Gli impantanamenti dell’economia latinoamericana


Claudio Katz *

Mentre si sta chiudendo il 2011, ricompaiono grosse nubi sull’economia latinoamericana. Il brusco aggravarsi delle crisi globale preannuncia un rallentamento della crescita, che suscita nervosismo. Durante l’ultimo quinquennio, il prodotto lordo regionale ha mantenuto un ritmo ascendente del 5% annuo, a parte la decelerazione registrata nel 2009. Il successivo recupero si è protratto nel corso del 2011, che dovrebbe finire con un incremento del 4,4% del Pil. Vi sono previsioni di un ulteriore aumento del 4,1% per il 2012, ma nessuno sa quanto potranno durare le barriere protettive di fronte alla nuova turbolenza internazionale.

I neoliberisti lanciano allarmi sulla possibilità di ulteriore calo e propongono di tagliare la spesa pubblica per consolidare le difese. Sebbene il debito pubblico e privato sia molto inferiore a quello dei paesi sviluppati, caldeggiano la contrazione per garantire i crediti dei banchieri. I loro richiami all’austerità esprimono la priorità del mondo finanziario.

Gli eterodossi, viceversa, sostengono la prosecuzione di politiche anticicliche. Gli economisti della Commissione economica per l’America Latina (CEPAL) presentano questo intervento come un atto di trasgressione del neoliberismo, dimenticando che in numerosi paesi (Messico, Colombia o Cile) queste misure si accompagnano alla continuità del libero commercio e delle privatizzazioni. Si tratta di misure che dipendono dagli introiti fiscali, più che dalle ideologie governative. [1]

Queste forme di intervento non sono state il solo fattore di attenuazione della crisi. Hanno mitigato l’impatto della scossa anche la rivalutazione delle materie prime esportate, l’ingresso di capitali senza opportunità di investimento nei paesi del centro e la desincronizzazione del ciclo nella regione. [2]

Il combinarsi di queste circostanze è corroborato dalla grande eterogeneità di situazioni nazionali e dalla scarsa connessione della ripresa con specifiche strategie. Si sono registrati elevati tassi di crescita in paesi con politiche economiche eterodosse (Argentina) e ortodosse (Perù), come pure risultati inversi in paesi del primo gruppo (Venezuela) e del secondo (Messico). L’effetto attenuato dello tsunami globale si è inoltre verificato soprattutto nel Sud del continente, Il Centroamerica e l’area caraibica subiscono il duro contagio della recessione statunitense.

Dilemmi strategici

Di fronte a un probabile scenario di recessione internazionale, si moltiplicano i conclavi regionali. La frequenza di questi incontri è in contrasto, tra l’altro, con la perdita di forza di attrazione dei Vertici latinoamericani. L’UNASUR sta acquisendo un’inedita centralità e comincia a operare come un MERCOSUR allargato, includendo i paesi che avevano sottoscritto Trattati di Libero Commercio con gli Stati Unti. Il regionalismo sudamericano (Brasile e Argentina) tende a convergere con l’area filo-nordamericana del Pacifico (Cile, Colombia, Perù). Tale coesistenza rafforza il predominio dei proclami, a detrimento di iniziative concrete di integrazione.

Si discute, in primo luogo, la creazione di un fondo di stabilità (FLAT) – a partire da alcuni meccanismi già esistenti (ad esempio il FLAR) – per aiutare le economie colpite dai corsi dei cambi. La fuga di divise si potrebbe aggravare se le banche e le imprese straniere inviassero più dollari alle loro casse centrali per arginare le situazioni di insolvenza. Il FLAT è concepito come uno strumento di protezione di fronte a singoli scenari di vuoto finanziario. [3]

Tuttavia, l’ammontare di risorse impegnato a questo riguardo (20 miliardi di dollari) sarebbe sufficiente soltanto per soccorsi di emergenza nelle piccole economie. Questo genere di reazioni difensive è già stato sperimentato in passato e non ha implicato gesti di solidarietà con le vittime della speculazione. Viceversa, ha consolidato la progressiva influenza straniera sul sistema bancario latinoamericano, che si ripeterebbe se si afferma la proposta di associare il FLAT a nuovi prestiti della BID (Banca interamericana di sviluppo).

