Territori in resistenza. Periferie urbane in America Latina


Note su un libro di Raúl  Zibechi *

Recensione a cura di Aldo Zanchetta.

Il futuro del mondo si giocherà a livello delle grandi città dove ormai vive 2/3 della popolazione mondiale? Mike Davis, l’urbanista e sociogeografo statunitense, autore fra gli altri di Città di quarzo e di Città morte. Storie di inferno metropolitano pochi anni fa scriveva:

Los Angeles nel 2019 sarà il centro di una galassia-metropolitana di 24 milioni di persone estesa dalla California meridionale alla Baja. Con Tokyo, San Paolo, Città del Messico e Shangai, rappresenterà una nuova forma evolutiva: la mega-citta da 20-30 milioni di abitanti. E’ importante sottolineare che non stiamo parlando solamente di modelli più ampi di un vecchio tipo a noi familiare, ma di una specie assolutamente originale e inaspettata di vita sociale.

E aggiungeva:

Nessuno sa, infatti, se i sistemi fisici o biologici di questa grandezza e complessità sono in realtà sostenibili. Molti esperti credono che le città del Terzo Mondo, come minimo, agevoleranno olocausti ambientali e/o imploderanno in guerre civili urbane. In ogni caso il “nuovo ordine mondiale” contemporaneo offre certamente a sufficienza sinistri esempi della totale disintegrazione sociale, dalla Bosnia alla Somalia e al Rwanda, che rendono evidente le realistiche paure dell’apocalisse di una mega-città.

Il sociologo e geografo marxista David Harvey, uno degli autori oggi più letti e citati (autore fra l’altro di L’enigma del capitale) ha pubblicato recentemente un nuovo libro: Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution nel quale <esamina in profondità gli effetti delle politiche finanziarie liberiste sulla vita urbana, il paralizzante debito dei ceti medi e a basso reddito d’America, la devastazione dello spazio pubblico per tutti i cittadini operata da uno sviluppo sfuggito al controllo.> Anche per lui è nelle grandi città che si giocherà l’avvenire del mondo:

Molti di loro (gli abitanti delle grandi città, ndc) sono precari, si spostano spesso, difficili da organizzare, da sindacalizzare, una popolazione che subisce un continuo ricambio, ma che possiede comunque un enorme potenziale politico.

Lo sguardo di questi due studiosi è rivolto alle grandi città occidentali, in particolare agli Stati Uniti (quando Harvey nel brano di cui sopra parla di America è agli Stati Uniti che pensa, secondo un uso deplorevole del termine America).

Sulla realtà odierna delle grandi città, ma con occhio particolarmente rivolto alle loro periferie, è uscito in questi giorni in Italia un interessante libro di Raúl Zibechi -autore i cui testi sono spesso riportati o citati in questo Mininotiziario- dal titolo Territori in resistenza. Periferie urbane in America Latina.

L’obbiettivo del libro è racchiuso in queste parole dell’autore:

Questo lavoro tenta brevemente, per quel che riguarda l’America Latina, di spiegare brevemente perché quelle periferie sono diventate “lo scenario decisivo”. Di più, sono diventate gli spazi da cui le classi subalterne hanno lanciato la più formidabile sfida al sistema capitalista, fino a diventare qualcosa di simile a contropoteri popolari dal basso.

Nel discorso sulle rivoluzioni sociali in corso in America Latina si parla soprattutto dei movimenti indigeni o più in generale dei movimenti. Assai meno di ciò che accade nelle periferie delle grandi città. Forse perché, al di là degli scoppi improvvisi di sommosse popolari, è difficile individuare in queste chiari obbiettivi politici di medio/lungo termine. Eppure è in queste periferie che hanno preso le mosse rivolgimenti politici importanti. Per citarne solo alcuni: in Argentina il “que se vayan todos” del 2001; a Caracas, nel 2002, il controcolpo di stato che in riportò al potere il presidente Chavez; a Cochabamba (2000) o a La Paz e a El Alto (2003), che portarono alla caduta in Bolivia del governo di Sanchez de Losada.

Ma probabilmente è qui, in queste immense periferie, spesso caotiche e fuori controllo, che si gioca il futuro del continente. Scrive Zibechi:

Le periferie urbane rappresentano una delle fratture più importanti in un sistema che tende al caos. È lì che gli Stati hanno minore presenza, è lì che i conflitti e la violenza che accompagnano la disintegrazione della società sono parte della vita quotidiana. È ancora nelle periferie urbane che i gruppi sono maggiormente presenti, tanto da conseguire, in alcune occasioni, il controllo dei quartieri, ed è infine lì che le malattie crescono in modo esponenziale. Detto con le parole di Wallerstein, nelle periferie confluiscono alcune delle principali fratture che attraversano il capitalismo: quelle di origine, quelle “etniche”, quelle di classe e quelle di genere. Sono i territori della spoliazione quasi assoluta. E della speranza, diciamo con Mike Davis.

