di debito, che servono per poter prendere il denaro delle politiche sociali dalla banca e con questo vanno nei malls o a fare shopping per comprare televisioni al plasma, moto, auto. È un’integrazione attraverso il consumo.

In Brasile durante il periodo di Lula, il settore che più ha lucrato e che ha avuto i maggiori profitti della sua storia è stata la banca. Allora, è stata un’integrazione dei settori popolari, ma attraverso il consumo, e questo spoliticizza, e arricchisce anche l’intermediazione bancaria.

– E i magaprogetti nei territori indigeni?

– L’estrattivismo, la soia, l’espansione dell’agro-negozio, l’attività mineraria, hanno generato un allontanamento o accerchiamento dei popoli indigeni. C’è un caso in Brasile che è demenziale e si chiama Belo Monte, che è la diga, la terza più grande del mondo, che devia 100 chilometri del fiume Xingú, e in questa conca che si svuota moriranno di fame o dovranno emigrare i pescatori, gli abitanti delle sponde, tutte le persone che vivevano del fiume e che sono popoli originari. Ma anche, la demarcazione delle terre indigene non è stata rispettata.

Da un’altra parte abbiamo un esempio paradigmatico che è la Bolivia. In Bolivia il movimento popolare aveva cinque organizzazioni che fecero il patto di unità, e dopo la marcia in difesa del Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro-Sécure (TIPNIS) nel 2011, il governo incominciò a dividere le organizzazioni.

Ci sono due organizzazioni, e questo fuori della Bolivia si sa poco: il Consiglio Nazionale degli Ayllus e Markas del Qullasuyu (Conamaq) e la Confederazione dei Popoli Indigeni della Bolivia (CIDOB), due organizzazioni storiche dei popoli indigeni, alle quali Evo Morales e Álvaro García hanno rispettivamente fatto dei colpi di stato. Hanno mandato la polizia, hanno cacciato i legittimi dirigenti e dietro sono giunti, protetti dalla polizia, i dirigenti vicini al governo, allo stato. Questo è un autentico colpo di stato ed è successo in Bolivia.

Quando diciamo che il progressismo è sfociato in un regresso, per i popoli indigeni ha significato un doppio o triplice regresso, perché sono stati folklorizzati. Oggi ci sono nel parlamento uomini con cappello e donne in crinolina, ma folklorizzati, non rappresentando politicamente i propri popoli. È una politica di saccheggio che li forza a spostarsi. E in questo non c’è nessuna differenza tra i governi progressisti e i governi di destra e conservatori, come quello del Perù o quello della Colombia. L’atteggiamento anti-indigeno è una costante in ambedue i casi.

– Andiamo sul terreno delle libertà. Che è successo in questi governi della libertà di espressione e della libertà di manifestazione? Sono stati portati a termine “linciaggi” verso coloro che, da sinistra, si sono opposti o hanno messo in discussione ciò che stavano facendo?

– Durante i primi anni c’è stato un ampliamento di libertà, di manifestazione, di critica, ma a partire dalla crisi del 2008 c’è stato un ripiegamento di questi governi. Una volta di più il Brasile è un caso paradigmatico perché nel giugno del 2013, 20 milioni di giovani per un mese uscirono nelle strade di 353 città, inizialmente contro l’aumento dei trasporti, che sono molto cari in Brasile (ogni corsa di un autobus o metro costa tra i 20 e i 25 pesos messicani), ma finì con l’essere una rivolta contro la disuguaglianza. San Paolo è la città che ha più eliporti ed elicotteri del mondo perché la borghesia non si degna di andare in auto sulla superficie.

Questa rivolta contro la disuguaglianza toccò i limiti del progressismo, che si limitò a distribuire un pochetto meglio il reddito salariale, ma non il reddito totale e non toccò le disuguaglianze. Quando sorse questo movimento ci fu un ripiegamento del governo di Dilma Rousseff, del PT e della sinistra nel suo insieme, e mandarono la polizia. Quello che certamente avrebbe dovuto fare un governo di sinistra era di mettersi a fianco della gente, ma mandando la polizia generarono un vuoto politico e una demoralizzazione così forte e di questo ne approfittò la destra fino al giorno d’oggi. Il 2013 fu uno spartiacque in Brasile e in tutta la regione. Sono i movimenti, l’irruzione della gente stanca di essere presa in giro, che si burlino di lei, una delle due o tre cause principali della crisi dei progressismi in America Latina.