In altri incontri si discutono idee per procedere alla creazione di una qualche moneta comune. L’esperimento del sucre – utilizzato da Venezuela, Ecuador e Bolivia come moneta contabile per l’interscambio commerciale – è il punto di riferimento di questi progetti. Questa moneta scritturale consente di ridurre i costi delle transazioni, ma convive con il dollaro senza fungere da moneta reale. Pur intendendo incentivare uno sganciamento dalle divise forti, non sostituisce il controllo dei cambi, né preserva i paesi dai tormentosi flussi di capitale. [4] Il sucre costituisce un’iniziativa più avanzata dei meccanismi di scambio con biglietti locali (Brasile-Argentina), o delle convenzioni di reciproci pagamenti (ALADI). È ben lungi, tuttavia, dal porre le basi di una moneta regionale, fondata su modelli di complementarità solidale in contrapposizione all’accentramento neoliberista che ha plasmato la gestazione dell’euro.

La Banca del Sud è un altro termometro della parsimonia dominate nei progetti di integrazione. Sono ormai trascorsi diversi anni dalla sua costituzione formale e mancano ancora tra conferme parlamentari sui sette firmatari del progetto. Nessuno decide la destinazione dei crediti e il capitale impegnato dall’ente è molto ridotto, a confronto con un gigante dell’area come la BNDES (Banca nazionale di sviluppo) brasiliana. [5]

Il tema principale, tuttavia, occupa poco spazio nella riflessione regionale. Che fare delle enormi riserve accumulate dall’America Latina? Come risultato del sopravanzo commerciale e dell’affluenza di divise, le Banche Centrali tesaurizzano ormai 574 miliardi di dollari, Si è creata un’eccedenza che contrasta con la malattia dei passivi sofferti dall’area nei momenti di crisi. Le nuove risorse sosterranno investimenti produttivi coordinati? O saranno dilapidate in azioni che perpetuano la dipendenza?

L’indefinitezza attuale porterebbe alla scomparsa dei fondi per la stessa strada da cui sono arrivati. L’Unione Europea, il governo nordamericano e il Fondo Monetario Internazionale cercano di incanalare le riserve verso il soccorso al sistema finanziario mondiale. Presentano questo ausilio come l’apporto dell’America Latina alle economie avanzate, dimenticando il debito storico con la regione che il Primo Mondo si trascina dietro. Propongono di accompagnare l’acquisto di titoli europei che effettuerebbero la Cina e altri BRIC [acronimo di Brasile, Russia, India e Cina] per puntellare le banche in fallimento. L’acquisizione di questi titoli aumenterebbe i tanti investimenti che ha ormai l’America Latina, in questa globalità di collocazioni.

La partecipazione del Brasile al portafoglio del FMI ha costituito una prima strizzata d’occhio per questo nuovo impegno. Nell’ultima riunione del G20 (Cannes) questo indirizzo è stato rafforzato mediante esplicite richieste di intermediazione del discusso organismo in ogni forma di aiuto finanziario all’Europa. L’idillio del governo brasiliano con il FMI non è un dato di scarso rilievo, se si tiene conto che il paese è il quinto detentore internazionale di Buoni del Tesoro statunitensi. [6]

Il denaro che venisse utilizzato per salvare gli istituti finanziari europei sarebbe sottratto al FLAT, alla moneta comune, alla Banca del Sud e all’integrazione produttiva. Sarebbe il nuovo prezzo che Argentina, Messico e Brasile pagherebbero per continuare a partecipare al G20 con iniziative che riaffermano l’alleanza delle classi dominanti locali con l’establishment globale. È una linea che si pone agli antipodi delle due misure inaggirabili per progredire nell’integrazione regionale progressista: la nazionalizzazione delle banche e la rigorosa regolamentazione dei flussi di capitale.

Queste misure sono indispensabili per decidere risposte comuni di fronte ai contraddittori processi di rivalutazione e svalutazione monetaria. La regione ha subito negli ultimi anni le conseguenze avverse dell’afflusso di dollari (che sopravvalutano la moneta locale) e dell’ingresso di divise (che provocano le note tensioni cambiarie).

