Gustavo Castro, l’unico testimone dell’assassinio dell’attivista ecologista e dirigente indigena dell’Honduras, racconta il crimine che ha commesso l’oligarchia.
Era squadrata, argentata e grande. Non potè distinguere altro. L’arma stava solo a due metri di distanza, puntata al viso. Gustavo Castro si gettò ad un lato del letto e istintivamente si coprì con le mani. Il proiettile gli sfiorò la nocca dell’indice sinistro e, per molto poco, non ha colpito la sua fronte. Ma gli ha lacerato l’orecchio sinistro. Sufficiente a riempire tutto di sangue e al criminale di darlo per morto. Molto vicino, nell’altra camera, si udì un disperato divincolarsi, e tre detonazioni. Quando Gustavo entrò, vide Berta Cáceres al suolo. Pochi minuti dopo sarebbe morta nelle sue braccia. Erano le 23.40 dello scorso 2 marzo. In quella casa solitaria di La Esperanza, ad ovest di Tegucigalpa, finiva di essere assassinata una delle più conosciute attiviste ambientali del Centroamerica. Una indomabile ecologista, tanto rispettata [dai poveri] come odiata [dagli impresari e dai proprietari terrieri], che da tempo sapeva che sarebbero arrivati da lei.
La sua morte ha scatenato una ondata mondiale di indignazione. Ma come tante altre volte, dopo la condanna, è giunto il silenzio. Passato un mese e mezzo tutto continua uguale: con il segreto istruttorio e senza progressi.
Castro, di 51 anni, è atterrato all’aeroporto di San Pedro Sula lo scorso 1 marzo. Direttore dell’organizzazione ecologista Otros Mundos Chiapas, il suo obiettivo era fare un seminario a dei membri del Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras (Copinh) [una delle organizzazioni indigene ed ecologiste più grandi del Centroamerica], fondata dalla sua collega Berta Cáceres. Ambedue condividevano un lungo curriculum ecologista e da cinque anni non si vedevano. Dopo aver passato una prima notte in una casa dell’organizzazione, Berta invitò Castro nella sua affinché potesse utilizzare internet e comunicare con la sua famiglia. Prima di andare, visitarono sua madre, una conosciuta levatrice e attivista sociale honduregna, e cenarono leggero nel ristorante El Fogón. Dopo si incamminarono alla casa, un semplice cubicolo circondato da lotti non edificati e protetto soltanto da uno steccato perimetrale. “Berta, questa casa non è sicura”, fu la prima cosa che le disse Gustavo vedendola.
Tutto il mondo in Honduras sapeva che Berta Cáceres era minacciata. La sua lunga lotta per i diritti del popolo lenca, al quale apparteneva, e la sua attività ambientale le avevano procurato numerosi nemici. Le loro ultime attività li hanno resi grandi. Cáceres guidò, dentro e fuori del paese, una interminabile ondata di proteste contro la diga di Agua Zarca, un enorme progetto a capitale internazionale, che danneggiava il fiume Gualcarque. La sua strategia, basata sulla mobilitazione delle comunità, fece breccia. La Banca Mondiale e l’impresa di costruzioni cinese Sinohydro si sono ritirate. La compagnia honduregna Desarrollo Energéticos SA (DESA) era rimasta sola nell’impresa.
Cáceres, per il momento, sembrava aver vinto. La sua resistenza le aveva portato notorietà internazionale, ma in Honduras la segnò. Nel corso delle proteste era caduto per uno sparo uno dei suo compagni del consiglio indigeno. Altri sono stati feriti e torturati [fatto che è tornato a succedere dopo l’assassinio di Berta]. Cáceres, madre di quattro figli, si era convertita in un obiettivo ovvio in una terra dove 111 ambientalisti sono stati assassinati tra il 2002 e il 2014. La Commissione Interamericana dei Diritti Umani ordinò la sua protezione. La polizia honduregna doveva proteggerla, ma non lo fece.
Nella notte del 2 marzo i due attivisti giunsero con una Volkswagen grigia nella casa solitaria. “Regnava un silenzio profondo”, ricorda Castro. Ambedue si sedettero sotto il porticato a parlare. Il messicano fumò un paio di sigarette e, verso le undici, si salutarono per andare a dormire. Castro si coricò nel suo letto con il computer. Preparava il seminario del giorno seguente quando udì un fracasso. Credette che la credenza fosse caduta. Subito si rese conto del suo errore. “Chi è lì! gridò Berta.
Gli assassini erano entrati dalla cucina. Conoscevano bene la casa. Uno si diresse nella camera dell’attivista honduregna. Un altro, in quella di Castro. “Non si aspettavano che io fossi lì. Pensavano che Berta sarebbe stata sola, perché la notte precedente sua figlia era volata a Città del Messico. Era tutto pianificato”. Il sicario, senza smettere di mirare Castro, guardò se c’era qualcun altro nella stanza; dopo sparò per uccidere.
Berta Cáceres non ebbe fortuna. Tre colpi nell’addome le dettero il congedo. Al suolo, moribonda, ebbe ancora le forze per chiamare il suo collega. “Quando giunsi se ne stava andando. Mi chiedeva di avvisare al telefono il suo ex marito, ma io non riuscivo a premere i tasti. Le dicevo: “Bertita, Bertita, non andartene”. Ma non durò nemmeno un minuto, morì nelle mie braccia”. Castro rimase solo. Incominciò a comporre compulsivamente i numeri. Temeva che i sicari tornassero. Il primo amico tardò ad arrivare. Dopo, poliziotti e giornalisti calpestarono la scena del crimine. Fu decretato il segreto istruttorio. Il caso cadde nell’oscurità.
Castro e le organizzazioni indigene chiedono che si indaghi come responsabile la DESA, l’impresa che fece il progetto di Agua Zarca. Da quel momento, la procura non ha presentato nessuna accusa. Forse mai lo farà. È l’Honduras. Castro lo sa. Ma ha deciso di dare battaglia “Berta non ha lottato per un fiume, il suo lavoro non era locale. È morta per qualcosa di cui tutti siamo responsabili: per la biodiversità del pianeta. Non possiamo voltare le spalle alla sua causa”.
22.04.2016
EL País.
Riassunto da La Haine
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
“Honduras: Así mataron a Berta Cáceres” pubblicato il 22-04-2016 in La Haine, su [http://www.lahaine.org/mundo.php/honduras-asi-mataron-a-berta] ultimo accesso 26-04-2016. |