– E i mezzi di comunicazione? Che ruolo hanno giocato e giocano?

– Sui mezzi di comunicazione ci sono varie dinamiche. Ci sono paesi dove gli stati sono avanzati sui mezzi di comunicazione, come il Venezuela, chiudendoli, addomesticandoli o comprandoli. Il grosso dei mezzi di comunicazione del Venezuela sono statali o pro-statali. L’altro estremo potrebbe essere l’Argentina, dove ci sono circa 200 mezzi di comunicazione culturali, autogestiti, digitali e su carta, come Desinformémonos in Messico. Questi 200 media hanno tra i cinque e i sette milioni di lettori mensili, in un paese di 40 milioni di abitanti. Si tratta di media minoritari, ma non sono più marginali. Ancor di più, quando c’è un conflitto, come quando una fabbrica della Monsanto stava per installarsi a Malvinas Argentinas, e se dall’Uruguay si voleva sapere quello che accadeva, entravi nella stampa della destra, La Nación, Clarín, e non appariva nulla. Entravi nella stampa della sinistra, come Página 12, e nemmeno appariva nulla. Dovevi informarti su questi mezzi di comunicazione o alternavi.

Questi media non sono più una minoranza emarginata, ma hanno una massa critica, e compiono il ruolo di informare i nostri di ciò che gli altri non informano.

– Abbiamo visto che c’è stata una polarizzazione dei media durante questi mesi. Quelli che stanno con il governo, in questo caso progressista, e quelli che ha l’ultra destra…

– Sì, chiaro. In Brasile sta succedendo qualcosa di incredibile, Bolsonaro fa una campagna elettorale contro la Rete Globo, che è quella egemonica, e contro Folha de São Paulo, che è il giornale delle élite, e si appoggia alle reti sociali e ai mezzi di comunicazione evangelici, che sono di ultra destra. C’è una riconfigurazione dei media molto interessante, che bisogna seguire, perché anche Bolsonaro ha minacciato di chiudere Folha de São Paulo, che è uno scandalo, è come chiudere un quotidiano di destra del Messico. È il medesimo atteggiamento che ha Donald Trump con i media. Ma stanno emergendo altri media, come è il caso degli evangelici, sono una forza politica e sociale che merita di essere studiata a fondo, e già stanno rivaleggiando con la Rete Globo in Brasile. D’altra parte, nella maggioranza dei paesi ci sono media come i nostri, alternativi, ma non in tutti hanno forza.

– Ci sono altri media, che non sono alternativi né marginali, ma grandi media di sinistra, o critici del potere, ben collocati nei propri paesi, come Brecha in Uruguay, o Página 12 in Argentina. Che ruolo giocano con i governi progressisti?

– Debbo dire che Brecha è stato critico prima dell’arrivo dei governi e durante i governi progressisti. Siamo sempre stati un periodico critico. Página 12, invece, è diventato kirchnerista e fino ad oggi è dipeso dalle risorse calate dallo stato. Tutto il male ha una parte buona, e qui in Messico lo vivrete. La parte cattiva è che i progressisti ci distruggono o ci creano molti problemi. La parte buona è che lo scenario si chiarisce, non rimangono più luoghi per le mezze misure, stai o no con lo stato. Quando stai con lo stato la scusa è che ora lo governa la sinistra, ma stai con lo stato, questo è la cosa principale. E coloro che si mantengono nel proprio lavoro di autonomia, lavoro fuori dalle istituzioni.

Página 12 ha claudicato, nei 90 fu un quotidiano molto importante non solo in Argentina, aveva una estetica particolare e un impatto con prime pagine molto potenti. D’altra parte, ci sono altri media che si sono mantenuti fedeli alla propria traiettoria. Io non voglio esagerare, ma direi che Brecha, in Sudamerica, è uno dei pochi che ha attraversato il progressismo con molte  difficoltà economiche. Non viviamo di Brecha, stiamo male economicamente, ma abbiamo mantenuto la dignità e una posizione indipendente, anche se ci sono sfumature. Dentro ci sono alcuni giornalisti più vicini al governo, ma sempre critici.

– E quali sono i costi di mantenersi critici, da sinistra, verso i governi progressisti?