Zibechi, attento studioso dei movimenti sociali e appassionato scrutatore di tutte quelle esperienze che costruiscono modi di vita non plasmati dall’ideologia capitalista, affronta la problematica dei “territori altri” che ha conosciuto per esperienza diretta, ossia di quei territori diversi da quelli del capitale e delle multinazionali, che nascono, crescono e si espandono nei molteplici spazi delle società latinoamericane. Per una loro analisi, dice l’autore, mancano strumenti sociologici consolidati. Infatti così si esprime:

Resto fermamente convinto che los de abajo […] hanno progetti strategici che non formulano in modo esplicito, o almeno non lo fanno attraverso i codici e i modi  praticati dalla società egemonica. Investigare questi progetti presuppone, in sostanza, la necessità di combinare uno sguardo di lungo periodo con particolare risalto ai processi sotterranei, alle forme di resistenza di scarsa visibilità che però anticipano il mondo nuovo che los de abajo stanno tessendo nella penombra della loro quotidianità. Serve uno sguardo capace di posarsi sulle piccole azioni con lo stesso rigore e interesse che esigono le azioni più visibili e notevoli, quelle che di solito “fanno storia”.

L’analisi di Zibechi si sviluppa attraverso un numero selezionato di casi, dalla capitale del Cile, Santiago, a quella del Perù, Lima. E ancora in Argentina, in Ecuador, in Bolivia e in Uruguay. E questi “territori altri” nascono proprio nel nucleo più duro della dominazione capitalista, le grandi città, in particolare le capitali. <Nelle grandi città l’urbanizzazione si è scollegata e resa autonoma dall’industrializzazione e perfino dalla crescita economica, ciò che comporta la “sconnessione strutturale e permanente di molti abitanti della città dall’economia formale.> Quindi la gente è costretta ad auto-organizzarsi per sopravvivere e lo fa in modo diverso da luogo a luogo, secondo le circostanze. E quando la situazione diventa insostenibile, allora esplode la rabbia.

Il potere, come nei casi citati, non riesce più allora a esercitare il controllo e viene messo almeno nel breve periodo con le spalle al muro. Esso oggi sa che il controllo della popolazione deve esercitarsi secondo nuovi metodi, non più (solo) con la violenza poliziesca o l’impiego dell’esercito:

Ciò che si richiede per governare grandi centri abitati che si trasformano sono forme di controllo a distanza più sofisticate, che operino in situazione di immanenza rispetto alla società. E per questo tipo di forme di controllo i movimenti possono giocare un ruolo fondamentale. C’è la necessità che i movimenti facciano la loro parte, non serve reprimerli o emarginarli.

Così i movimenti vengono più o meno consciamente cooptati e svolgono un loro ruolo debilitante, per loro e per le strutture autoorganizzate, in questa “nuova governabilità” che, più o meno consciamente, vede coinvolti anche i governi della sinistra là dove è al potere.

Possiamo dire che gli stati che dirigono Lula, Pepe Mujica o Cristina Fernández, per fare gli esempi più ovvi ma non gli unici, sono figli dell’arte di governare. Non siamo più al welfare state o ai precedenti stati neoliberisti, abbiamo di fronte qualcosa di inedito, qualcosa che sulla base della fragilità ereditata dal modello neoliberista cerca di sviluppare nuove arti per restare in piedi, per dotarsi di maggior legittimità e assicurare una sopravvivenza sempre minacciata. Stiamo transitando verso nuove forme di dominazione. Importa poco che vengano sostenute da forze politiche che si proclamano di sinistra, perché le nuove arti del governare le oltrepassano e a volte le includono. Non sono le sinistre ad essersi proposte questo progetto, ma ad esse è toccato governare in un periodo in cui sorgono nuove governabilità. In altre parti del mondo, ad esempio in Iraq, alcune di queste “arti” le praticano le truppe di occupazione degli Usa. Qui, tuttavia, non ci interessa il “chi” ma il “come”.

E’ questa la parte del libro dove l’analisi si fa più acuta e appassionante perché riguarda anche noi, qui, in Italia. Mentre pochissimi ne sono avvertiti. <Capire queste “nuove governabilità” è imperativo per continuare a sostenere le lotte sociali e politiche in una situazione certamente più complessa della precedente.

 

* Territori in resistenza. Periferie urbane in America Latina

Autore R. Zibechi

Nova Delphi, collana viento del sur

Pagine 208

ISBN 9788897376019

€ 12,50

 

Mininotiziario America Latina dal basso

n.17/2012 del 4.06.2012

www.kanankil.it/aldozanchetta@gmail.com

Territori in resistenza. Periferie urbane in America Latinapubblicato il 04-06-2012 in Mininotiziario America Latina dal bassoultimo accesso 05-06-2012.

 

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