Certamente il Brasile stabilirebbe il corso da seguire, dal momento che detiene tra il 50% e il 60% delle riserve complessive. Questo paese sta già operando come sub-potenza, adattando il MERCOSUR a un gioco multilaterale, in base a coordinamenti strategici con gli Stati Uniti. Questa politica lascia poco spazio alla formazione di un fondo finanziario latinoamericano. [7]

Il terremoto che ha colpito l’euro rafforzerebbe, tra l’altro, l’avversione dei governi brasiliani a ripetere nella regione il ruolo svolto dalla Germania nel Vecchio Continente. Se la grande potenza tedesca ha finito per affondare nel pantano dell’Unione Europea, il Brasile ha minori possibilità di guidare un’integrazione capitalista del Sudamerica.

Le conseguenze dell’estrattivismo

La grande dipendenza regionale dall’altalena internazionale dei prezzi delle materie prime accresce le critiche all’indirizzo del modello esportatore. Questo schema incentiva il moltiplicarsi di attività esclusivamente destinate a commercializzare prodotti di base. Mentre cresce l’influenza del commercio agricolo, gli investimenti stranieri rafforzano la specializzazione petrolifero-mineraria. Tutte le potenze cercano di garantirsi l’approvvigionamento di beni di consumo latinoamericani, sostenendo l’integrazione della zona come fattoria o come miniera dell’economia mondale.

Il termine “estrattivismo esportatore” – cui ricorrono molti economisti per descrivere questo modello – fornisce un ritratto esatto dell’attuale economia. Rileva le conseguenze nefaste della miniera inquinante e dell’agricoltura d’esportazione, ai danni dell’approvvigionamento interno. [8]

Il corso estrattivo potenzia la vulnerabilità dell’America Latina senza necessariamente generare processi di “ri-primarizzazione” o di “de-industrializzazione”. Impone però percorsi frontalmente opposti allo sviluppo manifatturiero seguito dal Sudest asiatico. L’adattamento alle esportazioni di base suscita, inoltre, permanenti interrogativi sulla continuità del ciclo di rialzo delle materie prime avviatosi nel 2003 e attualmente ancora perdurante.

Alcune spiegazioni attribuiscono questa valutazione ai movimenti speculativi e alla mancanza di controllo dei mercati agricoli in prospettiva futura. La deregolamentazione di questa piazza ha agevolato l’ingresso nell’affare delle banche di investimento e la conseguente presenza di un micidiale arsenale di derivati. L’utilizzazione di strumenti finanziari nel settore è cresciuta dai 500 miliardi (nel 2000) ai 13.000 miliardi di dollari (nel 2008). [9]

Altre caratterizzazioni fanno rilevare come l’incremento del prezzo del petrolio abbia potenziato l’espansione degli agro-combustibili e segnalano come il 12% della produzione mondiale di mais sia ormai destinato alla produzione di etanolo. Una terza spiegazione stima che la domanda cinese ha determinato un nuovo livello di quotazione per tutte le materie prime.

La diversità delle interpretazioni alludono, di fatto, a distinti processi temporali. Mentre le manovre finanziarie determinano gli incrementi congiunturali dei prezzi, gli agro-combustibili e gli acquisti asiatici incidono sul medio e lungo termine.

Anche il boom delle commodities ha riaperto vecchie dispute teoriche sul deterioramento dei termini di scambio e l’influenza delle esportazioni primarie sul sottosviluppo latinoamericano. Tuttavia, quali che siano le risposte a questi interrogativi, i dannosi effetti sociali dell’estrattivismo sono evidenti. Solo lo sviluppo manifatturiero consentirebbe di creare gli indispensabili posti di lavoro per sradicare l’arretratezza della regione. Questo salto è impedito dal predominio sull’economia latinoamericana esercitato dalle multinazionali.

Tale predominio determina anche molte delle posizioni di politica estera. Se Brasile e Argentina rifiutano al G20 la regolamentazione dei prezzi dei beni alimentari eseguono il mandato delle grandi compagnie. La grande fame dei depauperati non si analizza secondo criteri di solidarietà, ma come un’occasione di affari. L’estrattivismo perpetua la subordinazione del ciclo latinoamericano alla tirannide della riproduzione dipendente. Tale subordinazione esercita attualmente maggiore impatto sulla sfera commerciale o produttiva che non sul campo tradizionale dell’indebitamento. Ma l’esperienza sta ad indicare come l’adeguamento alle esportazioni di base finisca per ricreare il giogo finanziario.

