Dialogo con Raúl Zibechi: “I limiti del progressismo”


Mirko Orgáz García

Dopo un decennio di convulsioni sociali in America Latina i progressismi si sono consolidati al governo: il Caracazo in Venezuela (1989), Inty Raymi in Ecuador (1990), o la Guerra del gas in Bolivia (2003), per citare tre esempi.

Perché questi potenti movimenti hanno creduto che l’opzione liberale della democrazia rappresentativa fosse la soluzione? Questa è la domanda che il testo “Cambiare il mondo dall’alto. I limiti del progressismo”, di Raúl Zibechi e Decio Machado, cerca di sviscerare per trovare le ragioni per cui potenti ribellioni abbiano finito con l’essere ricondotte verso la gestione di quanto è statale.

Raúl Zibechi, giornalista e ricercatore uruguayano, ha presentato nel nostro paese il libro “Cambiare il mondo dall’alto. I limiti del progressismo”, editato dal CEDLA e scritto a quattro mani con l’analista spagnolo, Decio Machado.

Il testo mette a nudo i limiti politici, ideologici ed economici dei cosiddetti governi progressisti, caso Venezuela, Ecuador, Bolivia, Argentina e Brasile che nell’ultimo decennio hanno aggravato l’estrattivismo in America Latina.

All’inizio, Zibechi ritiene che in Marx, mai e poi mai, viene detto che il mondo possa essere cambiato dall’alto, dallo stato. “Siamo tra quelli che pensano che il mondo si cambi dal basso e che dall’alto si riproduce solo ciò che c’è. E se quello che c’è è estrattivismo, questo è quello che si continua ad avere”, afferma.

Il limite politico ed ideologico di questi governi è stato considerare che la chiave della transizione da uno stato ad un altro tipo di stato consista nell’arrivo di nuovi settori sociali (popolari) alle più alte cariche dell’amministrazione, come è stato incessantemente ripetuto dal pulpito progressista.

Zibechi e Machado affermano che pensare che questi alti incarichi stiano processando la transizione verso un nuovo stato, senza tener conto che sono molto probabilmente i nuclei di una nuova classe al potere (o una nuova burocrazia), è sbarazzarsi di tutta l’esperienza storica delle rivoluzioni del XX secolo. Qui ha origine il principale problema ideologico irrisolto dei progressismi: la formazione (nel suo seno) di una nuova borghesia redditiera nata dal basso, “ossia dello strato superiore dei movimenti e delle organizzazioni sociali e, parallelamente, il congelamento e il rafforzamento della cultura redditiera”, prima dello sviluppo di un nuovo tipo di società “socialista”.

Bisogna ricordare che dopo un decennio di convulsioni sociali in America Latina i progressismi si sono consolidati al governo: il Caracazo in Venezuela (1989), Inty Raymi in Ecuador (1990), o la Guerra del gas in Bolivia (2003), per citare tre esempi. Perché questi potenti movimenti hanno creduto che l’opzione liberale della democrazia rappresentativa fosse la soluzione? Questa è la domanda che il testo “Cambiare il mondo dall’alto. I limiti del progressismo”, di Raúl Zibechi e Decio Machado, cerca di sviscerare per trovare le ragioni per cui potenti ribellioni abbiano finito con l’essere ricondotte verso la gestione di quanto è statale, come se l’elettorale fosse la via d’uscita naturale per ricomporre le crisi in corso, dicono Zibechi e Machado, come dire, spiegare il riassetto dello stato e la chiusura dei cicli di lotte che caratterizzano i governi progressisti.

Nell’esercizio del governo, i progressismi hanno sviluppato aspetti comuni: rafforzamento/ristabilimento degli stati, applicazione di politiche sociali redistributive, aggravamento del modello estrattivo di produzione ed esportazione di commodities, come base dell’economia. D’altra parte, questo modello estrattivo basato sull’attività mineraria, idrocarburi e soia, è stato la base di una gestione populista, come dire della legittimazione politica e sociale dei progressismi.

Su questo si fissa l’analisi economica centrale del testo: il progressismo è stato incapace di trasformare la struttura produttiva e ha rafforzato il modello estrattivo e il suo principale errore è stato di non toccare le élite che concentrano la ricchezza. Questo fatto acquisisce rilevanza al momento di considerare e pensare la permanenza della disuguaglianza in America Latina, accresciuta in questo ultimo periodo. Il libro contiene dati precisi per dimostrare che nella regione la disuguaglianza sociale, prima di diminuire, è aumentata.

