Intervista al vicepresidente della Bolivia, Álvaro García Linera
“Gli indigeni, che erano predestinati ad essere contadini, operai, portieri o camerieri, oggi sono ministri, legislatori, direttori di imprese pubbliche, magistrati, governatori o presidente”.
Álvaro García Linera, oltre ad essere il vicepresidente della Bolivia, è uno degli intellettuali latinoamericani di sinistra più importanti del continente. Anche se la sua professione iniziale è quella di matematico (la studiò nell’Università Nazionale Autonoma del Messico), si è formato come sociologo nel carcere e nella pratica.
Ha teorizzato l’esperienza boliviana di cambiamento come nessuno lo ha fatto, come dire, con originalità, profondità e freschezza. E l’esperienza boliviana oggi è un riferimento obbligato e sempre più di maggior influenza sul movimento popolare latinoamericano. García Linera conosce e domina a fondo il marxismo classico, ma è molto lontano dall’essere dottrinario. Il suo pensiero è molto influenzato dall’opera di Pierre Bordieu.
Nell’intervista con La Jornada, il vicepresidente sottolinea che il fatto fondamentale avvenuto nell’attuale processo di cambiamento politico in corso è che gli indigeni, che sono la maggioranza demografica, oggi sono ministri e ministre, deputati, senatori, direttori di imprese pubbliche, redattori di costituzioni, massimi magistrati, governatori; presidente. Questo fatto – sottolinea – è la maggiore rivoluzione sociale ed egualitaria avvenuta in Bolivia dalla sua fondazione.
García Linera definisce il modello economico del suo paese come post-neoliberista e di transizione post-capitalista. Un modello che ha recuperato il controllo delle risorse naturali che erano in mani straniere per collocarle nelle mani dello stato, diretto dal movimento indigeno.
– Sono sei anni che voi governate la Bolivia. C’è stato un reale avanzamento verso la decolonizzazione dello stato?
– Il fatto fondamentale che abbiamo vissuto in Bolivia è stato che quelle persone, maggioranza demografica prima ed oggi, gli indigeni, gli indi, coloro che la brutalità dell’invasione e i sedimenti centenari della dominazione avevano stabilito che, nello stesso senso comune delle classi dominanti e delle classi dominate, erano predestinati ad essere contadini, operai di basso rango, artigiani informali, portieri e camerieri, sono oggi ministri e ministre, deputati, senatori, direttori di imprese pubbliche, redattori di costituzioni, massimi magistrati, governatori; presidente.
“La decolonizzazione è un processo di smantellamento delle strutture istituzionali, sociali, culturali e simboliche che sottomettono l’azione quotidiana dei popoli agli interessi, alle gerarchie e alle narrative imposte dai poteri territoriali stranieri. Il colonialismo è una relazione di dominazione territoriale che si impone con la forza e con il tempo si ‘naturalizza’, iscrivendo la dominazione nei comportamenti ‘normali’, nelle routine quotidiane, nelle percezioni mondane degli stessi popoli dominati. Pertanto, smantellare questo macchinario di dominazione richiede molto tempo. In particolare il tempo che è necessario per modificare la dominazione trasformata in senso comune, in abito culturale delle persone.”
“Le forme organizzative comunali, agrarie, sindacali del movimento indigeno contemporaneo, con le sue forme di deliberazione assembleare, di rotazione tradizionale degli incarichi, in alcuni casi, di controllo comune dei mezzi di produzione, sono oggi i centri di decisione della politica e di buona parte dell’economia in Bolivia.
“Oggi, per influire sui bilanci dello stato, per conoscere l’agenda governativa non serve frequentare gli alti funzionari del Fondo Monetario, della Banca Interamericana di Sviluppo, delle ambasciate statunitensi o europee. Oggi i circuiti del potere statale passano attraverso i dibattiti e le decisioni delle assemblee indigene, operaie e di quartiere.”
“I soggetti della politica e l’istituzionalità reale del potere si sono trasferiti nel settore plebeo e indigeno. I precedentemente chiamati ‘scenari di conflitto’, come sindacati e comunità, oggi sono gli spazi del potere fattuale dello stato. E quelli precedentemente condannati alla subalternità silenziosa oggi sono i soggetti che decidono il disegno politico.”
“Questo fatto dell’apertura dell’orizzonte delle possibilità storiche degli indigeni, di poter essere agricoltori, operai, muratori, impiegate, ma anche cancellieri, senatori, ministre o giudici supremi, è la maggiore rivoluzione sociale ed egualitaria avvenuta in Bolivia dalla sua fondazione. ‘Indigeni al potere’, è la frase secca e sprezzante con la quale le classi dominanti signorili spodestate annunciano l’ecatombe di questi sei anni.”
