Venezuela: Il “socialismo” petrolifero nel suo labirinto


Raúl Zibechi

Crisi economica, mancanza di prodotti e polarizzazione, disegnano uno scenario nel quale è in gioco la continuità del processo bolivariano, ma anche la sovranità di un paese che si è azzardato a sfidare la dipendenza da una superpotenza che considera i Caraibi come “un mare chiuso”.

Riempire un serbatoio con 70 litri di benzina costa la metà del prezzo di una bottiglia di mezzo litro di acqua minerale. Lo stesso di una sigaretta sfusa, cinque bolos (bolívar forti –moneta venezuelana–). L’ultima settimana di marzo il dollaro parallelo stava a 53 bolívar, nove volte più dell’ufficiale che settimane addietro aveva raggiunto l’astronomica cifra di cento bolívar.

Questa distorsione dei prezzi è quanto emerge di un’economia deformata, che non funziona più come un’economia capitalista tradizionale (dominata dai monopoli privati) e che sembra trovarsi a metà strada dall’economia socialista (monopolio statale), con le tensioni e contraddizioni che un simile passaggio presuppone. Insomma, l’economia è lo scenario di una acuta lotta di classe, nel senso più tradizionale del concetto.

Si può constatare una delle evidenti distorsioni percorrendo i diversi quartieri di una città di un milione e mezzo di abitanti, come Barquisimeto, capitale dello stato occidentale del Lara: nei quartieri popolari si notano code di fronte ai negozi e ai supermercati, di differente lunghezza ma quasi quotidiane; nei quartieri delle classi medio alte come Fundalara, non si vedono code e i negozi sembrano ben riforniti. Le famiglie escono dai negozi con piccole buste di alimenti, mentre nei quartieri popolari le donne di casa portano grandi pacchi per approvvigionare le proprie famiglie numerose.

La principale differenza è che nei quartieri alti si possono vedere, con la medesima quotidianità con cui si osservano code in quelli popolari, manifestazioni di studenti che levano in alto bandiere venezuelane, senza che nessuno gli dia fastidio e alcuni che li applaudono con colpi di clacson di sostegno. L’impressione è che nell’ultima settimana di marzo tanto le code come le proteste tendevano a diminuire.

Equilibrio catastrofico

L’immagine di una società divisa in parti quasi uguali, e anche polarizzata, sembra la più vicina alla realtà. Le elezioni presidenziali che hanno portato Nicolás Maduro alla presidenza, quasi un anno fa, hanno riflettuto ambedue i fatti evidenziando una differenza dell’ 1,5% tra l’attuale presidente e l’aspirante oppositore Henrique Capriles.

La divisione ha, inoltre, una necessaria lettura territoriale che può contribuire a spiegare l’attuale situazione. Negli stati di Zulia, Táchira e Mérida, tra gli altri, ha vinto l’opposizione. Si tratta della regione che confina con la Colombia dove durante il mese di febbraio le proteste hanno raggiunto una situazione da “zona liberata”, come nella capitale del Táchira, San Cristóbal, la cui università pubblica è stata incendiata dai manifestanti con, perlomeno, la complicità delle autorità municipali e statali legate all’opposizione.

Da parte del governo si denuncia la partecipazione alle proteste di paramilitari colombiani vicini all’ex presidente Álvaro Uribe e, in modo particolare, nelle minacce selettive ai militanti chavisti. L’opposizione, a sua volta, denuncia maltrattamenti e torture dei prigionieri. Ambedue i fatti sembrano plausibili, anche se non ci sono prove contundenti che li confermino.

Due fatti sembrano evidenti. Che la repressione statale abbia provocato la morte di vari manifestanti, e che tanto l’opposizione come i gruppi chavisti utilizzino armi da fuoco. Il giornalista Aram Aharoninam, ex direttore di Telesur, afferma che dei 40 morti tra il 12 febbraio e la fine marzo, 22 sono stati “omicidi selettivi di dirigenti di base bolivariani, effettuati da mercenari paramilitari colombiani alleati delle forze della borghesia venezuelana” (Rebelión, 1 aprile 2014).

La Procura Generale della Repubblica ha diffuso dei dati, quando la cifra dei morti era di 31, che tra i 461 feriti nelle manifestazioni c’erano 143 poliziotti. Vari uomini in divisa sono stati uccisi. Di quasi duemila arrestati, solo 168 rimangono dietro le sbarre.