Disuguaglianza e sfruttamento

Alcuni economisti soppesano il corso attuale ponendo in rilievo il calo della disoccupazione che accompagna la crescita. I dati, tuttavia, indicano solamente variazioni limitate connesse alle alternanze del ciclo. Nella decelerazione del 2009 il saggio di disoccupazione è arrivato all’8,1%, è sceso poi al 7.3% (2010), e quest’anno si aggirerebbe intorno al 7%; ma, se si confermano i preannunci di un arresto, tornerebbe a salire.

Il dato più rilevante, tuttavia, è la bassa qualità dei nuovi posti di lavoro, reclutati in larga maggioranza nel settore informale. La precarietà rimane la norma, sia della recessione sia della prosperità. Questo deterioramento fa da complemento al degrado imposto dalla riduzione delle rimesse, dall’esodo rurale e dall’emarginazione urbana. Milioni di persone sono condannate a forme di sopravvivenza infraumana, che ottengono visibilità mediatica solo nei momenti di grandi cataclismi (incendio di un carcere sovrappopolato, frana in una favela, inondazioni in zone prive di protezione).

L’espressione più drammatica di questo inferno nella regione centroamericana è l’espansione del narcotraffico. Questa attività funge da rifugio di sopravvivenza per i contadini indebitati e per i giovani disoccupati assorbiti nella delinquenza organizzata. Il macabro corso della guerra intrapresa dal governo messicano è già costato la vita a 50.000 persone. Con lo stato d’eccezione permanente si legalizza la brutalità criminale che esercitano le mafie e i loro avversari-complici dello Stato. [10]

La portata dei patrimoni in gioco è proporzionale al gettito continuo di un traffico gestito dai clan della lumpen-borghesia. Il termine è stato utilizzato erroneamente in passato per descrivere indiscriminatamente le classi dominanti latinoamericane. In realtà, caratterizza solamente un settore molto specifico, che è divenuto multinazionale, diversificando e ripulendo i guadagni ottenuti nei circuiti paralleli dell’accumulazione. La borghesia lumpen è molto intrallazzata con i suoi pari del settore formale, ma non fa parte del club stabile dei grandi dominatori della regione.

È noto che la lacerazione sociale sofferta in America Latina riproduce la povertà e la disuguaglianza. Naturalmente, certi analisti esaltano l’esigua riduzione del livello di disuguaglianza registrata durante la recente fase di crescita. Dimenticano però che l’America Latina continua a detenere il primato di tutti i record internazionali della polarizzazione sociale. La regione comprende quattro dei paesi che sono in testa rispetto a questo vergognoso indicatore (Colombia, Bolivia, Honduras, Brasile): Il coefficiente di Gini, che misura la disuguaglianza, illustra una media dell’area (51,6) molto superiore alla media mondiale (39,5).

Su questo terreno, la novità principale consiste nella generalizzazione delle politiche assistenziali, che tendono ad attenuare le conseguenze esplosive della frattura sociale. Tutte le amministrazioni promuovono progetti in materia come imperativi per la governabilità. Il costo di tali iniziative è simile in tutti i paesi ed è molto limitato rispetto al PIL.

In Argentina vige l’assegno universale (0,40% del PIL), in Brasile la Borsa Famiglia (0,47%), in Messico il programma Opportunità (0,51%), in Bolivia il Buono Juancito Pinto (0,33%), in Venezuela si tratta delle Missioni (0,45%), in Ecuador c’è il Buono per lo Sviluppo Umano (1,17%), in Cile il Piano Solidale (0,11%), in Colombia l’Iniziativa Famiglie (0,39%) e in Perù il Progetto Insieme (0,14%). [11]

Questo tipo di forme assistenziali protegge i più sfavoriti, ma non genera alcuna redistribuzione del reddito. Nella misura in cui coesiste con la precarietà lavorativa, tende piuttosto a convalidare la segmentazione del mercato del lavoro. La frattura accentua le vecchie forme di supersfruttamento che contraddistinguono il capitalismo latinoamericano. Le imprese straniere lucrano nelle fabbriche di montaggio grazie al basso costo della forza lavoro e i capitalisti locali spremono i lavoratori, per compensare il loro scarso peso sul mercato globale.

Neoliberismo e neosviluppismo

In America Latina si comincia a verificare una certa svolta nel pensiero dominante, dato che il neoliberismo ha perso prestigio dato il risultato delle sue gestioni. Aveva promesso un grande decollo grazie alle privatizzazioni e alle deregolamentazioni e ha finito per consolidare i vecchi squilibri della riproduzione dipendente. Aveva poi stimolato l’indebitamento per attenuare questi sconvolgimenti ed ha precipitato tormentose esplosioni finanziarie.

