Guardare dall’alto o guardare dal basso: intervista a Raúl Zibechi


Heriberto Paredes Coronel

Raúl Zibechi non è politicamente corretto e ancor meno con la sinistra di cui fa parte. In questa intervista parla con decisione dei processi rivoluzionari a tavolino e delle esperienze reali viste dal basso, dei pregiudizi della sinistra, del narcotraffico, di uno sguardo con una prospettiva storica … È lunga e non ci sono parti da scartare.

A fine ottobre 2012, Raúl Zibechi,  giornalista uruguayano e analista internazionale, ha viaggiato in Messico per presentare il suo più recente lavoro “Brasile Potenza. Tra l’integrazione regionale e un nuovo imperialismo”, edito da Bajo Tierra Ediciones y JRA (Giovani in Resistenza Alternativa). Grazie a chi ha reso possibile questo viaggio e questa edizione messicana, abbiamo potuto intervistarlo su vari temi sui quali pensiamo sia sempre necessario riflettere. Questo è il risultato di questa amena e polemica conversazione, dove si affrontano alcuni temi generali che ci hanno aperto la strada per riproporre una riflessione sulle lotte. Vogliamo ringraziare i Giovani in Resistenza Alternativa per aver reso possibile l’intervista, Xilonen Pérez, membro del nostro Colletivo Editoriale per il suo coordinamento e Raúl Zibechi per questa conversazione, per le sue riflessioni, per il suo tempo e i suoi motti …

Su un possibile processo rivoluzionario in Messico e di come si guarda da differenti prospettive

– È possibile un cambiamento rivoluzionario nel Messico di oggi, considerando le esperienze autonomiste e i livelli di disorganizzazione e di rottura del tessuto sociale?

Per pensare le trasformazioni rivoluzionarie l’unica guida che abbiamo è ciò che è avvenuto nella storia, non possiamo farci guidare dall’ideologia, perché l’ideologia è una dichiarazione di intenti o una costruzione astratta. Credo che ci siano due idee preconcette –su questo tema della trasformazione rivoluzionaria– di cui mi piacerebbe parlare.

Una è che un processo rivoluzionario possa essere qualcosa di diretto o pianificato, nella storia nessun processo di trasformazione rivoluzionaria di successo –certamente lascio da parte l’Unione Sovietica o la Cina, che per me sono fracassati– è stato preventivamente pianificato. E la seconda è che trasformare ciò che c’è, costruire una società nuova non possa essere fatto se preventivamente questa non viene distrutta. Bene, che abbia certi livelli di distruzione sufficienti affinché possa essere costruito un mondo nuovo al posto di ciò che cade, di ciò che viene distrutto.

Trasformare il mondo sulla base di ciò che c’è, non mi sembra possibile. Qui c’è un giudizio preventivo che è necessario modificare.

– È imprevedibile il livello di distruzione in cui viviamo e ciò di cui, forse, abbiamo bisogno per passare attraverso un processo rivoluzionario …

Nella storia, tutte le rivoluzioni sono state figlie della guerra: la Rivoluzione Francese, la Comune di Parigi, la Rivoluzione Cinese e la Rivoluzione Russa. Perché sono figlie della guerra? Perché c’era un livello di distruzione così grande che faceva sì che quanto c’era peim non fosse realizzabile, ma sulle rovine si poteva costruire un’altra cosa; dopo fu più o meno possibile. Ciò che non mi sembra realizzabile è trasformare il mondo da ciò che c’è, che farai, far saltare in aria Sanborn’s? il Radisson? il male? come trasformi questo in un’altra cosa? il male in un altro spazio … Io non me lo posso immaginare. Questo vuol dire che probabilmente non è realizzabile un processo rivoluzionario, anche se io lo desidero e lavoro per quello, perché i precedenti requisiti non dipendono da noi. Le rivoluzioni si fanno sulla base della distruzione del mondo precedente. Per esempio, la Prima Guerra Mondiale non fu una costruzione di Lenin né dei bolscevichi, quello che decisero –lì sì coscientemente– fu di trasformare la guerra in rivoluzione. Che è ciò che Lenin aveva visto nella Comune di Parigi, nella Rivoluzione Francese.

Da un altro punto di vista del pensiero orientale, non è combattendo ciò che c’è che questo si debilita, se tu combatti frontalmente qualcosa, la rafforzi. Tremendo imbroglio, vero? Filosofico, politico, epistemologico … ma reale.