– I costi di mantenere una posizione critica sono l’isolamento, non ti chiamano per farti interviste, ti ignorano. C’è un deterioramento economico personale, dobbiamo cercarci dei lavoretti per sopravvivere, e questo è un costo importante, ma bisogna rendersene conto molto bene, c’è una trappola del progressismo che siamo riusciti a schivare, così come la professione giornalistica, nel caso di Brecha, oggi ha un salario molto basso, ma c’è stato un rinnovamento generazionale e di genere. E oggi la maggioranza degli organici sono persone giovani e donne. Quelli che vogliono guadagnare di più se ne sono andati con il governo o a creare periodici vicini al progressismo, e quelli di noi che sono rimasti, bene, guadagnano poco, però lì stiamo.

– Quello che ci stai dicendo è che andrà molto male a noi che manteniamo una posizione critica, nel caso del Messico, verso Andrés Manuel López Obrador?

– Io non direi “andarci molto male”. L’isolamento è duro, ma ti rende forte. E, inoltre, non aspiriamo a diventare ricchi. Per esempio in Brecha, su 35 lavoratori, ci saranno cinque o sei con una macchina, gli altri vanno nel trasporto pubblico, e questo mi sembra che sia molto importante perché segna qualcosa che in questo momento è una semina, non si vede, ma i semi sono lì e ad un certo punto fioriranno.

Ma quello che sta succedendo in Messico bisogna leggerlo in un altro modo per due ragioni. Il ciclo progressista in America Latina iniziò nel 2000 e terminò nel 2014, ed è un ciclo che fu possibile grazie agli alti prezzi delle commodities, del petrolio, della soia, del minerale del ferro, perché in quell’epoca di benessere economico alle borghesie non importava molto che le salissero un po’ le tasse, e perché i settori popolari erano tranquilli. Ma oggigiorno viviamo la post crisi del 2018. Le classi dominanti del mondo sono diventate più bestiali, più brutali. L’uno per cento ha una ricchezza come mai nella storia ha sognato di avere e sono diventati molto più intransigenti, più ultras, e stanno contro i popoli.

Il governo di López Obrador giunge nel momento in cui le classi dominanti non sono disposte a cedere su nulla. C’è una situazione che porterà molto rapidamente il governo a schierarsi con gli interessi imprenditoriali. In questi pochi giorni che sono in Messico ho visto qualcosa di sorprendente. Accendo la televisione e in parlamento alcuni deputati del PAN pongono uno striscione che dice “#NoALaDictaduraObradorista”. Sono terribili, ma fin dal primo giorno già si stanno opponendo, non gli danno nessuna opportunità. Sembra che questo  significherà: Ti pieghi completamente o avrai un’opposizione implacabile come ebbe Dilma nei suoi ultimi anni in Brasile.

– Che rappresenta l’arrivo di López Obrador per il Continente Americano?

– Mi piacerebbe dire che rappresenti qualcosa per la regione, ma io credo che non rappresenti nulla, perché dal punto di vista dell’integrazione regionale latinoamericana, non apporta nulla, e dal punto di vista di una svolta a sinistra nella regione, non è più possibile, e nemmeno apporta nulla, e perché la politica estera, per quello che io intendo, sarà di totale allineamento con il nuovo NAFTA e con le politiche di Donald Trump. Allora io non spero nulla.

Se fosse stato dieci o quindici anni fa, è probabile che in un clima diverso si sarebbe potuto sperare qualcosa, ma oggigiorno, quando c’è una guerra commerciale con la Cina e con gli Stati Uniti, quando c’è una difficoltà nelle relazioni internazionali e una molto forte intransigenza, come una settimana fa quando Trump e Macron litigarono e ci fu una mutua mancanza di rispetto molto forte… non c’è margine per nessun’altra politica.

– Parliamo dei movimenti sociali dentro i governi progressisti, ai quali…

– I governi progressisti sono stati maestri nell’arte di neutralizzare i movimenti sociali e la protesta sociale. Hanno accecato le basi sociali dei propri movimenti con politiche sociali, piccole cosmesi che hanno entusiasmato molta gente che non aveva mai ricevuto nulla. Hanno anche cooptato i dirigenti dei movimenti.

Il personale politico dei governi progressisti viene dal basso, i quadri tecnocratici che sono a capo sono nati e conoscono la cultura organizzativa dei movimenti sociali, allora, quando stanno in alto sanno molto bene che tasti toccare per indebolire, e questo è molto pericoloso.