Ancor di più, di fronte all’attuale crisi economica mondiale e la successiva abissale caduta dei prezzi delle materie prime, gli autori si domandano quali risposte ci proponga il progressismo che non finiscano con l’incrementare il (medesimo) estrattivismo? Nessuna.

In questi confini, nuovi movimenti sociali già stanno giocando un ruolo nella delegittimazione di questo modello estrattivo, osservano Zibechi e Machado, nelle varie mobilitazioni sociali che incominciano a inondare le diverse geografie dell’America Latina.

Insomma, sostengono che la ricomposizione statuale progressista sia stata un passo indietro nelle lotte sociali dell’America Latina. Qui l’intervista al giornalista e ricercatore uruguayano.

M.O.G. – Perché il titolo del libro “Cambiare il mondo dall’alto”?

R.Z. – Perché siamo tra coloro che pensano che il mondo si cambi dal basso e che dall’alto si riproduce solo ciò che c’è. E se quello che c’è è estrattivismo, questo è quello che si continua ad avere. Se il mondo cambia in basso, e se l’alto si trasforma in ostacolo, bisogna “rompere il guscio”, come dice il Manifesto Comunista. In Marx, mai e poi mai, si dice che il mondo possa essere cambiato dall’alto, dallo stato.

M.O.G. – Negli antefatti dei governi progressisti si trova un insieme di mobilitazioni sociali che hanno messo in scacco lo stato neoliberale. Sono i movimenti indigeni in Ecuador, gli zapatisti in Messico, la Guerra dell’acqua e del gas in Bolivia, mobilitazioni  popolari in Argentina e Paraguay. In questo quadro, che importanza ha il Caracazo e che caratteristiche ha avuto questo movimento dove il popolo/massa/nazione ha avuto un ruolo importante. Il Chavismo è stato il suo sviluppo o la sua neutralizzazione?

R.Z. – Il Caracazo è stato il primo grande movimento del periodo neoliberale che nessuno ha convocato e nessuno ha diretto. Ma simultaneamente è stato la prima sollevazione popolare, una vera insurrezione, contro il nuovo modello, ed è stato di successo perché ha gettato le basi della delegittimazione del patto del Punto Fijo sul quale si fondava la governabilità dalla fine della dittatura di Pérez Jiménez.

Il chavismo è stato le due cose insieme, e lì la sua potenza ma anche la sua drammaticità. Ha voluto spingere il processo verso un fine determinato (il socialismo del XXI secolo) ma facendolo ha incominciato ad inquadrarlo in questo progetto, e facendolo lo mette all’avanguardia e pertanto lo addomestica. Ma il principale problema non è questo, da lì si può uscire. Il problema è la formazione di una nuova borghesia redditiera nata dal basso, ossia dallo strato superiore dei movimenti e delle organizzazioni sociali e, parallelamente, il congelamento e l’approfondimento della cultura redditiera.

M.O.G. – Se uno osserva il quadro della situazione politica precedente ai progressismi, spicca la quantità di movimenti popolari di resistenza contro il neoliberalismo. Perché questi potenti movimenti popolari sono rimasti neutralizzati? Questo non ha a che vedere con la vecchia idea riformista che permea la memoria politica delle masse in America Latina, il modo populista di affrontare la trattativa con lo stato in AL, di sommossa/stabilizzazione? 

R.Z. – Può essere. Ma nelle sinistre c’è anche una debole rottura con la cultura politica tradizionale, che si abbevera a questa idea di sommossa/stabilizzazione attraverso il voto. Questo appare sistemato, anche ddal caudillismo, statalismo, e certamente alla vecchia cultura paternalista ereditata dalla proprietà terriera e dalla chiesa. Non è per nulla facile rompere con questo. Una cultura non cambia se non in tempi lunghi, non lo fa gradualmente ma attraverso turbolenze. La cultura capitalista, oggi lo sappiamo, anche se prima lo si poteva intuire, nacque come conseguenza di una turbolenza apocalittica, come fu la peste nera che in un paio di anni si prese la metà della popolazione dell’Europa. Questo impatto lasciò segni molto profondi, nell’economia, nella cultura, nella politica, e crea le condizioni per l’apparizione del capitalismo per ragioni che sarebbe molto lungo spiegare, ma che sono bene documentate in una serie di lavori che sono usciti negli ultimi 20 anni.

M.O.G. – Che sono e come caratterizzare i governi progressisti che hanno dominato la scena politica nell’ultimo decennio. Perché “fine di ciclo”. Perché il rafforzamento dell’estrattivismo è uno dei suoi componenti essenziali per la riproduzione della sua legittimità?

