Mettere in moto il futuro: la ex Petinari di nuovo nelle mani dei suoi lavoratori


Gli operai sono rientrati nell’impianto a Merlo dal quale erano stati sgomberati. La solidarietà degli abitanti e di altre cooperative amiche. “Abbiamo fatto giustizia”, dicono.

La strada 200 divide due realtà opposte. Nel municipio bonaerense di Merlo sono circa le 14.00 quando, da un lato, passano trotterellando 15 persone, indumenti sportivi, magliette, pantaloncini, come per prepararsi ad una maratona. Dall’altro, una fabbrica vuota, 30 lavoratori fuori –tra i 29 e i 62 anni, la maggioranza con vestiti da lavoro, mani incallite, dolori metallurgici– e un cane vestito con una maglietta azzurra. Una settimana fa, la fabbrica era piena, con i 30 lavoratori e il cane dentro, ma sono stati sgomberati dopo che erano entrati nell’impresa metallurgica di rimorchi e autocarri con il cassone ribaltabile che da gennaio non gli ha pagato stipendi, tredicesime, li ha lasciati senza assistenza sociale e li ha spinti ad uno sciopero che li ha portati a stare sette mesi in strada, sopravvivendo con la collaborazione degli abitanti e degli automobilisti.

Lo sgombero li mise di nuovo sulla strada. Avevano ripreso la produzione: avevano già pronti due cassoni da consegnare ai clienti. Non avvenne: giunsero 50 agenti, tra fanteria e Bonaerense, accompagnati dalla procuratrice Adriana Suárez de Corripio, della UFI N°8 di Morón. I lavoratori decisero di uscire pacificamente e di evitare rappresaglie. La cooperativa stava avviandosi: già hanno l’iscrizione provinciale, stanno facendo le pratiche nazionali e un progetto di espropriazione presentato da Miguel Funes (FpV) è in attesa di essere trattato la prossima settimana nel Congresso bonaerense. Ma quando verso le 14.00 di giovedì scorso i 30 operai hanno visto passare le persone che trotterellavano, nessuno si immaginava il futuro: quella stessa notte l’avrebbero passata dentro la fabbrica senza dormire per poter concludere quella produzione.

“Sapranno quello che si sta preparando qui?”, domanda un lavoratore, mentre guardava i corridori.

Quello che si sta preparando lo dice Jorge Gutiérrez, futuro presidente della cooperativa Acoplados del Oeste (Rimorchi dell’Ovest), che ha riunito i suoi compagni di guardia: “Saremo tranquilli. Entreremo e saremo chiari: a partire da ora il controllo lo abbiamo noi”. Gli operai si guardano, prendono fiducia e si mettono in marcia.

Il gruppo si divide. Una parte avanza con fermezza attraverso il terreno confinante. L’altra avanza verso il portone della fabbrica. Dicono alla sicurezza privata della guardiola che entreranno. Tre incominciano a tirare. Si unisce un quarto. Lo aprono. È durato pochi secondi. Improvvisamente, la fabbrica. È un passo. Entrano “Eccoci qua”, dice Miguel Ángel Colazo, 6 anni nella fabbrica, tra il meravigliato e il confuso. “Eccoci qua”, conferma Félix León, 7 anni a lavorare, quasi la stessa sensazione.

La strada è rimasta dietro, le persone che trotterellavano non c’erano più, gli operai incominciano ad applaudire. “Sono già entrati”, dice Gutiérrez ascoltando il rumore mentre entravano attraverso il terreno confinante. Si uniscono al vocio. La fabbrica non era più vuota, i 30 lavoratori non erano più in strada, e la prima cosa che il cane con la maglietta azzurra fa entrando è accomodarsi, sollevare la zampa ben in alto e lanciare un potente getto sullo spigolo di una colonna.

Non c’erano dubbi: si tornava a recuperare il territorio.