Ci sono due cose che mettono in pericolo i movimenti sociali. Primo, con il progressismo lo stato si riveste di legittimità, e uno stato con legittimità, uno stato forte, è pericoloso. Dopo, i saperi dal basso che sono giunti lì sono destinati a indebolirci. E queste due questioni unite possono essere enormemente depredatrici per i movimenti popolari. Un esempio è la Bolivia di Evo Morales e Álvaro García, che si sono camuffati dicendo che era il governo dei movimenti sociali e hanno fatto dei colpi di stato ai medesimi.

In Argentina c’è il caso piquetero. Il movimento piquetero fu completamente neutralizzato, diviso, distrutto, dalle politiche sociali. C’è un manuale in un libro del Ministero dello Sviluppo Sociale, dove c’era la sorella di Néstor Kirchner, che dice che il funzionario ideale del Ministero è “quel militante sociale che nei 90 si oppose e organizzò nei territori la gente alla base sociale contro il modello neoliberale”. Succhiano quadri politici e militanti e saperi verso lo stato e questo è un elemento molto definitorio e fondamentale.

Il terzo esempio possono essere i compagni del Brasile del Movimento dei Senza Terra e dei Senza Tetto, movimenti molto importanti, molto combattivi, con una traiettoria impeccabile, che riconoscono che Lula e Dilma hanno consegnato meno terre con la riforma agraria del governo neoliberale di Fernando Henrique Cardoso, ma anche così, li hanno appoggiati perché c’è un fiotto di denaro che è stato destinato all’educazione, alla casa, eccetera. Sono movimenti potenzialmente rivoluzionari che sono rimasti completamente neutralizzati.

– E il caso del Messico, paese che anche conosci molto bene da un quarto di secolo…

– In Messico ci sono molti movimenti potenti. I movimenti urbani hanno una lunga traiettoria nell’essere stati divisi, soprattutto da governi del PRD, ma mi preoccupano molto i movimenti indigeni, che sono una parte minoritaria della popolazione, ma importantissima, e mi preoccupa l’isolamento e la possibilità di colpi o repressioni chirurgiche. Mi preoccupa molto che nei prossimi sei anni ci sia un processo di indebolimento dello zapatismo e del CNI, e di altri movimenti indigeni e popolari, che sono quelli che si sono opposti ai grandi progetti.

C’è un’operazione molto raffinata. Le consultazione che si sono fatte e quelle che si faranno sono meccanismi di disarticolazione della protesta. Domani tu puoi dire che sei contro il Treno Maya per una o tal altra ragione, e ti diranno di andare e di votare. In questa consultazione, quella dell’aeroporto, ci sono stati 1 milione e rotti di voti, ma io credo che nelle prossime consultazione possano votare più persone, e se votano più persone maggiore sarà la legittimità della consultazione, anche se è illegale, senza un sostegno giuridico e senza sostegno di nessun tipo.

Supponiamo che rispettino la consultazione. Il messaggio che stanno inviando i progressisti e López Obrador è che il conflitto non vale la pena perché è rischioso, che votando o sostenendo il governo si risolveranno i problemi. Il meccanismo della consultazione cerca di incasellare e condurre la protesta sul terreno delle urne. Perché mi opporrò alla strada se sono contro e posso votare? E se perdo, per lo meno ho potuto esprimere la mia opinione in un esercizio democratico nel quale non ho dovuto mettere il corpo e la polizia non mi ha dato colpi? Quello che si fa è delegittimare il conflitto e delegittimare la protesta, e questo va per mano con l’isolare coloro che protestano. Coloro che protestano isolati sono rapidamente vittime della repressione statale. Questo è il rischio che io vedo lì.

Spero che la consultazione non abbia l’ultima parola. Con la consultazione i popoli hanno due opzioni: o giocarsela attraverso la consultazione, che non credo che siano così poco capaci, o che dicano di fare tutte le consultazione che vogliono ma che loro non vogliono che il treno passi di lì, che è quello che hanno fatto altri popoli in America Latina.

Per fortuna, in alcuni casi come quello delle comunità zapatiste o di Cherán, c’è una forza. Ugualmente se la passeranno molto male, io credo, e magari mi sbaglio, ma non è la stessa cosa passarsela male quando stanno avendo la tremarella, di quando stai bene e forte sulle tue basi, come gli zapatisti.

D’altra parte, sono sicuro che López Obrador si ritirerà, non credo che possa essere rieletto, anche se immagino che stia già pensando a farsi rieleggere. Passeranno sei anni, se ne andrà Morena o no, ma lo zapatismo continuerà in piedi, e questo è importante perché sono lotte di cinque secoli che non spariranno perché c’è un governo che sorride o ha delle buone maniere.