R.Z. – Sono governi che da sé stessi si dicono di sinistra o progressisti, anche se alcuni intellettuali li chiamano post-neoliberali. Dicono di essere giunti per ridurre la povertà e la disuguaglianza e promuovere la crescita con distribuzione della rendita. È tutto falso. La povertà è caduta perché c’era un ciclo di crescita delle economie e la disuguaglianza non è mai diminuita se si tiene conto dell’accumulazione dell’1% e non delle entrate salariali delle diverse categorie. Questo vuol dire che l’oligarchia di Santa Cruz ha continuato ad accumulare in grandi quantità, ma sono cresciuti anche altri settori, fatto che ha contribuito a creare il miraggio che si potesse migliorare la povertà senza toccare la ricchezza.

Se dovessi definirli, dico che sono governi che amministrano il modello capitalista nella sua fase finanziaria, ossia ciò che chiamiamo estrattivismo o “Accumulazione per saccheggio”. L’unica differenza con il precedente periodo è che non c’è più bisogno delle privatizzazioni perché l’accumulazione avviene in altri settori. Un’altra conseguenza è che hanno rafforzato il capitalismo attraverso l’inclusione mediante il consumo.

M.O.G. – L’aumento dei prezzi delle materie prime è stato dannoso per il continente? Questa è un’idea che contrasta con il senso comune generato nell’ultimo decennio dal progressismo?

R.Z. – Che ti paghino di più qualcosa che stai vendendo non può essere cattivo. Il problema è che fai con questo. Tu vendi patate e quinoa al mercato e guadagni molto di più. Bene. Ma se te lo spendi in una televisione al plasma, in un’auto di lusso e in viaggi, quando tornano a pagarti una miseria sei allo stesso punto. Un’altra cosa è se investi queste entrate per migliorare la tua casa, nell’educazione dei tuoi figli, o nel impiantare un’attività commerciale familiare. Lì stai aprendo un ventaglio che ti può spostare dal posto che avevi.

Questo è ciò che ha fatto il progressismo: spendersi tutto nell’auto di lusso. Ci sono state cose molto buone, come le teleferiche di La Paz che cambiano realmente le cose alla gente, poiché dovevano destinare ore e ore al trasporto. Ma il lavoro continua ad essere precario e mal pagato, e così con la maggior parte delle cose.

M.O.G. – Thompson dice che le classi sono, perché lottano, non lottano perché sono. Su questa linea, sostiene che l’arrivo di nuove classi popolari al potere con il progressismo non è la garanzia di nessun socialismo. Perché questo dibattito non si è sviluppato in AL? Al progressismo bisognerebbe addebitare anche il tratto della deideologizzazione, della mancanza di un dibattito sui grandi temi che caratterizzano il marxismo?

R.Z. – A coloro che fanno parte di questa nuova borghesia emergente non interessa rendersi visibili ma passare come attivisti o gestori del processo di cambiamento. Non ammettono lo specchio. E agli intellettuali succede qualcosa di molto particolare, o fanno parte della destra o sono stati comprati e hanno molte buone entrate, di più di 5.000 dollari, che non gli permettono più di essere critici. La critica al potere comporta sempre precarietà e bassi salari, come succedeva a Marx. Ma ora nessuno vuole guadagnare 500 dollari al mese, aspirano a guadagnare dieci volte di più, avere auto, donna di servizio, viaggiare in tutto il mondo, e così.

M.O.G. – Nel libro affermate che il principale errore dei governi progressisti sia stato di non toccare le élite che concentrano la ricchezza, di non fare riforme strutturali e di rafforzare il modello estrattivo. Può spiegare questo in cifre? Non si è lottato contro la disuguaglianza?

R.Z. – In Brasile e in Uruguay, che è dove si sono fatte delle misurazioni, l’1% guadagna lo stesso o più di prima, non perde nulla e tutto indica che ora con la crisi la frattura si è ampliata ancor di più. Non hanno toccato la ricchezza perché hanno governato con i ricchi, con le multinazionali brasiliane in Brasile, con l’agro-negozio e le attività minerarie in tutto il continente. Quello che hanno fatto di più è incrostarsi in questa borghesia a partire da affari più che loschi, come ora viene fatto conoscere in Brasile e come è sempre stato in Venezuela dove i quadri bolivariani hanno un accesso privilegiato alla rendita petrolifera.

M.O.G. – Perché l’estrattivismo genera una società senza soggetto?

