Favelas: Oltre la povertà e la paura


Raúl Zibechi

La favela è un mondo complesso nel quale convivono la povertà e la violenza della polizia e del narcotraffico. Ad un primo sguardo sembra lo spazio più difficile per costruire alternative dal basso e da sinistra. Nonostante ciò, centinaia di attivisti l’hanno scelta come luogo dove creare il nuovo.

L’auto passa quasi rasentando due grosse volumi di cemento di un metro di altezza. Un piccolo errore di calcolo e la lamiera finirebbe rovinata. “Da qui non passa il caveirão”, dice qualcuno, riferendosi al veicolo blindato costruito soprattutto per far entrare la Polizia Militare nelle favelas. “Nemmeno passano le pattuglie”, festeggia un terzo. L’entrata alla Comunità Chico Mendes nel Morro de Chapadão, zona nord di Rio de Janeiro, è stata ristretta per i corpi repressivi.

Saliamo il pendio verso l’alto per strade strette e ben pavimentate, tra case semplici ma curate. In pochi minuti giungiamo al locale del Movimento delle Comunità Popolari (MCP), una enorme porta di ferro al lato di un piccolo e accurato magazzino che vende alimenti e prodotti di pulizia. “Non vendiamo sigarette”, dice una voce di donna. Con serenità e fermezza aggiunge: “Fanno male alla salute”.

Il portone si apre su un ampio patio coperto con in fondo uffici e sale riunioni e un secondo piano con altri saloni. Un enorme cartello avverte contro il consumo di alcol e in un altro lato del patio un altro cartello più grande illustra le dieci “colonne del movimento”: economia, religione liberatrice, famiglia, salute, casa, scuola, sport, arte, ozio e infrastrutture. Le chiamano colonne perché sono i pilastri dell’organizzazione, identificate secondo le “necessità dei settori popolari”.

Un uomo basso e robusto di circa 60 anni offre acqua fresca per attenuare il tremendo calore carioca, e invita a girare per gli spazi. Tutto avviene come in un film al rallentatore, con molta calma, forse per contrastare il calore. Appare la donna del magazzino, Janduir, che ci dice che ambedue sono stati i primi militanti del MCP a giungere nella favela, più di venti anni fa, quando le case erano di legno, precarie e piccole.

Una comunità differente

La principale differenza tra la Comunità Chico Mendes e le altre favelas è che si è insediata a seguito di una occupazione o invasione, non dall’aggregazione con il contagocce di famiglie e persone. Qui le persone erano già organizzate prima dell’occupazione del morro (colle, ndt), giunsero tutte insieme e cominciarono a costruire le case e il quartiere. Erano militanti di sinistra che avevano deciso di mettere all’insediamento il nome del più simbolico organizzatore dei raccoglitori di caucciù, assassinato dai proprietari terrieri nel 1988.

Ora la comunità ha circa 25 mila abitanti, ma Gelson ricorda che quando giunsero dovettero fare mutirão (lavoro collettivo) per collegare decine di tubi ad una fonte d’acqua a 300 metri. Usciva appena un filo d’acqua e bisognava fare una fila perfino di quattro ore per riempire una latta. “La gente ha lottato ed è riuscita ad avere acqua, luce, fognature e anche lavori per asfaltare le strade”, spiega Gelson. Le difficoltà ora sono altre: “Le cose sono lontane, i prezzi sono alti, entrare e uscire dalla comunità è molto difficile per la violenza del traffico (di droga)”.

Ricordano che la prima nidiata di militanti che formarono la comunità oggi non c’è più; alcuni furono assassinati dai trafficanti e altri scomparsero, si pensa sequestrati. Quella generazione si scontrò duramente con il traffico (di droga) per impedire che si insediasse nella comunità. Ora lavorano in un altro modo, meno ideologizzato, evitando lo scontro con nemici più forti, come la polizia e il narcotraffico, e soprattutto “costruendo potere popolare”.

I primi passi nella Chico Mendes li fecero organizzando campionati di calcio con squadre di maschi e di donne. Fu il modo di farsi apprezzare dagli abitanti, di guadagnare la loro fiducia, di ottenere un luogo. A Gelson gli piace molto il calcio e lo pratica.

Quasi 20 anni fa hanno creato il gruppo di sostegno scolastico, che riceve 70 bambini e bambine dai 2 ai 14 anni in due turni con quattro maestre e due aiutanti. Hanno formato una rete d’appoggio a questa scuola per finanziare lo stipendio delle maestre. Sei anni fa hanno creato un asilo infantile per le madri della comunità, che ha già 20 bambini in due turni, con tre assistenti.

I due gruppi dell’educazione sono sostenuti dai genitori, che apportano denaro e realizzano attività per raccogliere fondi. Una volta al mese fanno un’assemblea per dibattere sul funzionamento delle scuole e cercare di risolvere i problemi in modo collettivo. L’asilo funziona in uno spazio, di fronte al salone centrale, e il sostegno scolastico, nel patio del principale edificio del movimento.