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Riavvolgendo

In precedenza, i nervi si calmavano con partite di calcio-tennis nel parcheggio dell’attuale ex Petinari, la fabbrica di rimorchi e autocarri con il cassone ribaltabile che da gennaio ha lasciato 200 famiglie sulla strada senza tredicesime, senza stipendi, e li ha spinti a protestare in strada per sette mesi, ad occupare l’impresa, a cominciare la produzione senza padrone, ad essere sgomberati dalla fanteria, dalla polizia Bonaerense e da un procuratore, a tornare sulla strada e ad entrare nuovamente con un sogno: mantenere la fonte di lavoro.

Carlitos, un abitante che fin dal primo giorno li ha appoggiati e che si offre di volantinare e di andare di casa in casa per raccontare la storia dei lavoratori (“Così hanno fatto alla Zanón, ed è stato fondamentale”, ricorda questo uomo di varie battaglie), ha fatto da arbitro, anche se in piedi. In una situazione così confusa, uno delle squadre cerca di accomodare il punto. “10 a 4”, hanno gridato. Dall’altro lato hanno di nuovo modificato: “Aggiungi uno per noi: già sembri il contabile di Grégori (ex amministratore dell’impresa, uno dei segnalati dagli operai di averli lasciati senza lavoro). Sono esplose le risate.

“Hai visto Negro”, ha domandato un lavoratore.

Negro è il cane che, dalla resistenza in strada, ha accompagnato i lavoratori come un guardiano. Sempre sicuro, l’amore incondizionato se lo è guadagnato nel giorno dello sgombero: ha morso la mano di uno dei poliziotti.

“Hai visto come è vestito?”

Il cane, sdraiato sul marciapiede al sole, sfoggia una maglietta azzurra.

Dice: “Acoplados del Oeste”.

“Abbiamo convenuto che tutti dovevamo venire con indumenti da lavoro. E lui non poteva essere da meno”.

La giustizia e il poliziotto

Dentro, mentre i lavoratori entrano ed escono dai capannoni per portare fuori tavoli, panche e i supporti della tenda che hanno cominciato a rimontare sul prato, parla Armando Etcheverría, 60 anni, 9 nella fabbrica, settore tornitura: “Tutto questo è una grande gioia. Vedremo che succede ora. Stavamo lavorando e sul punto di guadagnare: avevamo due cassoni pronti da tirar fuori quando c’è stato lo sgombero. Ma bisogna continuare. Sì, è difficile. Mia moglie lavora, ma è demoralizzata. Qui bisogna avere la mente fredda. Perché ti prospetti molte cose, perfino che cosa significa giustizia”.

Dice che ha passato la settimana successiva allo sgombero tranquillo. “Sapevamo che saremmo entrati. Tutto è stato per non perdere la fonte di lavoro. Molti sono rimasti senza assistenza sociale. Puoi non lavorare un settimana, due, un mese, ma non otto mesi. Per una persona che ha lavorato tutta la sua vita, questo ti uccide. Si può dire che abbiamo fatto giustizia”.

Anche Roque Gómez, 62 anni, 9 anni nella fabbrica, saldatore, ridefinisce la nozione di giustizia. Ha un cancro alla prostata e il suo licenziamento ha scatenato un domino burocratico che lo ha lasciato senza assistenza sociale. Quando aveva necessità di uno trattamento specialistico è rimbalzato da un ospedale all’altro. Oggi prende due pasticche alla mattina e altre durante il pomeriggio. “Mi hanno licenziato all’inizio dell’anno perché ho detto che mettendosi nel conflitto il sindacato, ciò che si cercava era il fallimento dell’impresa. Qui eravamo 400 lavoratori e ogni volta siamo andati rimanendo di meno”. Gómez ha la speranza di tornare a lavorare. “Per questo ogni volta che viene della gente mi emoziono: mi sento appoggiato”, dice, in mezzo ad un terreno che cominciava a popolarsi per l’assemblea pubblica convocata dai lavoratori per le 15.00.

Pochi minuti prima, verso le 14.20, un furgone della Bonaerense ha sostato a pochi metri dal portone. Gli sguardi fissano un’unica direzione. Un gruppo di lavoratori si è avvicinato al mezzo. Erano un poliziotto giovane e una ufficiale. I lavoratori gli hanno spiegato il conflitto. “Ci hanno lasciato sulla strada e ora faremo una cooperativa”, hanno commentato. La risposta della polizia: “Entrate, lavorate, fate una grigliata”.