– Combattendo il narcotraffico, ciò che si fa è rafforzarlo …

Chiaro! I bolscevichi non indebolirono lo stato zarista, per fare la rivoluzione approfittarono della debolezza di quello stato, a causa della guerra e dei suoi stessi errori; dopo ricostruirono lo stato, ma questa è un’altra storia.

Ciò che voglio dire è che se noi ci fissiamo sui precedenti processi che possiamo più o meno conoscere e che ci possono ispirare, dobbiamo andare a pulire, a sgomberare il terreno dia falsi argomenti o dllea idee preconcette che non funzionano. Ciò che  sì che funziona, è in uno spazio limitato, come un Caracol, costruire una Giunta di Buon Governo [le esperienze di autonomia zapatista], che sono una esperienza molto buona e molto necessaria. E dopo che? Io non lo so. Non abbiamo una teoria rivoluzionaria da mettere in funzione, non l’abbiamo. Ancor di più, buona parte del pensiero emancipatorio deve essere ricostruito o riadattato o riorganizzato, buona parte del nostro pensiero ha mostrato problemi molto seri. Ciò che pensavo 15 anni fa o ciò che allora pensavano i compagni che sono là in Chiapas, oggi non funziona, è evidente che non funziona. Allora, senza abbandonare i principi, senza abbandonare un’etica, senza abbandonare nulla, è necessario ritornare allo stufato per pensare, io credo che la cosa peggiore che possiamo fare sia ingannarci, crearci delle false aspettative.

La sinistra tradizionale è stanca di parlare contro il capitalismo, ma tutti e ciascuno di noi, nella nostra vita quotidiana, riproduciamo il capitalismo, perché andiamo da Sanborn’s, perché consumiamo, perché abbiamo un Iphone, perché abbiamo un registratore ultra lusso che mai avevo visto in vita mia –e questo perché sono un giornalista–, perché andiamo in un hotel, perché andiamo in macchina. Un indigeno della montagna del Guerrero può parlarmi della rivoluzione e del capitalismo perché lo sta confermando con la sua vita quotidiana, nel nostro caso, no. Per questo la rivoluzione, l’autonomia, sono ancora discorsi, le azioni sono di meno.

– In questo senso bisognerà rompere questa normalità anche in altri contesti, e solo con questa premessa che ci permette di riprodotte queste strutture, si potrebbe pensare ad altre possibilità …

 Totalmente. Se io conquisto il potere –o una parte del potere– ma la vita quotidiana della gente continua a fuzionare ugualmente, non c’è un modo di produzione alternativo, se la società continua a funzionare come sempre, non possiamo fare nulla.

Voi avrete letto il Manifesto Comunista. Marx nel primo capitolo del Manifesto Comunista fa una storia di come, nel seno del feudalesimo, nacque il capitalismo. Eccellente storia, reale: i borghesi non si proposero di costruire il capitalismo, nessun borghese diceva: “Compagni, così sarà la questione!”. La presa del potere fu l’ultimo capitolo di un processo di secoli. Oggi nelle nostre brevi vite, che possiamo fare per fecondare un mondo nuovo –chiamiamolo socialismo, comunismo, è il meno–, esperienze pratiche che rimangono come riferimenti. La Comune di Parigi o la Guerra Civile spagnola sono riferimenti ineludibili in qualsiasi pensiero e pratica emancipatoria, come lo è lo zapatismo in Messico.

– È già un riferimento …

Lo è già, anche se non farà nient’altro, perché probabilmente non farà nient’altro; e in un certo senso, più complesso, Cuba. È un riferimento anche dei limiti che ha il potere statale. Se noi pensiamo ad una transizione di dieci anni, sì che dobbiamo preoccuparci della tattica e della strategia, ma se pensiamo ad una transizione di secoli ciò che ci dovrebbe preoccupare è lasciare le orme, le briciole, i piccoli indizi –come dice Ginzburg– del fatto che ci sia un altro cammino. È chiaro?

– Sì, penso solo a come trasmettere questo cambiamento di prospettiva di fronte a popolazioni o esperienze di lotta che stanno in processi molto più immediati, come arrivare e proporre che ciò che realmente possiamo arrivare a fare è lasciare le tracce di un cammino, che costruire realmente un cammino …

Nella storia l’idea di costruzione è seriamente messa in questione, l’idea di costruire una società nuova è una costruzione dell’illuminismo, è una costruzione del razionalismo moderno ma non ha nulla a che vedere con la storia dell’umanità.