L’area o colonna dell’economia è la più importante. C’è un Gruppo di Vendite Collettive di sette persone che hanno a loro carico il magazzino dei prodotti per l’alimentazione, dove si riforniscono circa 150 abitanti. Questo gruppo ha aperto da poco tempo, a partire da un prestito del Gruppo di Investimento Collettivo (Gic), una baracca di materiali da costruzione servita da due persone del movimento. Dieci famiglie sono organizzate intorno al Gruppo di Acquisti Collettivi, che permette di comprare in grandi quantità ottenendo prezzi più bassi di quelli di mercato.

Dopo hanno formato un Gruppo di Produzione Collettiva, nel quale cinque famiglie producono saponi, detergenti, disinfettanti e ammorbidenti con l’olio vegetale usato. Ha cominciato facendo una campagna in difesa dell’ambiente e ora vende i propri prodotti ad una cooperativa del governo di Rio de Janeiro.

Il gruppo più importante dell’area dell’economia è il Gic. Conta su 400 investitori che ricevono il 2 per cento di interesse, è amministrato da volontari e dà prestiti a persone del quartiere. Gelson afferma che più di 30 case del luogo sono state acquistate con il denaro del Gic, oltre a facilitare l’acquisto di furgoni da parte di abitanti che lavorano trasportando persone dalla metro fino al morro.

“Il Gic risolve molti problemi della gente, e li incoraggia a risparmiare, perché nei settori popolari non si risparmia”, dice Gelson. È molto comune che ad una famiglia finisca il gas e non possa sostituirlo perché non ha denaro. Ora si reca al Gic e risolve il problema senza la necessità di andare in banca.

Un vecchio-nuovo movimento

Quello che oggi è il MCP è cominiciato 40 anni fa a partire da un gruppo di persone, come Gelson, che facevano parte della Gioventù Agraria Cattolica. Fecero un seminario sotto la dittatura militare nel quale decisero di “creare un movimento che non solo lavorasse per riforme e miglioramenti, ma con una proposta anticapitalista”. E crearono il Movimento di Evangelizzazione Rurale, che nei fatti smise di essere un gruppo dipendente dalla Chiesa.

Gelson ricorda la povertà del campo. Sua madre ebbe 12 figli, sei maschi e sei femmine, in un paese del Paraíba. “Comprava un litro di latte per tutti e siccome non bastava aggiungeva molta acqua”. Lavorava la terra, e una notte, a 11 anni, aprì le porte per far uscire le vacche e i vitelli. Fu la sua prima ribellione.

Nella misura in cui la società cambiava, con gli anni il movimento si è trasformato. Negli ottanta avvenne una grande emigrazione verso la città, tra le varie ragioni per la meccanizzazione del campo e la concentrazione della terra in latifondi. Allora cominciarono a lavorare nelle città e crearono la Corrente dei Lavoratori Indipendenti. Ma nei novanta percepirono la precarizzazione del lavoro e presero una importante decisione: lavorare con i settori più rassegnati del popolo, “disoccupati, braccianti, abitanti delle periferie, contadini poveri”, come si può leggere in uno dei primi numeri del periodico Voz das Comunidades.

“Fu il momento più duro. –afferma Gelson– I militanti avevano una cultura di classe media, avevano le loro famiglie, non sopportarono di andare nella favela e decisero di aderire a partiti come il PT e alle centrali sindacali”. In quella occasione decisiva persero più di un terzo dei militanti. Contemporaneamente decisero di non unirsi al PT, perché pensavano che avrebbe diviso i settori popolari separando i dirigenti dalle basi.

La loro attività nelle periferie delle città trasformò il movimento e i suoi membri. Cominciarono a lavorare secondo le dieci colonne e a creare comunità popolari. Oggi sono più di 60 comunità, la metà in aree urbane. Nel 2006 pubblicarono la Voz das Comunidades, per unire il movimento, che era già presente in 12 stati. Nel 2011 decisero di darsi l’attuale nome: MCP.

Il movimento si propone tre obiettivi. A breve termine, mobilitare la gente affinché risolva i propri problemi sociali e le necessità culturali più sentite. A medio termine, organizzare la popolazione in comunità popolari. E a lungo termine, “conquistare un governo popolare dal basso verso l’alto per costruire una società comunitaria basata sul buen vivir indigeno (vivere bene), sui quilombos degli schiavi (comunità nere fuggite dalla schiavitù), sulle comunità contadine ugualitarie, come quella di Canudos,1 e sul socialismo operaio e popolare”, come stabilirono nel secondo incontro del movimento, nel 2012. Per loro governare dal basso verso l’alto è “controllare, a partire dalla base, i servizi pubblici e comunitari attraverso la democrazia partecipativa”, creando le condizioni affinché la gente partecipi.

Janduir e Gelson spiegano che il movimento si ispira alle lotte storiche come quelle dei guaranì, ai quilombos degli schiavi che fuggivano dalle piantagioni, all’esperienza di Canudos e alle lotte operaie del XX secolo. Ha come principi l’indipendenza dai partiti e l’autonomia politica ma anche economica delle iniziative.