Pur se numerosi governi mantengono questa stessa strategia con qualche ritocco cosmetico, altre amministrazioni cominciano a sostituire il credo neoliberista con proposte neo-sviluppiste. Una proposta che conquista aderenti con discorsi di intervento dello Stato, Stato, messa in discussione della perdita di competitività dei cambi (“morbo olandese”) e convegni per imitare il percorso asiatico di industrializzazione. [12]

Tuttavia, questa rinascita sviluppista non è ancora preponderante nel paese maggiormente industrializzato. Il Brasile conserva il proprio primato manifatturiero nella regione, ma con perdite di posizione di fronte all’agro-business. Le politiche ufficiali di sussidi al manifatturiero non compensano la rivalutazione della moneta e il sistematico incremento del tasso di interesse. Il paese non ha risorse, tecnologia o mercati sufficienti a rendere compatibile il modello tedesco, che combina l’austerità finanziaria con la competitività produttiva. Per questo si intensificano le tensioni tra l’ortodossia monetarista e le impostazioni industrialiste. [13]

L’Argentina ha messo in moto un tentativo neosviluppista più sostenuto, che costituisce una reazione di fronte al tracollo senza precedenti subito durante l’ascesa del neoliberismo. Il governo ha cercato di ricomporre il peso della borghesia industriale rispetto alle banche e in conflitto con l’agro-business. Ma quest’ultimo settore ha capitalizzato la propria attività e non intende condividere le enormi rendite che accaparra. Inoltre, la borghesia industriale ha perso peso per la predominanza straniera e sostiene i propri profitti grazie ai sussidi e all’aumento dei prezzi. Queste pressioni neutralizzano il processo di reindustrializzazione. [14]

L’industria messicana presenta un panorama diverso, essendo rimasta modellata (grazie alle officine di montaggio, le maquilas) secondo le linee di fabbricazione statunitensi. Le riproposizioni sviluppiste implicano, in questo caso, il fatto di doversi confrontare con una strategia di libero commercio con la prima potenza, che ha smembrato il vecchio tessuto industriale basato sul mercato interno. [15]

La rinascita neosvilupppista è bloccata in America Latina dal predominio dell’estrattivismo, dalla dominazione straniera dell’economia e dalla sostituzione delle vecchie borghesie nazionali da parte di nuovi gruppi esportatori. Sono, questi, limiti che abitualmente trascurano quanti guardano a questa strategia come quella più conveniente, o l’unica attualmente realizzabile.

Il neosviluppismo comprende anche un’ala più progressista, che ammette l’assenza di classi capitaliste disposte ad assumere il comportamento classico dell’industrialismo (investimento, rischio, competizione). Quest’ala pretende di compensare quest’assenza del soggetto borghese con politiche sostitutive di investimento e gestione pubblica.

Tali misure non si concepiscono in una prospettiva post-capitalista, ma come azioni tendenti a rimodellare l’ordine sociale vigente. Esse quindi contemplano non solo iniziative di regolamentazione, ma anche forti sussidi per i gruppi imprenditoriale che si vorrebbe promuovere come protagonisti della vita economica. Ma quali vantaggi arrecherebbero queste sovvenzioni alla maggioranza della popolazione? Per quale motivo i lavoratori e i cittadini dovrebbero pagare il rafforzamento di un sistema sociale a loro estraneo?

È importante indagare queste contraddizioni per chiarire il significato attuale del nuovo sviluppismo. Alcuni osservatori critici non notano differenze di rilievo con il neoliberismo. Ritengono che il cambiamento di retorica copra la prosecuzione di offensive del capitale contro il lavoro, o l’introduzione di regolamentazioni per aiutare le banche.