– Per esempio, ora penso al processo sociale che c’è a Cherán [comunità autonoma in Messico] e subito le conversazioni con i compagni e con la popolazione, in generale, vanno su come stanno realmente sfidando lo stato, il governo locale e federale, su come stanno puntando a costruire un modo diverso di relazionarsi socialmente e su come stanno pensando per una trasformazione rivoluzionaria, e sono un municipio di quasi trentamila abitanti … stanno realmente pensando ad una trasformazione da quest’altra prospettiva, prospettare che questo sia, più di una trasformazione contundente, risulterebbe essere, lungo la storia, uno degli indizi, un  riferimento … Se lo commento così, mi si metteranno a correre.

Se parli così con i vecchi delle comunità, perché è se non altro il discorso del vecchio Antonio. Quando stetti alla Realidad [Chiapas] parlai con Tacho, e gli dissi:

– Tacho, quando incomincia la costruzione della nuova cultura politica?

– Guarda, abbiamo incominciato cinquecentotre anni fa, possiamo aspettare ancora.

Ossia, per questo parlo dei vecchi delle comunità, perché manca questa visione di lunga durata, di lungo periodo che la nostra cultura occidentale non ha. Perché per lo meno in Messico nella politica sono tutti di sei anni e non credo che questo possa essere modificato solo così, anche se noi dobbiamo lavorare in questa direzione.

Che bisogna fare? Lottare ed opporsi con tutte le nostre forze a ciò che c’è, combattere ciò che c’è, resistere a ciò che c’è. Come sarà in futuro? Non lo so.

– Come recuperare questo tipo di esperienze, come lo zapatismo o Cherán, in altri contesti? Come rapportare questo tipo di azioni alle nostre?

Uno può concludere che Zapata fu un fracasso storico, o può concludere che sia un  riferimento, vero? Zapata perse miserabilmente. Se noi pensiamo nei tempi brevi, siamo tratti in inganno, se noi pensiamo ad una transizione di secoli, sicuramente ci saranno esperienze molto interessanti, rivoluzioni sconfitte, rivoluzioni trionfanti che successivamente si muoveranno verso il lato meno previsto. Ma, inoltre, la storia è un processo non lineare.

Poniamoci nel XIV secolo, nel 1348 arriva la peste nera, un  terzo della popolazione europea scompare, un terzo in due anni, è brutale, immagina che trenta milioni di messicani muoiano in due anni, una catastrofe.

– Già con quelli che abbiamo è sufficiente …

Bene, questo successe in Europa, su questa base, su questo vuoto demografico, su questo orrore culturale, sociale, questa gigantesca paura che fu la morte, cominciò a nascere il capitalismo. Che successe dopo? Bene, sei secoli di avanzata del capitalismo, di ribellioni dei più diversi tipi, di ribellioni contadine, urbane, la colonizzazione … Tutto questo. Questa è la storia.

La lotta per il socialismo ha un secolo e poco più, siamo nel 1400 –o qualcosa di simile– con la differenza che oggi la peste nera ha la faccia della bomba atomica, dell’annichilimento, del genocidio. Oggi le armi di distruzione dell’umanità sono molto più perfette e a volte più sottili.

Che dobbiamo fare? Certamente ai contadini di  Cherán non puoi dire, “tu sarai una briciola di pane che altri raccoglieranno”, non gli puoi dire questo alla gente, ma con un po’ di saggezza ed eleganza sì, glielo puoi dire –riflettendo sulla storia del loro popolo– perché alla fine sono popoli che stanno resistendo da cinque secoli. E questo è il modello che chiedevi per poter recuperare questa esperienza. A loro non puoi parlare della Comune di Parigi né di Leningrado, ma sì dei loro antenati.

La più piccola cosa che venga fatta è fondamentale perché è ciò che possiamo e dobbiamo fare, io credo che lì è dove è attualmente il problema tattico. Che bisogna fare? Lottare ed opporsi con tutte le nostre forze a ciò che c’è, combattere ciò che c’è, resistere a ciò che c’è. Come sarà in futuro? Non lo so.