– Come caratterizzare il modello economico che è stato messo in pratica? È una espressione del socialismo del secolo XXI? È una forma di post-neoliberismo?
– Fondamentalmente post-neoliberista e di transizione post-capitalista. È stato recuperato il controllo delle risorse naturali che era in mani straniere, per collocarlo nelle mani dello stato, diretto dal movimento indigeno (gas, petrolio, parte dei minerali, acqua, energia elettrica); mentre che le altre risorse, come la terra demaniale, il latifondo ed i boschi, sono passati sotto il controllo delle comunità e dei popoli indigeno-contadini.
“Oggi lo stato è il principale creatore di ricchezza del paese, e questa ricchezza non è valorizzata come capitale; è ridistribuita nella società attraverso buoni, redditi e benefici sociali diretti della popolazione, oltre al congelamento delle tariffe dei servizi di base, dei combustibili e alla sovvenzione della produzione agraria. Cerca di dare la priorità alla ricchezza come valore d’uso, più che al valore di scambio. In questo senso, lo stato, non si comporta come un capitalista collettivo proprio del capitalismo di stato, ma come un ridistributore di ricchezze collettive tra le classi lavoratrici e in un potenziatore delle capacità materiali, tecniche ed associative dei modi di produzione contadini, comunitari e artigianali urbani. In questa espansione del comunitario agrario ed urbano poniamo la nostra speranza di passare al post-capitalismo, sapendo che anche questa è un’impresa mondiale e non di un solo paese.”
– Come è visto dalla Bolivia il processo di integrazione regionale? Che ruolo giocano gli Stati Uniti e la Spagna? Che spazio hanno Cina, Russia e Iran?
– Il continente latinoamericano sta attraversando un ciclo storico eccezionale. Gran parte dei governi sono di carattere rivoluzionario e progressista. I governi neoliberisti tendono ad apparire come retrogradi. E allo stesso tempo l’economia latinoamericana ha sviluppato iniziative interne che le stanno permettendo di affrontare in modo forte gli effetti della crisi mondiale. In particolare, l’importanza dei mercati regionali e il legame con l’Asia hanno determinato una architettura economica continentale di nuovo tipo. Bisogna puntare ad approfondire questa articolazione regionale e, se è possibile, a proiettarci come una specie di stato regionale di stati e nazioni. Comportarci come uno stato regionale riguardo all’utilizzo e alla negoziazione planetaria delle grandi ricchezze strategiche che possediamo (petrolio, minerali, litio, acqua, agricoltura, biodiversità, industria dei semielaborati, forza lavoro giovane e qualificata …), e all’interno, rispettare la sovranità statale e le identità nazionali regionali che formano il continente. Solo così potremo avere voce e forza propria nel corso delle dinamiche di mondializzazione della vita sociale.
– C’è un ruolo attivo di Washington per sabotare il cambiamento boliviano in corso?
– Il governo statunitense non ha mai accettato che le nazioni latinoamericane potessero decidere il proprio futuro perché ha sempre considerato che facciamo parte dell’area di influenza politica della sua sicurezza territoriale, e siamo il suo centro di approvvigionamento di ricchezze, naturali e sociali. Qualsiasi dissidenza a questo approccio coloniale colloca la nazione ribelle nel mirino di un attacco. La sovranità dei popoli è il nemico numero uno della politica statunitense.
“Questo è avvenuto con la Bolivia in questi sei anni. Noi non abbiamo nulla contro il governo statunitense né contro il suo popolo. Ma non accettiamo che nessuno, assolutamente nessuno di fuori debba venirci a dire quello che dobbiamo fare, dire o pensare. E quando come governo di movimenti sociali abbiamo cominciato a gettare le base materiali della sovranità statale nazionalizzando il gas, quando abbiamo rotto con la vergognosa influenza delle ambasciate sulle decisioni ministeriali, quando abbiamo definito una politica di coesione nazionale affrontando apertamente le tendenze separatiste latenti nelle oligarchie regionali, l’ambasciata degli Stati Uniti non solo ha appoggiato finanziariamente le forze conservatrici, ma le ha organizzate e dirette politicamente, con una brutale ingerenza negli affari interni. Questo ci ha obbligato ad espellere l’ambasciatore e successivamente l’agenzia antidroga di quel paese (DEA).”
“Da allora i meccanismi di cospirazione sono diventati più sofisticati: sono utilizzate organizzazioni non governative, si infiltrano attraverso terzi nelle associazioni indigene, dividono e provocano gruppi dirigenti paralleli nel settore popolare, come è stato recentemente dimostrato attraverso il flusso di telefonate dalla stessa ambasciata ad alcuni dirigenti indigeni della marcia del Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure (TIPNIS), l’anno passato.”