Vale tuttavia la pena di valutare queste affinità in base agli interessi in gioco. Se il libero commercio è l’ideologia degli agro-esportatori e l’ortodossia monetaria opera come credo politico dei banchieri, la difesa delle sovvenzioni rientra nel copione industrialista, Il neosviluppismo adegua quest’ultima tradizione alle attuali esigenze dei gruppi industriali più concentrati, alle multinazionali e agli esportatori (compagnie “Multilatine”). [16]

Queste imprese tendono a espandersi verso le economie vicine per contrastare la ristrettezza dei mercati interni d’origine. Esse compensano questa limitazione con investimenti altamente redditizi all’estero. Il modo in cui Petrobras ha bloccato la nazionalizzazione dei combustibili in Bolivia è un esempio di tale comportamento. [17]

Le vittime di questa politica usano abitualmente il termine di “sub imperialismo” per definire tale atteggiamento. Applicano anche questo concetto per condannare operazioni dell’esercito brasiliano ad Haiti che ripetono strategie di militarizzazione già sperimentate nelle favelas. Il termine non ha solamente un legittimo significato di denuncia, ma spinge anche a rianimare una nozione che andrebbe studiata attraverso confronti con l’utilizzazione che ne era stata fatta negli anni Sessanta.

È molto importante precisare il significato di ogni singola nozione per contraddistinguere adeguatamente la portata regionale dell’attuale tempesta economica. Ad esempio, il termine “crisi” è utilizzato in così tante accezioni che è poi impossibile discernere se allude a una congiuntura, a una fase o al futuro del capitalismo. Né si sa se esprima la valutazione di una situazione globale, regionale o nazionale.

In un impiego così polisemantico non si chiarisce neppure se si stia analizzando un ciclo economico. In questo caso, il termine “crisi” dovrebbe riferirsi a situazioni di recessione, in contrapposizione alla crescita. Se quando il PIL e l’occupazione scendono c’è crisi e quando entrambe crescono c’è sempre crisi, è impossibile capire di che cosa si stia parlando. La chiarezza dei dibattiti costituisce un debito in sospeso nel pensiero critico latinoamericano, la cui soluzione consentirebbe di definire con maggior precisione la fase attuale.

Lo scenario politico

Le tendenze economiche comuni dell’America Latina operano in diversi contesti politici di governi di destra, di centrosinistra e riformisti. Queste amministrazioni operano, a loro volta, in vari quadri di conquiste o di arretramenti popolari. Le similitudini strutturali tra Colombia e Venezuela devono essere valutate osservando chi governa e lo stesso vale per il Messico e l’Argentina, o per il Guatemala o la Bolivia. Il futuro dell’economia regionale dipende dalle soluzioni politiche in ciascun paese.

Durante il biennio 2010-2011 i governi di destra hanno affrontato una serie di problemi. L’imperialismo nordamericano ha perso il proprio agente diretto in Perù e osserva con grande preoccupazione l’impotenza del suo socio messicano nel combattere il narcotraffico. La violenza ha facilitato il ritorno del militarismo conservatore in Guatemala e continuano le mattanze dei paramilitari in Colombia. In tutti i casi, comunque, cresce l’astio della popolazione. I golpisti dell’Honduras dovettero ripiegare, cercando un compromesso con il presidente deposto, e il reazionario governo cileno affronta disavventure economiche, insuccessi amministrativi e grande resistenza sociale.

È inoltre evidente che gli incubi del Pentagono in Medio Oriente riducono la capacità di intervento della IV flotta e dei marines dispiegati in Colombia. Per questo motivo, le campagne di intimidazione si conducono tramite i grandi mezzi di comunicazione, che stabiliscono in ogni momento chi avversare e chi benedire. La destra continua ad essere molto attiva, ma senza recuperare l’iniziativa che aveva quando il neoliberismo era allo zenit.

Chi ci guadagna di più dalla congiuntura sono presidenti di centrosinistra come Dilma Roussef e Cristina Fernández Kirchner, che hanno ottenuto travolgenti successi elettorali. In entrambi i casi il governo ha rivalutato titoli, integrando nella propria base elettorale ceti medi e alti. Mente in Brasile la vittoria si è consumata in un clima di passività conservatrice e di spoliticizzazione, in Argentina sono prevalse le tensioni con la destra, la partecipazione dei movimenti sociali e la rinnovata politicizzazione dei giovani.

L’Uruguay segue il modello brasiliano di disponibilità verso i capitalisti e disattenzione per le richieste sociali e anche il nuovo presidente del Perù cerca di ricreare il sentiero social-liberista inaugurato da Lula. Il limitato impatto avuto finora dalla crisi globale in Sudamerica ha contribuito al rafforzamento di queste tendenze di centrosinistra.