–  Qui stiamo parlando di vari temi. Pongo la questione dello stato e dei distinti livelli delle organizzazioni sociali, nonostante che negli ultimi anni il panorama sociale si sia trasformato a partire dai cartelli, del narcotraffico, è un tema che ci sembra molto complesso e difficile da inquadrare. Per esempio, nel Michoacán, i due cartelli che dominano all’improvviso hanno questi aspetti sociali, costruiscono scuole, danno lavoro … costruiscono la loro legittimità, più dello stato e più dei rivoluzionari. La ottengono in cinque minuti, ma come hanno posto una scuola in un paese, all’improvviso possono andare ad uccidere tutti gli uomini di quello stesso paese, senza considerazioni. Come collocare questo attore? Soprattutto per intendere come una piccola lotta possa proporre un cambiamento?

Io non ho una risposta a ciò, ed è uno dei temi che più mi preoccupano, come interpretare oggi il narcotraffico. Certamente non sono d’accordo che sia una manovra dell’imperialismo, non credo che lo sia, ma sì credo che sia imparentato con le resistenze di quelli abbasso.

C’è un bel libro intitolato “L’idra della rivoluzione”, è una storia del traffico di schiavi nell’Atlantico del sedicesimo, diciassettesimo secolo, e lì propone che questi delinquenti, che erano i pirati, facessero parte della lotta di classe, detto in qualche modo. E sembra evidente che lo fossero. Quindi giusto qui voglio fare lo stesso esercizio, come i nostri successori guarderanno la questione del narcotraffico? ha contribuito a indebolire o a rafforzare il capitalismo? Evidentemente oggi, nelle zone dove sorge il narcotraffico, elimina la sinistra, ora la sinistra esiste realmente? ha qualcosa a che vedere con il postcapitalismo, con la lotta contro il capitalismo? o sta cercando una piccola ombra al disotto del capitalismo? E non mi riferisco solo a López Obrador, mi riferisco a gente più vicina, non penso ai zapatisti, penso ad organizzazioni rivoluzionarie che vogliono far cadere il capitalismo m a che nei fatti lottano per migliori salari, migliori questioni della vita, come inquadri questo sul lungo periodo? Sono domande che è bene farsi, perché se rimaniamo sul fatto che il narcotraffico sia una merda perché mi indebolisce, anche se sia irrilevante; io non sto suggerendo che il narcotraffico abbia anche qualche aspetto positivo, credo che il narcotraffico sia un merda ma forse contende il potere alla borghesia, non senza ragione c’è la guerra.

– Conosciamo dei compagni giornalisti che hanno ricevuto delle offerte da parte di alcuni cartelli del narcotraffico per “migliorare la propria vita ed avere un buon lavoro”, ma non hanno accettato. Nonostante ciò, il salto che il narco propone riguardo alle condizioni di vita, senza veder danneggiata la propria rettitudine, li ha fatti pensare prima di rifiutarsi …

Sì, dici che non è per paura, non è per un progetto razionale, è per timore. Io direi, non per timore e non perché mi sembri eticamente male, peggiore mi sembra la DEA. Qualcuno di voi ha visto Breaking Bad? Tu chi credi che vinca … i narco o la DEA? Io voglio che vincano i narco, evidentemente. Lì c’è un punto di unione: il corrido, il narcocorrido (musica messicana, musica che parla di narcotrafficanti, n.d.t). Questo è evidente. Pancho Villa, il reale, quello che Paco Ignacio Taibo II descrive, che era un violentatore, un aggressore sessuale, un delinquente, un assassino, oggi dove starebbe? con qualche cartello, senza alcun dubbio.

Evidentemente, se in Messico ci fosse davvero un processo rivoluzionario, i cartelli giocherebbero un ruolo; se domani le forze popolari potessero avere il controllo del potere, i cartelli si metterebbero d’accordo con loro. Questo vuol dire che la reale trasformazione storica è imprevedibile. Come eliminerai milioni di persone che sono con i narco, tutta la cultura narco giovanile che dal nord è in metà del Messico? Questo non si elimina in dieci anni, né in un anno, né in cento. Ciò che sto suggerendo è: credo che l’Altra Campagna che lancia lo zapatismo, una costruzione razionale, programmatica, giusta, che io condivido, che ho sottoscritto e che continuo a sottoscrivere, si scontri con una realtà, che realtà, madre mia! Io non posso prendere partito nella guerra contro il narco, dire sto con questi o con gli altri, ma non mi può essere indifferente e nella sinistra non c’è un’analisi del narco, l’unica cosa che c’è, è gente molto dogmatica che dice “il narco è un’idea dell’imperialismo”. Può essere, ma il narcocorrido non lo scrive l’imperialismo, il narcocorrido ha una chiara venatura di resistenza allo stato, di insubordinazione, di ribellione.