Durante il mese di febbraio, il Venezuela è stato lo scenario di una doppia ascesa e di una finzione di negoziato: l’ascesa della destra più oltranzista, guidata dall’arrestato Leopoldo López e dalla deputata Corina Machado ma non seguita dal Tavolo di Unità Democratica (MUD) guidato da Capriles che in piena crisi ha affermato che “l’unico percorso è la via elettorale”.

L’offensiva dell’ultra destra ha conosciuto una svolta quando hanno fatto irruzione le forze chaviste, in particolare i motorizzati, migliaia di militanti in moto che sono una delle più attive forze organizzate dei governativi. Contro di loro, l’opposizione ha teso dei cavi nelle strade all’altezza della testa.

Anche il presidente Maduro ha pubblicamente appoggiato l’apparizione dei motorizzati denunciando che cinque di loro sono stati uccisi da franco tiratori. “Questo colpo di stato che sta proseguendo e che è già sconfitto, ma che continua facendo danni al popolo, ha permesso che per il bene della patria i motorizzati irrompessero come attori. Ora loro sono visibili, non saranno più stigmatizzati. I motorizzati agiranno per riportare la pace e in questo momento stanno sconfiggendo un colpo di stato” (El Nacional, 13 marzo 2014).

La cattiva economia

Nella comunità Abya Yala, nei dintorni di Barinas, terre così secche come fertili che aspettano ansiose l’inizio del periodo delle piogge, Ignacio ed Edis spiegano come lavorano alla produzione di alimenti senza pesticidi sulla base del controllo biologico delle piaghe. Producono ortaggi e frutta, maiali e uccelli, che portano al mercato della Cooperativa di Autogestione Comunitaria collegata ad una delle maggiori reti cooperative di rifornimento, la Cecosesola.

Ignacio, veterinario e produttore uruguayano che da otto anni è in Venezuela, è membro di una cooperativa vicina che si distingue per una forte produzione di yuca organica. Vive in una cooperativa di riforma agraria, ugualmente nelle vicinanze della capitale dello stato. È affascinato dalla terra perché qui si può coltivare per dodici mesi all’anno, mentre in Uruguay è possibile farlo solo durante cinque mesi. Anche se continua ad appoggiare il processo, sostiene che “l’immensa maggioranza dei beneficiari della riforma agraria non lavorano la terra e la abbandonano”.

Sa di ciò che parla. E ha la perfetta consapevolezza di stare toccando un punto nevralgico dell’economia bolivariana. Il suo racconto su scala micro viene rafforzato dai dati macro: il 56,2 per cento di inflazione nel 2013, deficit fiscale vicino al 15 per cento, caduta delle riserve internazionali, importante scarsezza di alimenti.

La cosa più grave è che le cose stanno peggiorando. Fino a metà del 2013 non mancavano gli alimenti né c’erano le code. L’inflazione fino al 2008 stava cadendo, per risalire verso il 2011. Dati ai quali bisogna aggiungere un’acuta evasione di valute e che nel loro insieme riflettono un problema strutturale che i successivi governi non hanno risolto e che si apre con la morte di Chávez.

Il giornalista Modesto Emilio Guerrero, venezuelano stabilitosi in Argentina, che appoggia il processo bolivariano, si domanda come sia possibile che ci sia mancanza di prodotti quando il governo controlla il 36 per cento del sistema di distribuzione degli alimenti.

Evidenzia che le 240 imprese create, e molte altre nazionalizzate e statizzate, non stanno ottenendo un aumento della produzione. “In Venezuela ci sono due pil, quello petrolifero e quello non petrolifero. Il petrolifero è immutato, non ci sono problemi. Il pil non petrolifero è quello che è liquidato, il privato e lo statale” (Notas, 21 marzo 2014).

Certamente la mancanza di prodotti si spiega, in una certa misura, con il contrabbando verso la Colombia di prodotti a prezzi regolati. Ma c’è molto di più. Il settore privato non cresce perché la borghesia non sta investendo. Ma il Venezuela possiede due enormi stabilimenti di alluminio che non sono cooperative e lo stabilimento dell’acciaio che era proprietà della Techint e la cui qualità produttiva è caduta dopo che l’impresa è stata nazionalizzata nel maggio del 2009. “Vai a dare la colpa all’imperialismo?”, dice Guerrero alludendo a coloro che sfoderano questo argomento per eludere le responsabilità.