“In ogni caso, noi ricerchiamo relazioni diplomatiche rispettose, ma anche stiamo attenti a respingere gli interventi stranieri di ‘alta’ o ‘bassa’ intensità.”
– È stato segnalato da alcuni settori di sinistra che il blocco conservatore è riuscito a riorganizzarsi e ha preso l’offensiva, mentre il movimento sociale che ha portato il MAS al potere è stato assorbito dalla politica istituzionale. È corretta questa valutazione?
– Oggi il blocco conservatore, delle oligarchie esterofile, non ha un progetto alternativo di società capace di organizzare una volontà generale di potere. L’orizzonte dell’attuale politica boliviana è segnato da un treppiedi virtuoso: la plurinazionalità (popoli e nazioni indigene al comando dello stato), l’autonomia (decentralizzazione territoriale del potere), e l’economia plurale (coesistenza organizzata dallo stato di diversi modi di produzione).
“Temporaneamente sconfitto il progetto neoliberista di economia e società della destra, ciò che oggi caratterizza la politica boliviana è l’emergere di ‘tensioni creative’ all’interno dello stesso blocco nazional-popolare al potere. Passati i grandi momenti di avanzamento delle masse, dove si è costruito l’ideale universale delle grandi trasformazioni, il movimento sociale vive in alcuni casi un processo di ripiegamento corporativo. Progressivamente tendono a prevalere interessi locali su quelli nazionali, o le organizzazioni si dibattono in lotte interne per il controllo di incarichi pubblici. Ma emergono anche nuove tematiche non previste su come guidare il processo rivoluzionario. È il caso del tema della difesa dei diritti della madre terra, scossi dall’esigenza popolare di industrializzare le risorse naturali.”
“Come si vede, si tratta di contraddizioni all’interno del popolo, tensioni che sottopongono al dibattito collettivo il modo di portare avanti i cambiamenti rivoluzionari. E questo è sano, è democratico ed è il punto di sostegno del rinnovamento vivificante dell’azione dei movimenti sociali. Anche se si tratta di contraddizioni che potrebbero essere usate dall’imperialismo e dalle forze di destra nascoste per proiettare ampiamente, in maniera ventriloqua e travestita, i propri interessi attraverso alcuni soggetti popolari e discorsi apparentemente alter mondisti ed ecologisti.”
– A settembre dell’anno scorso, la marcia dei popoli indigeni in difesa del TIPNIS e contro la costruzione di una strada è stata repressa dalla polizia. Il fatto è stato presentato all’opinione pubblica come la perdita dell’appoggio indigeno al governo di Evo Morales. Si è affermato che il governo boliviano si era ostinato a costruire la strada perché aveva ricevuto l’aiuto economico dell’impresa petrolifera brasiliana OAS. È vero?
– La popolazione indigena in Bolivia, come in Guatemala, è maggioritaria rispetto al resto degli abitanti. Il 62 per cento dei boliviani sono indigeni. Le principali nazioni indigene sono la aymara e la quechua, con circa 6 milioni di persone ubicate principalmente nell’altipiano, le valli, le zone delle yunga ed anche nelle terre basse. Le altre nazioni indigene sono i guarnì, i moxeni, gli yuracari, i chiman, gli ayorei ed altre 29 che abitano nelle terre basse l’Amazzonia, la Chiquitania ed il Chaco. La popolazione totale di queste nazioni delle terre basse si stima tra i 250 mila e i 300 mila abitanti.
“Il conflitto sul TIPNIS ha coinvolto alcuni popoli indigeni delle terre basse, ma continua l’appoggio degli indigeni delle terre alte e delle valli, che sono il 95 per cento della popolazione indigena della Bolivia. E la maggior parte degli indigeni mobilitati erano dirigenti di altre zone che non sono proprio del TIPNIS, ma che contano sul sistematico appoggio di organizzazioni non governative ambientaliste, varie delle quali finanziate dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), oltre che sul sostegno delle principali reti di comunicazione televisiva privata, di proprietà di vecchi militanti dell’oligarchia separatista, che hanno una ampia influenza nella costruzione dell’opinione pubblica della classe media. In questi giorni è arrivata a La Paz un’altra marcia, ugualmente di indigeni delle terre basse e con una maggiore presenza di indigeni del TIPNIS, che chiedevano la costruzione della strada attraverso il parco e che contestavano di venire esclusi dal diritto alla salute, all’educazione e ai trasporti, cui oggi possono accedere solo dopo giorni di cammino.”