Mettiamoci su un altro piano, questo lavoro lo ho fatto con dei giovani delle favelas di Río de Janeiro, giovani di favela di quindici anni in su: un giovane ha quindici anni, è di colore nero, va in strada e la polizia lo picchia. Bene, per prima cosa vive poveramente, i suoi genitori hanno un lavoro precario, tutto è insicurezza, se uno dei suoi genitori si ammala non ha dove portarlo, sicuramente deve uscire per lui, scende in strada ed è vittima della polizia. Domani la banda del quartiere gli mette un revolver nella cintura e il tipo si fa rispettare. Anche ragionando più sottilmente: questi ragazzi mai arriveranno all’università. Allora, se io guardo la storia dall’alto vedo lo stato, l’imperialismo, i cartelli; ma se la guardo dal basso, come bisogna guardarla, dal nostro punto di vista, vedo altre cose. A Río mi dicevano anche, il ragazzo ha 15, 16 anni, è spavaldo, è bello, balla bene, gioca bene al calcio, controlla il pallone, ha successo con le donne, per nessuna ragione questo si mette con il narco, ha un’autostima molto forte.

Ti vado a fare un altro esempio, se tu fai un curriculum vitae di questi giovani che si mettono nel narco dopo i 15 e di coloro che si misero in Sendero Luminoso, sono una fotocopia, ricalcata, perché l’ideologia è una giustificazione a posteriori fuori della realtà. Ci sono vari libri di un autore argentino chiamato Christian Alarcón, scrive romanzi molto buoni –“Quando muoio voglio che mi suonino cumbia” e altri titoli–, egli lavora nei quartieri poveri come giornalista e i romanzi che scrive sono la vita dei pibes chorros (ragazzi di strada, n.d.t.).  Se noi fossimo una organizzazione rivoluzionaria come i Montoneros o l’ERP (Esercito Rivoluzionario del Popolo), o quelle dei 70, questi ragazzi non starebbero con il narco, starebbero con noi, gli stessi pibes. Allora non guardiamo il narco dall’alto.

Lo stesso esercizio lo abbiamo fatto con un amico sociologo brasiliano del movimento dei Sem Terra che lavora sul tema dei pentecostali. Secondo la sinistra tradizionale, i pentecostali sono l’oppio dei popoli, ma se tu vedi una famiglia, una donna sola con i suoi figli nella favela, con il marito che la picchia, o che se ne va, o che è ubriaco, e che da quando il marito sta nella chiesa smette di bere, i bambini hanno un asilo, la famiglia è molto più ordinata, lei può uscire a lavorare senza il rischio che il marito le incendi la casa, allora –chiaro che sono pentecostali– visto dall’alto sono l’oppio, visto dalla donna è uno spazio di crescita personale, direi perfino di piccola emancipazione in quella. Stiamo parlando della stessa cosa ma da punti di vista diversi. Questo è l’esercizio che voglio che facciamo nell’esaminare i narcos, nell’esaminare il calcio, nell’esaminare i  pentecostali. Perché alla gente piace il calcio? Perché le madri vogliono che il figlio sia Messi e le tiri fuori dalla povertà, qualcuno nella vita, perché se no … mai sarà qualcuno nella vita. Se Messi o Maradona non avessero giocato al calcio sarebbero morti di fame in una “villa miseria”, non c’è alternativa. E lo stesso Maradona consumatore di cocaina è colui che ha tatuati il Che e Fidel. Allora … non rompiamo con l’ideologia, molta gente critica Maradona. No, egli è il popolo.