La sua spiegazione è dal punto vista della cultura politica. Chi è stato rappresentante dell’Unione Nazionale dei Lavoratori, creata nel 2003 dai seguaci di Chávez, segnala che l’inefficienza di queste grandi imprese si deve alla “burocrazia sindacale, che effettivamente protegge un tipo di industria per pagare salari dello stato. Lo stato paga salari affinché non ci sia crisi sociale”.

Spiega che nella Techint la produzione era superiore quando era di proprietà della multinazionale. Le imprese statizzate ripetono la storia del socialismo reale, che fa sì che dove avvengono trasformazioni radicali “spunti dallo stesso organismo rivoluzionario, sociale, un corpo velenoso, canceroso, che è la cosiddetta burocrazia”, che in Venezuela è diventata borghese e corrotta.

Seminare petrolio

Arturo Uslar Pietri, uno dei più illustri intellettuali latinoamericani, pubblicò in una data così precoce come il 1936 un articolo giornalistico che ha fatto storia, intitolato “Seminare il petrolio”. Segnalava due fatti: che l’industria petrolifera avrebbe un carattere effimero e anche distruttivo. Sul primo aspetto sembra che abbia sbagliato, sul secondo ha indovinato come pochi.

Certamente, lo sfruttamento del petrolio si estende per più di un secolo e il Venezuela ha superato l’Arabia Saudita come la maggiore riserva di idrocarburi del mondo. C’è petrolio per molto tempo. Ma ha anche considerato che l’economia estrattiva distrugge un paese. “L’economia distruttiva è quella che sacrifica il futuro per il presente”, perché la sua produttività “dipende del tutto da fattori e volontà estranei all’economia nazionale”.

Sostenne che lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo potrebbe “giungere a fare del Venezuela un paese improduttivo e ozioso, un immenso parassita del petrolio, che nuota in una abbondanza momentanea e corruttrice e che sfocia in un’imminente ed inevitabile catastrofe”. L’unico modo di evitare questa deriva catastrofica sarebbe promuovere l’agricoltura e l’industria, ossia il lavoro produttivo. Il petrolio è una miniera, e le miniere non producono, si sfruttano; sono ricchezza, non economia. Sulla stessa lunghezza d’onda di Juan Pablo Pérez Alfonzo, ministro di Rómulo Bentancourt, che definì il petrolio come “escremento del diavolo”.

Uslar Pietri scrisse che “l’unica politica economica saggia e salvatrice che dobbiamo realizzare, è quella di trasformare la rendita mineraria in un credito agricolo, sviluppare l’agricoltura scientifica e moderna, importare animali da monta e da pascolo, ripopolare i boschi, costruire tutte le dighe e i canali necessari per regolarizzare l’irrigazione e il difettoso regime delle acque, meccanizzare e industrializzare la campagna, creare cooperative per certe coltivazioni e piccoli proprietari per altre”.

Meraviglioso perché anticipò di settanta anni la proposta di Chávez, con il quale simpatizzò nei primi anni. Non contò, nonostante ciò, sulla nuova borghesia nata dal cuore del processo, la cosiddetta boliborghesia.

Le cose in realtà si sono aggravate. Nel 2013 il petrolio ha rappresentato il 96 per cento del valore delle esportazioni. Un membro del gabinetto confessa, in una cena privata, che i tentativi di creare un’industria tessile bolivariana mediante la donazione di migliaia di telai e macchine a famiglie che si erano impegnate nella produzione, ha avuto un effetto tanto contrario come insperato: oggi lavorano come maquile (impianti manifatturieri per l’esportazione, ndt) per le multinazionali.

Parliamo di socialismo

Il disastro economico non spiega tutto. Ma su questo mordono l’opposizione e la Casa Bianca, che non smette di ricordare l’affermazione del teorico geopolitico con maggiore influenza sulla politica estera degli Stati Uniti, Nicholas Spykman, ricordato opportunamente dal professore brasiliano José Luis Fiori. I paesi caraibici, includendo chiaramente la Colombia e il Venezuela, fanno parte di una regione “dove l’egemonia degli Stati Uniti non può essere discussa” (Valor, 29 gennaio 2014).