Ma la cosa più evidente è la crescente attenzione esercitata da questo riferimento sui governi radicali del Venezuela, della Bolivia (e, in certa misura, dell’Ecuador). Queste amministrazioni erano sorte scontrandosi con l’imperialismo, dando impulso a mobilitazioni e promuovendo riforme democratiche e sociali. Adesso si trovano di fronte a bivi che ne determineranno il futuro.

Scelte nell’asse radicale

L’economia venezuelana è stato colpita dalla crisi più della media dei paesi sudamericani. I tradizionali squilibri (dipendenza dalla fattura petrolifera, bassissima produzione locale, elevato livello delle importazioni, consumi di lusso) hanno comportato nuove svalutazioni per attenuare il passivo fiscale, nel quadro di un’elevata inflazione. Le misure progressiste (nazionalizzazione dell’oro) continuano a coesistere con il favoritismo nei confronti della “boliborghesia” e il respiro ottenuto con alcune iniziative riformiste non risolve i problemi di un’economia periferica molto sabotata dalle classi dominanti.

Pur se la destra ha gioito per la malattia di Chávez, la popolarità del presidente persiste e non sarà facile impedire un ulteriore rinnovo del suo mandato. Il ristagno del processo bolivariano ubbidisce piuttosto alle sue specifiche contraddizioni interne che non all’incalzare della reazione. [18]

Sia la consegna di vari militanti delle guerriglie al governo colombiano, sia l’appoggio a dittatori arabi (in particolare della Siria) suscitano malessere. Se si continua a rinviare l’approfondimento del processo bolivariano, questo progetto rimarrà congelato e comincerà ad equipararsi ai restanti governi di centrosinistra.

Stessa contraddizione in Bolivia. La statalizzazione degli idrocarburi è rimasta limitata e permangono i privilegi delle compagnie straniere. Si continua a rinviare la riforma agraria e i miglioramenti delle condizioni degli strati popolari non sono in consonanza con la sconfitta del neoliberismo. La massiccia resistenza all’aumento dei prezzi del combustibile (“Gasolinazo”) ha rappresentato il primo avvertimento del ristagno. Un secondo scontro con popolazioni della selva – che si opponevano alla costruzione di un’autostrada – ha avuto come corollario una brutale repressione.

Le misure di decolonizzazione che hanno accompagnato la realizzazione di uno Stato plurinazionale non sono compatibili con il profilo autoritario che sta adottando il governo. La Bolivia non può prescindere dalle sue riserve minerarie per sradicare l’arretratezza, ma l’impiego di queste risorse richiede di rispettare l’ambiente circostante, di evitare la monocultura, di sviluppare forme cooperative e di rendere compatibili i molteplici interessi popolari contrastanti attraverso consultazioni democratiche. La conquista di tali obiettivi impone, a propria volta, l’abbandono della strategia di dar vita a un “capitalismo andino amazzonico”. [19]

Le stesse contraddizioni presentano una dimensione maggiore in Ecuador. Il governo ha dimostrato fermezza di fronte alle aggressioni nordamericane, ma continua a scontrarsi con il movimento indigeno, a ignorare le proposte di salvaguardia delle risorse naturali e a rimandare la promozione di significative trasformazioni economico-sociali.

Il limite delle acquisizioni dei governi radicali si ripercuote direttamente sull’ALBA. Questo organismo è rimasto appena abbozzato rispetto a UNASUR, e le sue iniziative hanno perso l’impatto iniziale che avevano avuto la creazione di TELESUR, la formazione di PETROCARIBE, la solidarietà con Cuba, le misure in fatto di sanità e alfabetizzazione, o l’appoggio antimperialista all’Honduras e ad Haiti. Lo stesso ristagno colpisce il progetto del socialismo del XXI secolo, che tende a diluirsi in mancanza di strategie di radicalizzazione anticapitalista.

Il futuro dell’ALBA rimarrà inoltre segnato dall’esito delle riforme economiche avviate a Cuba. In un’isola con scarsissime risorse non c’è povertà o criminalità, ma una notevole soddisfazione delle esigenze basilari, nel quadro di una significativa penuria. Pur senza analfabetismo, abbandono scolastico e mortalità infantile, ci sono tuttavia difficoltà a continuare a garantire istruzione e sanità gratuite.