– Chiaro, potrebbe essere ognuno di noi. Anche se nel calcio …

Questo è importante, guardare le sofferenze da questa prospettiva. C’è un’idea illustrata che ha la sinistra, che tutto sia oppressione, che la gente sia oppressa dalla religione, dal calcio, e non pensano che la gente sceglie, all’interno di una margine limitato di opzioni, non sceglie tutto. La gente che vive in un quartiere marginale e povero, cosa vuole di più? migliorare la propria condizione, non solo avere televisori al plasma, vogliono stabilità, perché in molte famiglie povere, uno si ammala e debbono vendere la casa per poterlo curare o muore. Il dramma della salute è un dramma quotidiano, lo è per tutti, domani mi ammalo ed è un dramma, ma coloro che non hanno protezioni, né dello stato né di niente, sono fottuti. Questo non mi porta a dire che i pentecostali siano rivoluzionari né che bisogna diventare pentecostali o narcotrafficanti, no. Mi porta ad esaminare quanto riguarda il processo rivoluzionario da un punto di vista più complesso e soprattutto dal punto di vista della gente comune, nessuna rivoluzione si dà perché Lenin ha detto “prendiamo il Palazzo d’Inverno” … Non si fanno così le rivoluzioni. La gente era morta di fame. I tre slogan della rivoluzione russa erano: Pace, perché milioni stavano morendo e venendo dal fronte di guerra mutilati; Pane, perché erano distrutti dalla fame, morti e con fame; e asfissiati, Libertà. Chi pensa che la gente leggesse Marx o Lenin e che dicesse che bisognava prendere il Palazzo, sta sbagliando, non conosce nulla della vita, è un cattivo accademico illuminista o un dirigente ideologizzato che non conosce la realtà. Quanti bolscevichi c’erano? Alcuni, e furono milioni quelli che furono coinvolti nella rivoluzione.

“Prendiamo il Palazzo d’Inverno”, in verità questo non funziona? Senza Lenin e senza capo la gente prese la Bastiglia, perché il giorno in cui presero la Bastiglia non c’era né un Danton, vennero dopo, né un Robespierre, fu la gente. E la Comune? Non c’era leader, c’erano venti leader. Noi a posteriori costruiamo la leadership di Lenin, altri quella di Trotsky, altri di Mao. Ma il fatto è che i contadini cinesi erano perseguitati dai giapponesi e la Lunga Marcia fu una fuga più o meno ordinata, quella sarebbe stata un caos, perseguitati dall’aviazione, non avevano armi, fu la necessità e l’odio per il giapponese che li opprimeva. Ora se ne sa di più: uno dei motivi dell’odio per i giapponesi era che violentavano le figlie e le mogli. Allora, chiaro, ti bombardano, ti fanno morire di fame e per di più di violentano la famiglia, bisogna combattere. Non è che lessero Mao, no.

Io respingo l’idea di rivoluzione che abbiamo, sono costruzioni ideologiche che facciamo dopo i fatti. In Argentina, il 19 e 20 dicembre 2001, successe qualcosa di meraviglioso. C’era molta fame, per venti giorni ci furono assalti ai supermercati da quando era stata decretata la chiusura delle banche e il governo, siccome vedeva che gli stava arrivando addosso una ondata, –la sinistra stava discutendo, quelli non lo stavano, chiaro, la sinistra non va ad assaltare un supermercato, “che rubino il mangiare sta bene ma che si portino via un televisore no”– decreta lo stato d’emergenza e allora la gente scende in strada. Cade il governo e in due o tre giorni si formano trecento assemblee in alcune zone di Buenos Aires e migliaia in tutto il paese, e i trotskisti e i maoisti, che lì da qualche parte stavano leggendo Mao, Lenin e Trotsky, mentre si istituiscono le assemblee –questo successivamente fu chiamato Argeninazo–, andarono con le bandiere rosse e la falce e il martello, gridando “per un altro Argentinazo!”. Chiaro, un Argentinazo che dirigessero loro. Mai passò e mai passerà, realmente se lo persero e già volevano che la gente li seguisse per farne un altro uguale, perché quello sì che sarebbe stato quello buono. Di cosa stiamo parlando? Di ammaestrare la gente affinché io la diriga, questa è l’idea di rivoluzione che abbiamo.

Se in Messico o in qualche altro luogo è possibile una rivoluzione, probabilmente noi rivoluzionari che stiamo con l’autonomia, che siamo zapatisti o pro zapatisti, ma che simpatiziamo per la Comune di Oaxaca, con la Polizia Comunitaria del Guerrero, con Cherán e con tutto questo, possiamo influire, probabilmente. Forse possiamo influire, ma non pensiamo di poter influire per il novantanove per cento, se possiamo influire per il dieci per cento io già metto la firma. Nella rivoluzione russa guarderete il lungo periodo: i bolscevichi, le idee di Lenin, nella configurazione di ciò che fu l’Unione Sovietica, quanto influirono? Dieci, cento, quaranta per cento? Perché il nuovo potere sotto Stalin fu molto simile al potere degli zar, di Pietro il Grande, come i funzionari di Mao si trasformarono nei nuovi Mandarini. Io non dico che il leninismo e che i bolscevichi non abbiano influito. Non dico questo, ma alla meglio influirono per il venti per cento e sulla scorza, su una crosta discorsiva, andiamo dal contadino della Siberia, del centro della Russia, la sua vita in cosa è cambiata con la rivoluzione russa?

