Perú, al centro di una disputa per l’egemonia regionale


Raúl Zibechi

I ministri della Difesa del Brasile e del Perù hanno firmato un accordo di cooperazione militare che fa diventare “soci strategici” le forze armate di ambedue i paesi.

Da quando Ollanta Humala ha indossato la fascia presidenziale la posizione strategica del Perù, come porta di ingresso e di uscita del commercio tra la Cina ed il Brasile, ma anche come uno dei più importanti paesi minerari della regione sudamericana, è salita di varie posizioni.

Per dare un quadro più o meno completo della congiuntura critica che sta attraversando il paese andino, debbono essere presi in considerazione due tipi di conflitti: quelli interstatali e quelli politico-sociali. I primi sono rappresentati dai due paesi i cui interessi si scontrano in modo frontale in Perù, ossia gli Stati Uniti ed il Brasile. I secondi mettono di fronte i movimenti al governo che quelli stessi hanno aiutato ad eleggere.

Il Brasile ha appoggiato la candidatura di Humala e continuerà ad appoggiare il suo governo, al di là del conflitto che perdura con i popoli e la popolazione. Durante la campagna elettorale due membri del PT hanno contribuito a modificare la figura dell’ex militare per renderla più accettabile alle classi medie. Nonostante la recente svolta a destra di Humala in risposta all’inasprimento del conflitto sociale antiminerario – ha licenziato undici dei suoi diciassette ministri ed ha aperto le porte del gabinetto alla tecnocrazia neoliberista –, il paese continua ad essere lo scenario di una acuta disputa geopolitica.

Il 23 dicembre i ministri della Difesa Celso Amorim, per il Brasil, e Alberto Otárola, per il Perù, hanno firmato un accordo di cooperazione militare che fa diventare “soci strategici” le forze armate di ambedue i paesi (Afp, 23 dicembre).

L’accordo punta alla cooperazione “industriale, tecnologica e scientifica in materia di difesa” e definisce “i settori aerospaziale e navale come aree di priorità comune di investimenti e sviluppo nel campo della sicurezza e della difesa”. Il Brasile si è compromesso ad offrire competenze, addestramento, supporto tecnico, logistico e a realizzare trasferimenti di tecnologia. Ambedue le parti considerano che l’accordo sia una misura di “dissuasione contro eventuali minacce esterne”.

Per una maggiore precisione, i ministri hanno evidenziato che “l’alleanza strategica” è difensiva e non è diretta contro nessun dei vicini (giacché il Perù ha un prolungato contenzioso con il Cile). Amorim ha affermato che non è in gioco la dissuasione tra i paesi della regione, ma affrontare minacce “provenienti da fuori del continente”, un chiaro riferimento agli Stati Uniti.

Humala può andare avanti con il processo di integrazione regionale, stringere relazioni con il Brasile e porre le distanze con gli Stati Uniti, e allo stesso tempo approfondire il modello minerario multinazionale reprimendo il proprio popolo. Non c’è contraddizione. Il Brasile appoggia la megaindustria mineraria per conto della Vale (la seconda impresa mineraria del mondo), che ha vari progetti in Perù, e le sue imprese statali portano avanti controverse iniziative idroelettriche. La dinamica interstatale e il conflitto di classe vanno per strade differenti, al punto che un governo può essere molto di destra ed avere interessi contrari a quelli degli Stati Uniti.

Come l’economista Oscar Ugarteche ha segnalato giorni fa (Alai, 19 dicembre), Humala ha realizzato un “massacro politico” cacciando il settore di sinistra del governo e schierandosi con gli impresari minerari in risposta all’esplosione dal basso che a novembre era iniziata con la resistenza popolare al progetto minerario Conga nella Cajamarca.

Ha costretto alla rinuncia il gabinetto del primo ministro Salomón Lerner; al suo posto ha designato il generale Oscar Valdés ed ha dichiarato lo stato di emergenza in varie province della Cajamarca per ristabilire l’ordine di fronte alle richieste popolari. Nulla di nuovo. L’unico dubbio è se siamo di fronte al primo passo di un processo di militarizzazione del conflitto sociale o se la resistenza riuscirà a frenare l’ascesa di destra.

Gli ultimi anni sono stati testimoni di una crescita sostenuta della resistenza alle megaindustrie minerarie e alle grandi opere di infrastruttura. Tutti i giorni si producono grandi o piccole resistenze, dalla protesta di aprile scorso contro il progetto minerario Tía María en Islay (Arequipa) fino all’incendio dei caselli di pedaggio sulle strade, passando per la massiccia sollevazione di aprile, maggio e giugno a Puno contro le miniere, guidate dagli aymara, che ha avuto il suo punto più critico nell’occupazione della pista di atterraggio dell’aereoporto di Juliaca, con un costo di cinque morti.

Nulla indica che la resistenza arretrerà, giacché ci sono più di 90 conflitti minerari disseminati dal nord al sud attraverso la sierra andina peruviana. È una somma di conflitti locali non coordinati, ma sommamente efficaci nella loro capacità di ridurre il margine di manovra dei governi e delle imprese multinazionali, giacché non esiste una dirigenza centralizzata che possa essere ammorbidita con la repressione o la cooptazione.

“Noi popoli indigeni ci dichiariamo in mobilitazione permanente per difendere i nostri territori”, ha dichiarato a metà dicembre il 22 congresso nazionale ordinario dell’AIDESEP, l’organizzazione indigena amazzonica che è stata protagonista della sollevazione di Bagua nel 2008. È la stessa predisposizione alla resistenza che vediamo di fronte alla diga di Belo Monte in Brasile, di fronte all’impresa idroelettrica Hidroaysén nella Patagonia cilena, che ha preceduto il conflitto studentesco, e la stessa che ha prodotto la marcia in difesa del TIPNIS in Bolivia.

I popoli ancora non hanno una alternativa alle megaminiere né alle gigantesche dighe idroelettriche che in non poche occasioni sono progettate dagli stessi che dicono di difendere il “buen vivir” (il vivere bene, n.d.t.), la natura e l’ecosistema. In Perù, e nella regione, ci sono molti più governi in discussione. C’è una corsa tra potenti stati e voraci multinazionali per appropriarsi dei beni comuni.

E una aumentata resistenza dei più diversi che sono abbasso per impedirlo, per continuare ad esistere come popoli e, soprattutto, per contendergli il senso dello stare al mondo, che è molto di più che un “modello di sviluppo”, perché fa dell’esistenza qualcosa che meriti di essere considerato vita, ossia dignità, sulla terra.

4/1/2012

La Jornada

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da
Raúl Zibechi, “Perú, en el centro de la disputa hegemónica regional ” traducido para La Jornada por S., pubblicato il 04-01-2012 su [http://www.lahaine.org/index.php?p=58548], ultimo accesso 04-01-2012.

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