– E la resistenza?

– Ci sarà resistenza. Quello che hanno fatto i governi progressisti è approfondire il capitalismo, hanno portato più capitalismo, più transnazionali e più monopoli. Questo di fare mega opere nel sud è per cooptare il resto del Messico, perché è stata la zona più ribelle e questo tutti lo sappiamo. I popoli resisteranno. Ci sono molte persone che, come diciamo in Uruguay, “non si mangiano la pasticca”, non si lasciano ingannare. La gente è in allarme, hanno già anche 15 anni di nostra esperienza e sanno ciò che è successo nel sud. Dovrei essere un po’ più ottimista.

– Che ruolo giocano Donald Trump e gli Stati Uniti?

– Trump è più che mai Trump. È la maggiore intransigenza delle classi dominanti, dei ricchi, e la maggiore intransigenza del Pentagono, che ha tanto peso come le classi dominanti. Questa gente è propensa alla guerra, a militarizzare lo scenario globale. La guerra commerciale contro la Cina è una guerra, per ora commerciale. La guerra aumenterà ed è probabile che arriveremo a guerre tra nazioni con armi nucleari, quello che gli zapatisti chiamano il collasso.

Il regime Trump ha aspetti del collasso, è una manifestazione della crisi del sistema, dell’imperialismo yankee, ma è anche una manifestazione del fatto che loro possono puntare sul collasso prima di mollare la padella che credono o temono che gli stia sfuggendo. Uno scenario orribile. Chi viene dopo Trump, anche se è democratico, continuerà molti dei passi di Trump. Il governo di Trump non è una parentesi, ma una svolta nelle strategie delle classi dominanti.

Gli Stati Uniti puntano sempre più all’assoluta subordinazione del Messico. È un cortile posteriore dal quale non molleranno gli artigli e pertanto, in questo progetto di un Messico subordinato, il governo di López Obrador gli può anche andare molto bene, questo di portare le mega opere al sud, di facilitare il flusso di merci, commodities, minerali, legname, tutto quello che ci sia da tirar fuori, i monopoli lo vedono molto bene, e di più se riesce anche a calmare una parte della cittadinanza.

Ciò che non otterrà questo governo né nessuno, per ora, è di abbassare i livelli di violenza, i femminicidi, l’attività del narcotraffico, l’illegalità. Questo per gli Stati Uniti è qualcosa di importante, perché a partire dalla guerra contro il narco scommette sulla violenza, sul Piano Mérida, sulla decomposizione del tessuto sociale. Sono tutti piani dell’impero che ora realizzerà López Obrador. Con questo signore saranno anche realizzati i piani che approfondiscono il capitalismo, il monopolio, e ciò che i compagni zapatisti hanno chiamato la quarta guerra mondiale, il saccheggio dei popoli. Questo è ciò che è all’ordine del giorno.

– Per terminare, che lettura dai al fenomeno migratorio che stiamo vivendo in questi giorni, dal Centroamerica verso il nord?

– Voglio credere che con questa massiccia marcia di migranti stia nascendo un movimento, perché prima la migrazione era individuale, di famiglie, goccia a goccia, ma ora è di massa e organizzata. Per mobilitare 7 mila persone tutte insieme bisogna stare organizzando. Capace che sia la prima di molte marce e se è così è buono, perché la migrazione solitaria è facilmente reprimibile, vulnerabile, ma con questa la gente è probabilmente giunta alla conclusione che sia meglio migrare in massa per essere più protetti. Non ho chiaro come Trump possa impedire il passaggio dei migranti attraverso la frontiera, nonostante tutti i gargarismi che fa. È un costo politico molto alto. La cosa buona è che sta nascendo qualcosa di nuovo, dal basso.

29 novembre 2018

Desinformémonos

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Gloria Muñoz Ramírez / Raúl ZibechiEl saldo negativo de los gobiernos “progresistas” en América Latina y la llegada de AMLO a la presidencia de México, una revisión de Raúl Zibechi” pubblicato il 29/11/2018 in Desinformémonos, su [https://desinformemonos.org/saldo-negativo-los-gobiernos-progresistas-america-latina-la-llegada-amlo-la-presidencia-mexico-una-revision-raul-zibechi/] ultimo accesso 10-12-2018.

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