È cambiata. Per farvi un esempio: In Uruguay c’è una storiografia sulla dittatura, prima, durante e dopo di essa, basata su interviste a dirigenti politici, a dirigenti sindacali, a dirigenti popolari. Nel discorso la dittatura appare come una frattura (nella mia vita fu una frattura perché dovetti andare in esilio, perché morirono molti amici, fu un taglio nella mia vita, non dico né buono né cattivo, fu un taglio radicale nella mia vita). Altra gente che fa microstoria ha fatto una storia della vita di un gay, di un omossessuale che ha settanta e passa anni e la prima cosa che dice è: in quell’epoca non si diceva gay, si diceva puto, era come un insulto; nel suo curriculum la dittatura non è esistita, perché lui come gay era represso o disprezzato, prima, durante e dopo. In alcune cose essenziali della sua identità gay la dittatura non è esistita perché tra i militari fascisti e i democratici o i rivoluzionari, il trattamento era lo stesso. Appena ora ha incominciato a muoversi, anche se lo ha fatto verso la destra.

Questo è ciò che mi sembra importante: il punto da cui guardiamo. Certamente nella testa di un dirigente sindacale o politico, la dittatura è un frattura, ma quanti dirigenti sindacali o politici ci sono nel mondo? Per un operaio simpatizzante, la sua biografia è più simile a quella del gay o a quella del dirigente? Appena sta in un punto intermedio. Ma non assolutizziamo lo sguardo del dirigente come fosse lo sguardo delle masse, anche fosse il compagno Marcos o il compa X di Cherán. Questa è l’idea di rendere le cose un po’ più complesse, forse siamo andati su una strada che voi non volevate …

E a proposito di processi di trasformazione in altre latitudini latinoamericane …

– Il governo di Evo Morales ci mette in conflitto, soprattutto a causa del conflitto del TIPNIS (Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro-Secure), anche se abbiamo chiaro da che parte guardare …

Sì, bene, è complicato per la stessa ragione di cui stiamo parlando, dal piano da cui si guarda, perché siamo molto laici ma siamo maestri nel creare leader e profeti e dei, vero? La storiografia marxista è piena di dei intoccabili, e ancor di più di monasteri e di santi e di chiese che si dividono secondo chi sia il santo, San Trotsky, San Mao, San Gramsci, allora che abbiamo di nuovo?

Credo che il fatto del TIPNIS sia una lotta giusta, una lotta contro il progresso. Ieri citavo John Womack Jr., questo libro (“Zapata e la Rivoluzione Messicana”) mi ha impressionato molto, oggi sta su un’altra posizione, differente da quella zapatista, ma quando scrive la biografia di Zapata comincia dicendo: “Questa è la storia di alcuni contadini che non volevano cambiare e per questo dovettero fare una rivoluzione”. In generale la gente fa rivoluzioni per non cambiare, affinché non siano annichiliti i propri spazi di vita non capitalisti. Questo è la lotta del TIPNIS, ciò che succede è che è diventata molto complessa perché lì ci sono comunità indigene e ci sono “invasori”. Come dire, cocaleros che sono emigrati nel TIPNIS e che coltivano la foglia di coca, che forse oggi sono di più dei comuneri che vivono lì. Questo è molto complicato e questo impedisce una analisi semplicistica dell’argomento.

Io difendo i compagni che difendono il TIPNIS, credo che non sia necessario costruire la strada, hanno fatto una marcia che ha avuto molto successo –lo è stata in gran misura perché il governo represse–, centinaia di migliaia di persone nelle strade e siccome il governo non gli dette ascolto e continuò ad andare avanti, vollero fare un’altra marcia uguale e fallirono. Per la seconda marcia il governo già sapeva come dovevano essere gestite e oggigiorno chi ha l’iniziativa politica, mi sembra, sia il governo. Sono lotte come quelle di Cherán, come la Parota, dove c’è un settore molto cosciente e molto solido e molta divisione nella base. Anche qui c’è divisione, uno non può dire che bisogna cacciare i cocaleros del TIPNIS perché vivono lì già da molto tempo. Tutto questo rende complicato il nostro sguardo su questa realtà. Credo che il governo di Evo Morales, se lo guardiamo secondo il suo discorso, sia un governo rivoluzionario, quello di Dilma è un governo super moderato, centrista. Nonostante l’esperienza, se uno toglie i discorsi e guarda ciò che ciascuno sta facendo, la differenza è minima, la differenza non è nel governo ma nella società, quella della Bolivia è ancora una società abbastanza mobilitata e quella del Brasile no.