L’heavy

L’assemblea pubblica è cominciata passate le 16.00. Sono giunti lavoratori di altre fabbriche e imprese recuperate, professori, partiti politici, organizzazioni sindacali. Sono passati militanti del PTS, del Partito Operaio, di Sinistra Socialista, della CTA, del Quebracho e del Movimento Evita, tra gli altri. Quelli che hanno parlato per primi sono stati i lavoratori.

Jorge Gutiérrez impacciato al tavolo scherza: racconta che le volte in cui è stato su un “palcoscenico” per rivolgersi al pubblico è stato quando cantava in un banda thrash.

Ora sarà il presidente di una cooperativa di lavoratori a Merlo.

(Annotazione personale sul quaderno: “Questo è heavy metal”).

Gutiérrez ringrazia ogni persona che si è avvicinata e fa un resoconto del conflitto: le tredicesime e i mensili non pagati, lo sciopero, la strada, i licenziamenti. “Il sindacato (SMATA), se si può chiamare così, ci ha lasciati come dei miserabili. L’idea della cooperativa l’abbiamo progettata nel 2012, ma al momento delle carte ci hanno posto degli ostacoli. Oggi siamo 130 persone che scommettiamo. C’è gente che verrà e si aggiungerà dopo. Le porte sono aperte per gli altri lavoratori. Siamo qui affinché questi lavoratori vadano in pensione dentro l’impresa. L’unica bandiera che solleviamo è per i compagni della Petinari”.

Al suo lato, anche lui impacciato al tavolo, quello che parla ora è Hernán Noir: “Nemmeno noi ci immaginavamo di arrivare fin qui. L’unica cosa che vogliamo fare è dimostrare che siamo capaci. I padroni credono che poiché hanno più denaro di noi sono i re del mondo. Non è così, ed è diventato più chiaro quando abbiamo cominciato la produzione. È bello lavorare senza padrone, e con i compagni. E la cosa più bella, quando ci hanno sgomberato, è stata che tutti stavamo ridendo: sapevamo che saremmo entrati. E è anche bello portare il mensile alle nostre famiglie, perché sono loro che stanno dietro a noi. Questo è quello che ci è capitato ed è quello che abbiamo scelto. Siamo una famiglia. Alcuni di noi sono d’accordo, altri no, ma la vogliamo mantenere. E ci sembra un buon esempio da portare ai nostri figli: nessuno si deve lasciare calpestare. Questo ti porta ad essere, o a cercare di essere, delle persone migliori, perché per le cattive ci sono loro”.

Un altro modello, un’altra economia

Dopo è stato il turno delle altre esperienze di fabbriche e imprese recuperate. L’assemblea pubblica si è così trasformata in una lezione magistrale su politica ed economia difficile da trovare nell’università. Quello che per primo parla è il rappresentante della Cooperativa Frigocarne, di Cañuelas:

“Da 11 anni siamo una famiglia senza padrone. Siamo liberi, pieni di contraddizioni, ma liberi. Dimostriamo che i negri, gli analfabeti, possono gestire una fabbrica. È possibile un paese diverso, una fabbrica diversa. Non è facile: c’è paura, diffidenza. Ma non abbiamo bisogno dei padroni per produrre. In 8 anni abbiamo messo nell’impianto 8 milioni di pesos. Siamo al di sopra dello stipendio sindacale. Ma accidenti: guardate se non dimostriamo che possiamo”.

Pablo Ledesma, della cooperativa Unión Solidaria de Trabajadores, di Villa Domínico, Avellaneda, si mette davanti:

“Abbiamo 11 anni di autogestione, e grazie al vicinato, abbiamo potuto recuperare il lavoro. Oggi abbiamo un orto agro-ecologico, una scuola, una campo di hockey. C’è un modello molto migliore del capitalismo, ed è quello che costruiamo tra tutti in comunità”.