R.Z. – Qual era il soggetto della vecchia attività mineraria in Bolivia? I lavoratori delle miniere, che vivevano in grandi accampamenti di migliaia di minatori, in luoghi appartati e in condizioni molto dure tanto nel loro lavoro nello scavo come nella vita quotidiana. Per questo dormivano, come si diceva, con il fucile sul cuscino, perché lì c’erano i soldati e i padroni per reprimerli. Erano il soggetto naturale del modo di produzione.

Ora, qual’è il soggetto nei campi di soia o nell’attività mega-mineraria multinazionale? Sono attività che quasi non hanno bisogno di lavoratori, l’attività mineraria ora funziona come nelle piattaforme petrolifere, impiegano molta poca gente e in modo rotativo, in luoghi distanti e quasi sempre senza contatto tra di loro. I camion che raccolgono il minerale di rame a Chuquicamata non hanno autisti, sono a controllo remoto. I soggetti erano legati al modo di produzione ma ora i soggetti che nascono sono esterni alla produzione, come le donne vittime di femminicidi che sono molto relazionati all’estrattivismo, come coloro che hanno subito danni ambientali, i precari urbani, e così, nessuno è nella produzione.

M.O.G. – Ed è arrivata la crisi economica per la violenta caduta dei prezzi delle commodities che ha messo a nudo i limiti dell’economia dei governi progressisti, allo stesso tempo si osserva una ricomposizione dei movimenti sociali, “come sintomo delle crepe aperte tra governi e società”. Può ampliare questo quadro della situazione di ricomposizione della società in movimento?

R.Z. – Quella società in movimento ha smesso di esserlo e i vecchi movimenti non saranno più i medesimi. È un’altra fase. Quello che stiamo vivendo ora, da giugno 2013 in Brasile, è qualcosa di nuovo, completamente nuovo. Tanto che ancora non abbiamo parole per nominarlo.

Da dove veniamo? Da una fenomenale cooptazione dei movimenti. Prima del periodo neoliberale, quando sono stati creati i modi di cooptazione delle donne, degli indigeni, dei settori popolari, ecc., attraverso nuove istituzioni in alto per integrare l’élite, e di politiche mirate a controllare la povertà. Ma questa borsa si è scucita in basso, perché la crisi è stata così forte che non ha potuto contenere tanti poveri.

Dopo è venuta la cooptazione progressista, molto più solida e che abbraccia, ha integrato non solo dirigenti ma interi movimenti, ha fatto politiche sociali molto più ampie ma non ha riconosciuto diritti universali, e ha realizzato molte opere. Ma il modello estrattivo sommato alla caduta dei prezzi, sta incominciando a far filtrare nuove proteste che non si possono più contenere. Qui possiamo dire che le donne sono l’avanguardia, perché l’attuale modello genera femminicidi che non sono più la tradizionale violenza maschilista, ma un genocidio contro coloro che sono di troppo in questo modello, e una parte di quelle sono donne. Il modello si sostiene con la proliferazione di servizi armati, da militari e poliziotti fino a guardie private, fatto che ha moltiplicato la popolazione in armi, dove si reclutano i violentatori e gli assassini.

I giovani sono l’altro settore ugualmente contestatore, perché come le donne non hanno futuro in questo tipo di società, anche se come venditori a 800 bolivianos al mese, da lunedì a lunedì per 11 ore al giorno. È uguale al femminicidio: questo non è più sfruttamento attraverso estrazione di plusvalore, ma schiavitù. Ossia, qui puoi solo essere guardia armata o schiava/schiavo, e incominciano a ribellarsi a questo fato.

M.O.G. – In questo contesto: che risposte propone di fronte alla crisi economica e politica che vive l’America Latina, che superi l’estrattivismo e ci proponga nuovi tipi di società?

R.Z. – Ma per superare il modello estrattivo bisogna sconfiggere l’1% e i suoi alleati, i media concentrati, i politici di destra e di sinistra, e i militari. Bisogna sloggiarli dallo stato, disarmarli dei loro media e delle loro armi, ma bisogna anche sconfiggerli culturalmente, e questo passa attraverso la rottura della cultura consumista che spoliticizza e ci rende conservatori. Non si giunge nel mondo nuovo in auto e parlando con l’iphone, si giunge solo se adottiamo un modo di vita molto austero e se siamo disposti a mettere il corpo nel tentativo. Nonostante tutto, nulla è sicuro.

M.O.G. – Affermano che “la ricomposizione statuale progressista sia stata un passo indietro e che il punto di riferimento debba essere sempre il grado più alto raggiunto dalla lotta sociale e mai quello che è possibile ottenere. Il possibile è sempre lo stato, il partito, le istituzioni esistenti” come parte della cultura politica predominante. È possibile avere altri riferimenti di trasformazione che non sia lo stato e i partiti?

