Brasile: lo spettro dell’impeachment e le sfide dei movimenti


Claudia Fanti

Brasilia. Sono tempi particolarmente difficili per i movimenti popolari brasiliani, chiamati, da un lato, a una doverosa difesa del governo democraticamente eletto dagli assalti di una destra dalle chiare simpatie golpiste e, dall’altro, al compito altrettanto imperioso di esercitare pressioni su quello stesso governo, sempre più deciso ad abbracciare politiche contrarie agli interessi popolari. Una difficoltà che si è riflessa in pieno nella manifestazione promossa dai movimenti il 20 agosto scorso, in risposta a quella antigovernativa realizzata in diverse città quattro giorni prima: se il denominatore comune della mobilitazione era il no all’impeachment (invocato dalla destra malgrado non pesi sulla presidente Dilma Rousseff alcuna accusa di corruzione), sulle valutazioni relative al governo non esiste invece piena concordanza tra i movimenti, al di là delle critiche condivise al programma di aggiustamento fiscale dell’amministrazione Dilma (la cui popolarità è scesa ad agosto a un misero 8%).

Individuando come nemico principale Eduardo Cunha, il presidente della Camera dei deputati alla guida dell’offensiva di destra contro i diritti sociali e del lavoro (anche lui coinvolto nell’operazione Lava Jato, l’enorme rete di corruzione che ha travolto la Petrobras, l’industria petrolifera brasiliana, in cui sono caduti anche diversi esponenti del Partito dei Lavoratori), i manifestanti non hanno comunque risparmiato critiche all’Agenda Brasil, un pacchetto di 27 misure di taglio nettamente conservatore presentato dal presidente del Senato Renan Calheiros con l’avallo del governo Dilma.

Una sorta di “sblocca Brasile” al servizio della lobby dei banchieri, dell’agribusiness e degli imprenditori che, tra molto altro, propone interventi sull’età pensionistica, l’ampliamento della esternalizzazione delle imprese, l’allentamento del quadro giuridico rispetto alle aree indigene, la flessibilizzazione delle regole per le autorizzazioni ambientali, la revisione del quadro legislativo in relazione all’attività mineraria, il via a nuove privatizzazioni. Un’agenda considerata dai movimenti disastrosa per il Paese ma a cui la presidente Dilma, costretta all’angolo dall’offensiva della destra, si è afferrata come a una ciambella di salvataggio, sfruttando al volo la tregua in tal modo assicurata al governo dal presidente del Senato (ben più ondivago rispetto a quello della Camera nelle sue relazioni con l’Esecutivo) per poter così contenere gli attacchi di un sempre più belligerante Eduardo Cunha. «Molte delle proposte del presidente Renan – ha affermato la presidente – coincidono pienamente con le nostre e diamo loro un forte benvenuto. (…). Questa sì che è l’agenda positiva per il Paese».

Ma se da un lato, in nome della governabilità, la presidente è pronta a stringere un patto con Renan Calheiros, dall’altro cerca, al solito, anche una sponda nei movimenti popolari, con i quali non a caso si è incontrata il 13 agosto: per quanto siano decise le critiche alla politica economica del suo governo, Dilma sa infatti che dai movimenti può attendersi senz’altro una difesa senza tentennamenti da ogni aggressione filo golpista (dove per golpe, oggi, in America Latina, si intende piuttosto un colpo di Stato di natura parlamentare, del genere di quello verificatosi in Paraguay, nel 2012, contro il presidente Fernando Lugo). Tanto più che, con l’arresto, il 3 agosto, di José Dirceu, ex capo di gabinetto del governo Lula, l’offensiva politico-mediatica contro il Pt si è alzata di livello, già guardando al prossimo obiettivo: minare la grande popolarità di cui ancora gode l’ex “presidente operaio” (malgrado l’involuzione del Pt affondi le sue radici, tra l’altro, proprio nella strategia lulista della conciliazione permanente) per scongiurarne l’eventuale ritorno al governo nel 2018.

In effetti, come ha evidenziato con forza il leader del Movimento dei Senza Terra João Pedro Stédile, la destituzione di Dilma sarebbe «un’idiozia completa», perché «non rappresenterebbe alcuna soluzione, né per la crisi economica, né per quella politica, né per quella sociale e, al contrario, aggraverebbe tutto introducendo una nuova crisi, quella istituzionale». Cosicché «impedire qualsiasi tentativo di golpe» deve essere, secondo Stédile, l’assoluta priorità dei movimenti in questo momento, insieme alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori, alla riforma della politica (con lo stop al finanziamento privato delle campagne elettorali) e alla difesa della Petrobras («Il petrolio è l’ultima riserva strategica in termini di risorse naturali che può finanziare lo sviluppo nazionale»).

Stupisce un po’, in realtà, la tendenza di molti movimenti a sottovalutare l’impatto di un’altra crisi, quella ecologica, rispetto a cui il governo Dilma, sempre più orientato a considerare la preservazione dell’ambiente un intralcio allo sviluppo, rivela una miopia impensabile, che si tratti di agribusiness, di megadighe, di miniere a cielo aperto o dello sfruttamento del cosiddetto pre-sal, un enorme giacimento di petrolio e gas al largo delle coste brasiliane, a una profondità tra i 6mila e gli 8mila metri (rispetto a cui molti movimenti si preoccupano solo di scongiurarne la cessione a imprese straniere, senza curarsi delle devastanti conseguenze ambientali). Sono infatti, in genere, appena le associazioni ecologiste – e, ovviamente, le comunità indigene, oggetto di aggressioni senza fine da parte di ogni potere dello Stato – ad attaccare il governo in questo campo, con decisione e senza sconti. E sono infatti tredici organizzazioni ambientaliste, tra cui Greenpeace e l’Instituto Socioambiental, a divulgare una nota congiunta contro l’impatto ecologico dell’Agenda Brasil tanto lodata dalla presidente Dilma, affermando che tali misure calpesterebbero «i diritti territoriali indigeni e la regolamentazione ambientale in direzione opposta rispetto a quella richiesta dalla crisi climatica», oltre a ignorare la crisi idrica ed energetica che il Brasile sta attraversando e che esigerebbe, piuttosto, un aumento, non una riduzione, del controllo dello Stato in questo campo.

Un’«agenda ammazza indio» la definisce Egon Heck del Cimi (il Consiglio Indigenista Missionario, Ihu Unisinos, 18/8), denunciando l’obiettivo di porre le terre indigene, considerate un ostacolo al superamento della crisi, a disposizione dell’agenda dell’agribusiness. «Le misure proposte – si legge nel manifesto divulgato dall’Apib, l’articolazione dei popoli indigeni del Brasile – non faranno che aggravare le crisi: idrica, climatica e politica. Vale a dire che, oltre a catastrofi ambientali, comporteranno un aumento dei conflitti e delle violenze contro i nostri popoli».

ADISTA

27.08.2015

tratto da Amig@s MST – Italia

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Claudia Fanti, “Brasile: lo spettro dell’impeachment e le sfide dei movimentipubblicato il 27-08-2015 in Amig@s MST – Italia, su [http://www.comitatomst.it/node/1120] ultimo accesso 28-08-2015.

 

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