Certamente, che il governo di Evo Morales non rispetti gli obiettivi per i quali fu eletto …

– Mi sembra che questo tentativo di consolidare lo Stato-Nazione che precedentemente non aveva avuto l’opportunità di esistere …

Certamente. Tutte le rivoluzioni non hanno ricostruito lo Stato-Nazione? Io mi associo a ciò che propone Wallerstein, che ci siano state due grandi rivoluzioni di successo, che sono la francese e la russa, che non cambiarono il mondo, e due grandi rivoluzioni fracassate, quella del 1848 –quando Marx scrive il Manifesto– e quella del 1968, che sono rivoluzioni sconfitte ma che hanno trionfato, che hanno cambiato il mondo. E dice “questo succede perché sono rivoluzioni che furono spontanee nel senso profondo del termine”, non dirette, chi ha diretto la rivoluzione del 68? non fu nemmeno preso il potere da qualche parte, ma ha cambiato il mondo, ha obbligato il capitale a finanziarizzarsi, ha delegittimato la vecchia sinistra comunista e socialista, ha aperto spazi a cose nuove, lo zapatismo è figlio del 68, e così tutto. Rendiamo complesso lo sguardo.

– Che sta succedendo in Brasile con i guaraní-kaiowa? Come diventa complesso questo sguardo?

Il caso concreto, sul terreno, non lo conosco, ma penso che dentro il Brasile siamo in un periodo di espansione capitalista, molto potente, che ha l’Amazzonia come uno dei suoi assi. Nell’Amazzonia si stanno costruendo, tra piccole, medie e grandi, una settantina di dighe idroelettriche, in fiumi molto grossi, molto grandi. Si stanno costruendo strade, l’idea è che ci sia una crescita molto forte basata su megaprogetti di questo tipo: idrovie, assi di comunicazione dell’IIRSA (Iniziativa per l’Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana) e questo danneggia i cosiddetti popoli tradizionali. Fa parte di quel processo di sottomissione dei popoli  tradizionali da parte di questo neo sviluppismo brasiliano, che non è solo verso l’esterno ma soprattutto verso l’interno, perché l’Amazzonia è una frontiera da conquistare, lì, da qualche parte, c’è un libro che parla di questo, “Brasile Potenza” si intitola. Lula lo prospetta: “Il Brasile si trasformerà in una potenza mondiale conquistando tutta l’Amazzonia”. È questo: elettricità, soia, bestiame …

– Ci sembrano molto significativi questi temi su questa questione del cambiamento centro-periferia …

Questa è una ipotesi, dalla periferia al centro è in atto un cambiamento, la relazione centro-periferia è disarticolata, non sappiamo come si riarticolerà, è probabile che in Sudamerica ci siano nuovi centri e nuove periferie. È difficile che il capitalismo funzioni senza centri e senza periferie, credo che il Brasile possa non essere un nuovo imperialismo, ma non sarà una periferia.

Per terminare mi piacerebbe dire che è importante che i militanti si accostino ai processi con tutto l’entusiasmo del mondo ma senza chiedere a questi processi più di ciò che possano dare. Per esempio, molta gente si sente defraudata dallo zapatismo perché ha pensato che gli avrebbe riempito il vuoto emozionale e spirituale che aveva, e non è stato così. Per questo il capitalismo sta cambiando in ogni momento, si sta rinnovando, se non fosse così, la cosa verrebbe giù. Noi non possiamo essere simmetrici al capitalismo, molte volte lo siamo ma non è la cosa migliore. Le lotte sociali, le rivoluzioni, risolvono qualcosa, ma non risolvono la vita, bisogna aver presente questo perché, se no, terminiamo con ciò che mai ci defrauda: il consumo. Il consumo mai ci defrauda, perché tutti i giorni rinnova il suo credito fino a che non puoi più consumare e allora sì che uno torna con la rivoluzione …

22-11-2012

Agencia SubVersiones

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da:
Heriberto Paredes Coronel, “Mirar desde arriba o mirar desde abajo: entrevista a Raúl Zibechipubblicato il 22-11-2012 in Agencia Subversiones, su [http://www.agenciasubversiones.org/?p=5741] ultimo accesso 14-12-2012.

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