Franciso Manteca Martínez, della Textiles Pigüe (ex Gatic) fa un’osservazione fondamentale riguardo a quanto segue: “È bene mettere in evidenza l’inizio. Bisogna essere molto coraggiosi per occupare, molto eroici per resistere, ma anche molto intelligenti per produrre. Bisogna riunirsi con i fornitori, i clienti. Nel cammino dobbiamo essere intelligenti. E non è facile. Abbiamo ancora bisogno di rivendicazioni, che ci equiparino nei diritti con gli altri lavoratori di altri settori, non abbiamo bisogno di mono-convenevoli. Tutti possiamo fare dei canti rivoluzionari, ma bisogna essere intelligenti”.

José Vasco Abelli, membro del Movimento Nazionale delle Imprese Recuparate, chiude: “Quando nel decennio infame, nei 90, abbiamo incominciato a recuperare imprese, ci trattavano da matti. E abbiamo copiato il motto del Movimento Senza Terra: ‘Occupare, resistere e produrre’. Questo è l’orgoglio che tutti dobbiamo sentire come classe, come lavoratori che recuperano la dignità. Tutti i giorni c’è una nuova fabbrica recuperata. Questa è la grande conquista: recuperiamo la fiducia. In tutto il paese ci sono più di 50 mila lavoratori autogestiti. Siamo stati intelligenti ad impadronirci dei mezzi di produzione, e questo è quello che fa male al neoliberismo e al capitalismo. C’è un’altra economia, e la facciamo noi”.

Il mondo secondo Merlo

Nel terreno ci sono risate, battute, mate, calcio. Il clima è tornato ad essere diverso. “Bisogna metterti a pitturare questo cassone, questa settimana deve uscire”, dice Jorge Gutiérrez ad un altro compagno. La tenda non ancora montata ma il pensiero già sta un passo avanti: bisogna produrre.

“La sensazione che abbiamo è di sollevare nuovamente lo sguardo e vedere che, grazie alla lotta, torniamo ad avere una speranza e ci siamo potuti unificare”, conclude Gustavo Machuca, 29 anni. “Ogni volta siamo più vicini al sogno di essere una cooperativa. Quando abbiamo saputo che forse entravamo un’altra volta, il tempo e l’ansia ti divoravano. Mi svegliavo all’alba, non potevo dormire. E ora vedere le macchine e i compagni di nuovo dentro è qualcosa che ti motiva molto. Essere qui e avere questo sostegno è importante affinché nessuno possa frodare il morale”.

Si aggiunge Eber Moreno, 21 anni nella fabbrica, addetto alla pressa: “Era risaputo che sarebbe avvenuto lo sgombero. Spero che, in questo caso, la seconda sia quella vittoriosa. Tornare al lavoro è quello che oggi come oggi ci importa di più. Perché il tema del denaro è già andato. Negoziare il nostro stipendio non ci serve: perché andiamo a finanziagli questo, se serve solo a che i padroni si riempiano le tasche. Quello che ci interessa è questo, che sia nostro. Manca un poco, ma non metterà fuori nessuno di noi”.

Continua Machuca: “Abbiamo passato la prima volta qui dentro, dopo è venuto lo sgombero. Questa seconda volta ci aiuta ad essere più ostinati e uniti: ci siamo fatti più forti. Il nostro sogno sta già diventando realtà. Ci stiamo rafforzando sempre più. Questo fa già parte di noi. Io so che è mio, per la mia famiglia, per i miei compagni e per il mio futuro”.

Il futuro è questo angolo di Merlo, puro presente, puro cambiamento, pura trasformazione.

Questo giovedì il mondo si è mosso di un millimetro.

Lo hanno mosso queste persone.

Il tempo dirà cosa è quello che questo millimetro ha mosso.

28/08/2015

Lavaca

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
“Mover el futuro: la ex Petinari otra vez en manos de sus trabajadorespubblicato il 28-08-2015 in Lavaca, su [http://www.lavaca.org/notas/mover-el-futuro-la-ex-petinari-otra-vez-en-manos-de-sus-trabajadores/] ultimo accesso 02-10-2015.

 

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