“Il problema è complesso. Sono mescolati temi propri del dibattito rivoluzionario, come quello del difficile equilibrio tra il rispetto della madre terra e l’urgente necessità di unire il paese dopo secoli di separazione isolazionista di alcune regioni. C’è il dibattito tra il legame organico e i gruppi dirigenti dei popoli indigeni delle terre alte nello stato plurinazionale, differente dal rapporto ancora ambiguo con lo stato plurinazionale da parte dei popoli indigeni delle terre basse.”
“Ma in mezzo c’è anche la strategia dell’oligarchia regionale cruzegna di impedire quella strada, che svincolerebbe l’attività economica di tutta l’Amazzonia dal suo controllo imprenditoriale. C’è l’interesse statunitense di proteggere l’Amazzonia come propria riserva di acqua e biodiversità, e quello di promuovere divisioni tra i dirigenti indigeni per creare condizioni per l’espulsione degli indigeni dal potere statale. C’è l’interesse di alcune ONG abituate a fare grandi affari privati con i parchi.”
“In ogni caso, in mezzo a questo intreccio di interessi, come governo dobbiamo avere la capacità di risolvere democraticamente le tensioni interne, e di svelare e neutralizzare gli interessi controrivoluzionari che molte volte si ricoprono di vesti pseudo rivoluzionarie.”
– Perché costruire quella strada nonostante l’opposizione di una parte della popolazione?
– Per tre motivi. Il primo, per garantire alla popolazione indigena del parco l’accesso ai diritti ed alle garanzie costituzionali: acqua potabile affinché i bambini non muoiano di infezioni intestinali. Scuole con professori che insegnino nella loro lingua, preservando la loro cultura e arricchendola con le altre culture. Accesso ai mercati per portare i loro prodotti senza dover navigare su zattere per una settimana per vendere il loro riso o comprare sale 10 volte più caro che in qualsiasi negozio di quartiere.
“Il secondo motivo, la strada permetterà di unire per la prima volta l’Amazzonia, che è la terza parte del territorio boliviano, con il resto delle regioni delle valli e dell’altipiano. La Bolivia mantiene isolata la terza parte del proprio territorio, fatto che ha permesso che la sovranità dello stato sia stata sostituita dal potere del padrone agricolo, del commerciante di legname straniero o del narcotrafficante.”
“E il terzo motivo è di carattere geopolitico. Le tendenze separatiste dell’oligarchia, che furono sul punto di dividere la Bolivia nel 2008, furono bloccate poiché furono sconfitte politicamente durante il colpo di stato di settembre di quell’anno, e perché parte della sua base materiale, l’agroindustria, è stata occupata dallo stato. Nonostante ciò, c’è un ultimo sostegno economico che mantiene in piedi le forze retrograde di tendenza separatista: il controllo dell’economia amazzonica, che per giungere al resto del paese deve obbligatoriamente passare attraverso la lavorazione ed il finanziamento di imprese sotto il controllo di una frazione oligarchica che risiede a Santa Cruz. Una strada che unisca direttamente l’Amazzonia con le valli e l’altipiano riconfigura radicalmente la struttura del potere economico regionale, facendo crollare l’ultima base materiale dei separatisti e dando luogo ad un nuovo asse geoeconomico nello stato. Il paradosso di tutto questo è che la storia abbia posto alcuni di sinistra come i migliori e più loquaci difensori degli interessi più conservatori e reazionari che abbia il paese.”
– Si è detto che la Bolivia continui ad essere un fornitore di materie prime nel mercato internazionale e che in pratica il modello di sviluppo (che alcuni analisti hanno qualificato come estrattivista) non metta in discussione questo ruolo. È così? Si tratta di una fase transitoria di accumulazione che si accompagna ad una redistribuzione della rendita?
– Né l’estrattivismo né il non-estrattivisno, né l’industrializzazione sono un vaccino contro l’ingiustizia, lo sfruttamento e la disuguaglianza. Di per sé non sono né modi di produzione né modi di gestione della ricchezza. Sono sistemi tecnici di trasformare la natura mediante il lavoro. E dal modo come sono usati questi sistemi tecnici, da come è gestita la ricchezza così prodotta, si potranno avere regimi economici con maggiore o minore giustizia, con sfruttamento o senza sfruttamento del lavoro.
09-02-2012
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da |
Luis Hernández Navarro, “El pueblo boliviano vive la mayor revolución social” traducido para La Jornada por S., pubblicato il 09-02-2012 su [http://www.jornada.unam.mx/2012/02/07/politica/002e1pol], ultimo accesso 14-02-2012. |