Cuba subisce l’asfissia commerciale del blocco e le gravi avversità congiunturali create dalla caduta del prezzo del nichel, dei minori introiti provenienti dal turismo e dagli uragani. Un’economia con manodopera altamente qualificata manca di industria e agricoltura produttive e, dopo il crollo dell’URSS, è stata costretta a sopravvivere con il turismo, le rimesse, il doppio mercato e le convenzioni con imprese straniere. Accanto all’erronea permanenza del modello di statalizzazione integrale è apparso un rilevante flusso di divise che non si trasforma in investimento. I progetti per incentivare l’attività commerciale mirano a contrastare questa asfissia, recuperando la competitività e riducendo la dipendenza dai prodotti alimentari importati.

La grande sfida sarà quella di dare impulso a questa politica senza permettere la restaurazione del capitalismo. Cuba è già uscita vincente in passato da imprese che sembravano irrealizzabili (periodo speciale, blocco, invasioni) e può raggiungere le nuove mete con la partecipazione popolare, la trasformazione democratica e la riduzione delle disuguaglianze sociali. Il futuro dell’ALBA e i progetti di rinnovamento del socialismo dipendono in larga misura da questo processo.

Il collegamento con gli “indignados

Quale sarà l’effetto della crisi globale sulle lotte sociali dell’America Latina? Le resistenze avevano raggiunto un picco di intensità durante le ribellioni del 2000-2005, che rovesciarono vari governi reazionari. Queste sollevazioni avevano indotto le classi dominanti a muoversi con maggiore cautela rispetto all’“aggiustamento”, sia negli epicentri sia in prossimità delle sollevazioni. Le mobilitazioni successive sono state più delimitate (difesa del salario, dell’occupazione, delle risorse naturali), con l’eccezione della resistenza quasi insurrezionale registratasi contro il colpo di Stato in Honduras. [20]

Le battaglie degli ultimi anni sono state in sintonia con la portata limitata che ha avuto il disastro mondiale sulla regione. La reazione aumenterebbe se l’impatto aumentasse, ma questa volta potrebbe comprendere un collegamento con l’ondata di protesta che si comincia a osservare in tutti i continenti.

Le reazioni puramente difensive che ci furono in giro nel 2008 all’inizio della crisi sono state trasformate dalla primavera che ha agitato il mondo arabo. Le battaglie che si svolgono in Grecia, l’irruzione degli “indignados” spagnoli, il malcontento sociale in Inghilterra, gli scioperi in Italia e i plebisciti islandesi esprimono questo cambiamento di clima. La nuova generazione ha trasformato le reti sociali in strumento di organizzazione che supera i confini e stimola gli occupanti di Wall Street. La giornata mondiale dello scorso 15 ottobre ha radunato milioni di manifestanti in 950 città di 80 paesi.

Il tono nuovo non tarderà a contagiare la regione latinoamericana. La straordinaria mobilitazione degli studenti cileni potrebbe costituire la prima manifestazione di questa nuova ondata. Gli universitari e i medi transandini non solo si sono scontrati con un governo di destra che oscilla tra la repressione e lo svuotamento delle trattative, ma hanno anche conquistato la simpatia popolare, con forme di azione che riprendono la vecchia forma dell’alleanza operai-studenti degli anni Settanta. “I nostri figli perderanno l’anno, ma passeranno alla storia”, riportavano i cartelli delle marce che hanno posto una domanda esplosiva al neoliberismo. La rivendicazione dell’istruzione gratuita smaschera lo scandaloso indebitamento che subiscono gli studenti e aggredisce un fondamento della disuguaglianza sociale.

Le resistenze in corso mettono in discussione non solo i banchieri e il neoliberismo, ma il sistema capitalistico stesso. Si è messo all’ordine del giorno il fatto di decidere chi pagherà i tremendi costi della crisi e, di fronte a questa alternativa, torna a ricucirsi il tessuto di solidarietà dell’America Latina con le popolazioni del Primo Mondo.

10 novembre 2011

Traduzione di Titti Pierini 20/11/11


* Economista, ricercatore, docente, membro di EDI (Economistas de Izquierda [Economisti di sinistra]). Il suo sito web: www.lahaine.otg/katz.

da Movimento operaio

Traduzione di Titti Pierini
Claudio Katz, “Gli impantanamenti dell’economia latinoamericana ” in Movimento operaio, pubblicato il 20-11-2011 su [http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=653:katz-nubi-sulleconomia-latinoamericana&catid=8:lamerica-latina&Itemid=16], ultimo accesso 17-04-2012.

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