R.Z. – Abbiamo tutta una storia di vita e di lotte dei settori popolari che puntano in altre direzioni che non è né lo stato né i partiti. Se non riviviamo questa storia, quella che va da Túpac Katari ai minatori e ai contadini, che hanno disarticolato il colonialismo e il gamonalismo (politica autoritaria dei cacicchi locali, ndr), che hanno fatto la rivoluzione del 52 e hanno delegittimato il neoliberalismo, se non riviviamo questo stile di vita, che va molto più al di là di una politica, allora non siamo in condizioni di continuare in questo.

Tra di noi si è andata imponendo una cultura del facile, in Venezuela chiamano facilismo la cultura del non lavoro, della rendita. Fino ad ora in tutti i marxismi, il socialismo era il frutto del lavoro, non della distribuzione della rendita. Perché la distribuzione si può fare una volta, tu ti riappropri della terra una volta, dopo devi lavorarla. Lo stesso con le fabbriche, con tutto. Allora siamo di fronte ad una cultura che non valorizza il lavoro, ed è pertanto funzionale all’attuale capitalismo. Si valorizza quello che si consuma, il marchio, l’ostentazione della moda, del nuovo, ma non si valorizza il lavoro. Nella politica, è uguale, si valorizza l’incarico, il mettersi in mostra, per questo i progressisti appaiono nei medesimi luoghi dei borghesi, ostentando. Questo è pane per oggi e fame per domani.

Messico: partecipazione dell’EZLN alle elezioni presidenziali del 2018

M.O.G. – Che opinione hai del comunicato congiunto del Congresso Nazionale Indigeno (CNI) e dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), il movimento antisistema più noto, di partecipare nelle elezioni presidenziali del 2018 in Messico con una donna indigena?

R.Z. – L’EZLN non va ad elezioni. È una iniziativa simile alla “Otra campaña” dell’anno 2005, ossia cerca di organizzare nuova gente ma in un momento in cui lo stato messicano è scassato, con una metastasi terminale. Di fronte a questo, l’EZLN sta prendendo iniziative audaci. Nonostante ciò, non va alle elezioni, ossia non presentano candidati a deputato e senatore, a sindaco e governatore, nulla di questo, solo una donna indigena come candidata per poter interpellare la nazione messicana come hanno fatto con la “Otra campaña” nella quale l’EZLN lanciò una iniziativa civile ampiamente conosciuta dal popolo messicano.

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Sollevazioni popolari e grandi mobilitazioni in America Latina 1989-2013

Fatto/ Paese/ Anno/ Caratteristiche

Caracazo – Venezuela – 1989 – Sollevazione popolare spontanea

Inty Raymi – Ecuador – 1990 – Sollevazione indigena

Ya Basta!! – Messico – 1994 – Ribellione zapatista

Caduta A. Bucaram – Ecuador – 1997 – Sollevazione popolare

Marzo Paraguaiano – Paraguay – 1999 – Sollevazione popolare semi-spontanea

Guerra dell’Acqua – Cochabamba-Bolivia – 2000 – Sollevazione popolare

Caduta J. Mahuad – Ecuador – 2000 – Sollevazione popolare

Cuatro Suyos – Perú – 2000 – Grande marcia organizzata

Caduta di La Rúa – Argentina – 2001 – Sollevazione popolare urbana

Blocchi di strade – Paraguay – 2002 – Mobilitazione contadina

No privatizzazioni – Arequipa-Perú – 2002 – Sollevazione popolare

Anti-Colpo di Stato – Caracas-Venezuela – 2002 – Sollevazione popolare

I Guerra Gas – Bolivia – 2003 – Sollevazione indigena

II Guerra Gas – Bolivia – 2005 – Sollevazione popolare

Forajidos (Fuorilegge) – Ecuador – 2005 – Sollevazione popolare

Comune Oaxaca – México – 2006 – Sollevazione indigena

Baguazo – Perú – 2009 – Sollevazione indigena

Marcia TIPNIS – Bolivia – 2011 – Mobilitazione popolare

Giornate di Giugno – Brasile – 2013 – Mobilitazione popolare

Fonte: “Cambiar el mundo desde arriba. Los límites del progresismo”. Decio Machado/Raúl Zibechi. La Paz: Cedla, luglio 2016, 188 p.

6 novembre 2016

Hora25

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Mirko Orgáz García, “Diálogo con Raúl Zibechi: Los límites del progresismo” pubblicato il 06-11-2016 in Hora25su [http://hora25.info/node/1689] ultimo accesso 19-11-2016.

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