Spykman ha valutato che la geografia è il fattore fondamentale della politica estera perché è il più duraturo, e si è sforzato nel dividere il pianeta in zone dove la superpotenza dovrebbe sviluppare azioni differenziate. Dei Caraibi, ha detto: “A tutti gli effetti si tratta di un mare chiuso le cui chiavi appartengono agli Stati Uniti, che significa che rimarranno sempre in una posizione di assoluta dipendenza dagli Stati Uniti”. Questo spiega non solo l’atteggiamento della Casa Bianca verso Cuba, ma anche l’imponente reazione militare quando il terremo di Haiti li portò ad un massiccio intervento nell’isola.

Così le cose, è possibile che l’appoggio del governo statunitense alla ribellione dell’ultra destra sia in relazione con la svolta del Venezuela verso la Russia e la Cina più che ad un inesistente processo verso il socialismo. È utile chiarire che in Venezuela non c’è mai stata una rivoluzione, nel senso classico e abituale del termine, ma una progressiva e pacifica occupazione dello stato “realmente esistente”. Ossia, un processo riformista, anche nel senso classico.

Il socialismo, secondo i suoi fondatori, si  deve basare sul lavoro e sulla produzione, non sulla distribuzione della rendita estrattiva, anche se con questa si è ottenuta la diminuzione della povertà, il miglioramento della vita dei settori popolari e l’apertura di nuove prospettive vitali. In questo senso, la famosa “espropriazione degli espropriatori” non è se non la restituzione di mezzi sottratti ai produttori che non può essere ripetuta all’infinito. Seminare il petrolio è come seminare la corruzione. Il socialismo non può essere seminato, ma realizzato laboriosamente durante un lungo periodo. Su questo punto, non ci sono scorciatoie.

Il Venezuela vive un “catastrofico equilibrio”, termine usato dal vicepresidente della Bolivia, Álvaro García Linera, per descrivere una situazione nella quale nessuno dei contendenti riesce ad imporsi. Per questo, il cammino più probabile è un patto che eviti che il paese possa incamminarsi verso una guerra interna simile a quella della Siria, o verso una situazione di non governo come nella Libia dopo la caduta di Muammar Gheddafi.

La partecipazione dei più importanti impresari alla riunione con il governo del 27 febbraio, la Conferenza Nazionale di Pace, può essere considerata un primo passo in questa direzione.

Anche se non hanno partecipato membri importanti del MUD, la presenza del presidente della Fedecámaras, Jorge Roig, e del presidente di Empresas de Alimentos Polar, Lorenzo Mendoza, indica che la borghesia tradizionale venezuelana sta optando per un proprio cammino e che non sembra piegarsi ai dettami degli ultras né di Washington.

Il Patto di Puntofijo è il precedente obbligato. Caduta la dittatura di Marcos Pérez Jiménez, per garantire una minima stabilità democratica, i dirigenti della socialdemocratica Azione Democratica, i socialcristiani del Copei e la centrosinistra Unione Repubblicana Democratica, il 31 ottobre 1958 firmarono un accordo che garantì la governabilità per mezzo secolo.

I partiti si impegnarono a rispettare il risultato delle elezioni, a governare insieme sulla base di un programma minimo comune e ad integrare il gabinetto con membri dei due partiti (l’URD si ritirò dal patto nel 1962). La questione centrale era garantire la democrazia di fronte alle sollevazioni militari.

Ora le cose sono più complesse. Un accordo tra l’opposizione e il governo con l’appoggio degli impresari, deve neutralizzare l’ultra destra ma anche le basi chaviste, “i collettivi” delle comuni, i motociclisti e tutti i settori organizzati che sono sorti dal golpe del 2002.

Potare questi settori del processo bolivariano, respinti tanto dalla borghesia tradizionale come dalla boliborghesia incrostata nel gabinetto, sarebbe come mettere fine al processo di cambiamenti per garantire alla borghesia emergente la continuità dei propri privilegi. Ma vedendo quanto successo in Ucraina, dove quelli di fuori hanno cavalcato le manifestazioni, un simile patto può spianare la strada all’intervento statunitense.

*Raúl Zibechi è un analista internazionale del settimanale Brecha di Montevideo, docente e ricercatore dei movimenti sociali nella Multiversidad Franciscana de América Latina, e consigliere di vari gruppi sociali. Ogni mese scrive il Rapporto Zibechi per il Programma delle Americhe (www.cipamericas.org/es).

4  aprile 2014

Programa de las Americas

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Raúl Zibechi, “Venezuela: El socialismo petrolero en su laberinto pubblicato il 04-04-2014 in Programa de las Americas, su [http://www.cipamericas.org/es/archives/11791] ultimo accesso 11-04-2014.

 

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