Il mondo nuovo nelle periferie

Il Gic di Chico Mendes ha 400 investitori e muove 700 mila real (circa 170 mila dollari), che sono amministrati in affollate riunioni di 60/70 persone. In solo 12 anni sono riusciti ad essere una fonte di finanziamento per le famiglie del quartiere, senza debitori, perché ogni persona che fa un prestito lo ha come garanzia. Zero debiti, controllo comunitario dei conti. Janduir mostra un quaderno dove annota tutto a mano. “Mi piace di più farlo così che usare il computer”, dice sorridendo.

Tra tutte le comunità hanno 30 Gic, che sono amministrati da più di cento persone e ne traggono beneficio varie migliaia. I MCP contano su 100 gruppi di produzione, vendita e servizi collettivi, con più di 1.500 membri. Producono vestiti, sacchetti, articoli di pulizia, allevano animali e coltivano la terra. Quelli di vendita hanno mercati collettivi, vendono gas e cereali, Quelli dei servizi comprendono lavanderie, raccolta di residui, costruzioni civili e hanno comprato camion per la comunità.

Hanno installato dieci scuole, contano su gruppi di salute che fanno campagne contro il consumo di alcol e fanno lezioni sulla salute della bocca e riproduttiva, e hanno cominciato con un gruppo di terapia comunitaria. “Si tratta sempre delle cose di cui ha necessità il popolo”, affermano Gelson e Jundair.

“Immagina che un giorno la gente costruisca in Brasile milioni di gruppi di questo tipo”, riflette Gelson. “È molto diverso se tu volessi reclutare gente per la rivoluzione, per prendere il potere, che facciamo dopo?”. È un cammino differente per elaborare i cambiamenti. “In questo processo di costruzione stiamo apprendendo a gestire un Gic, una microimpresa, e ì stiamo apprendendo a gernare una scuola, un municipio, in modo collettivo e solidale, senza corruzione, con trasparenza”, continua Gelson.

Tutti i lavori che effettuano, dallo sport fino alle scuole e ai gruppi di investimento, ossia, tutto quello che è costruzione di comunità, ha come riferimento la creazione di potere popolare. Con un doppio punto di vista: che siano iniziative fuori dal mercato e dallo stato (non ricevono nulla dai governi) e che li gestiscano gli stessi membri del movimento in modo collettivo. Tutto questo lo chiamano potere popolare.

“L’economia popolare è l’economia che è già lì, è l’economia del popolo, come la vendita ambulante e i mercati popolari. Ma quello di cui abbiamo necessità è un’economia popolare organizzata, con una coscienza di gestione collettiva”. Non inventano nulla, organizzano e sistematizzano quello che già c’è, attraverso la formazione e l’organizzazione collettive. L’autogestione può essere intesa come la sistematizzazione di quello che fanno i settori popolari in modo embrionale e spontaneo.

Nell’annuale assemblea nazionale realizzata nell’agosto del 2014 i militanti del MCP giunsero alla conclusione che non stare camminando con i due piedi, come loro volevano. “Continuiamo a realizzare più attività comunitarie (economia solidale, attività culturali e azioni collettive) che lotte rivendicative per politiche pubbliche e in difesa di diritti”, si legge nell’ultimo esemplare del giornale. Questo sbilanciamento si deve, secondo il MCP, al fatto che per dieci anni hanno puntato sulla costruzione di comunità e che in questo periodo i dirigenti dei movimenti sono stati cooptati dal governo.

Questo è un dibattito presente in tutti i movimenti di nuovo tipo in America Latina: quanta energia dedicare a costruire il proprio e quanta a contrastare le istituzioni statali. Il dibattito intorno alle politiche pubbliche (partecipare alla gestione di istituzioni pubbliche su scala locale) contiene due posizioni: il timore della cooptazione da parte dello stato e il timore dell’isolamento. È la necessità di scegliere tra il creare potere popolare comunitario senza governare, o il governare senza avere potere.

“La contraddizione tra ambedue è permanente”, ragionano i militanti del MCP. Per questo Gelson, quando gli si chiede delle difficoltà del movimento, le colloca dentro, non fuori. “La cosa più difficile è la formazione dei giovani”, dice senza dubitare un secondo. Quando era giovane, nel decennio del 1960, in piena dittatura, era la realtà quella che formava la coscienza, quella che mostrava i percorsi da seguire. Oggi le cose sono più complesse. Il consumismo, le reti sociali, sono fonti di confusione, pensa. Il lavoro di formica di tutti i giorni può sembrare poco, ma sanno che non c’è altro cammino.

Nota:

  1. Il Movimento popolare nel nordest intorno alla figura di Antonio Conselheiro, nella comunità di Canudos (a nord di Bahía), che fu sconfitto dall’esercito. Ispirò pellicole e racconti giornalistici, come “Brasile ignoto”, di Euclides da Cunha (testimone dell’ultima spedizione militare contro la comunità), e romanzi come “La guerra della fine del mondo”, di Mario Vargas Llosa.

28-01-2016

Brecha

tratto da Rebelión

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Raúl Zibechi, “Favelas: Más allá de la pobreza y el miedo” pubblicato il 28-01-2016 in Rebelión, su [http://www.rebelion.org/noticia.php?id=208458] ultimo accesso 04-02-2016.

 

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