Il dolore delle vittime, l’indifferenza del potere


Sergio Rodríguez Lascano

Il Messico e la società messicana si trovano in mezzo ad un bivio: o permettere che sia portato avanti il processo di annientamento del tessuto sociale, o fermare la guerra senza senso che Felipe Calderón e la classe politica nel suo insieme hanno dichiarato ai messicani.

Qui non c’è via di uscita. Il fatto fondamentale della Carovana per la Pace con Giustizia e Dignità, che è partita da Cuernavaca, Morelos, lo scorso 4 giugno ed è arrivata l’ 11 a Ciudad Juárez, Chihuahua, è stato che è riuscita a rendere visibili centinaia di familiari delle vittime che, con grande coraggio, hanno rotto il labirinto di paura e si sono presentati nelle pubbliche piazze per denunciare, non questo o quel settore del narcotraffico, ma lo stato messicano e le sue istituzioni. Sia perché loro sono i diretti responsabili della loro sofferenza, sia perché non hanno fatto nulla per rimediare alla situazione, per cui diventano complici di chi ha commesso il delitto, sia perché dopo aver denunciato l’omicidio o la sparizione di qualche familiare, chi lo fa è stato assassinato o fatto scomparire, per cui, una volta di più, è evidente la totale simbiosi tra il crimine organizzato ed il crimine disorganizzato, che lo stato messicano rappresenta.

Quei familiari che sono scesi sulla pubblica piazza per raccontare il proprio dolore, per comunicare la propria angoscia e far conoscere la propria tragedia, facendolo, si stavano trasformando in attori della ricostruzione popolare del Messico. Quasi sempre si trattava di famiglie povere o di classe media bassa, perché anche la morte ha una preferenza per i poveri. Quasi sempre sono state donne quelle che hanno parlato, quelle che con lacrime agli occhi hanno commosso tutti noi che ascoltavamo. Non era il tradizionale comizio politico – con l’eccezione forse di Morelia – in cui avvengono sempre due fenomeni: l’oratore parla per la storia, con parole grandi sebbene vuote, e nessuno o quasi nessuno, presta attenzione. No, qui ci raccontavano la loro angoscia, conversavano con noi, ci lasciavano entrare nelle loro case e lì ci narravano ciò che era successo.

E sempre una domanda attraversava la mente di coloro che parlavano e di noi che ascoltavamo: Perché? Quale è la ragione di tanti morti e di tanti scomparsi?

La guerra di Felipe Calderón

“Per Schmit, ciò che definiva lo stato era il monopolio dello jus belli: ‘la possibilità di fare la guerra e, pertanto, di disporre apertamente, con frequenza, della vita degli uomini’. E lo stato totalitario appartiene all’epoca della guerra totale: ‘L’essenza di ogni cosa è la guerra. La natura della guerra – scriveva Schmit nel 1937 – determina la natura della forma dello stato nella sua totalità’”.

(Enzo Traverso: Il totalitarismo: storia di un dibattito)

Con la guerra su cui si è lanciato, già è stato ripetuto, Calderón cercava una legittimità che, certamente, non ha potuto ottenere. Ciò che non ha potuto conseguire nelle urne cercava di trovarlo in una guerra, che gli permettesse di vedere se stesso come un piccolo dittatore. Per questo non fu fatta senza motivo la famosa foto nella quale si travestì da soldato. Quella foto riflette il sogno da molto tempo segretamente accarezzato da un uomo di destra che, per nessuna ragione, può essere considerato democratico. Se il risultato di tutto questo non è stato più terribile, è dovuto al fatto che la sua mancanza di legittimità è così assoluta come è assoluto il potere che vuole esercitare.

Ma la vera guerra non fu quella che in modo presunto fu dichiarata contro il crimine organizzato, quella fu il pretesto. Attraverso il quale si tentava di portare l’esercito e la marina nelle strade per cercare di rompere il tessuto sociale che, nel corso degli anni, il popolo messicano era andato costruendo. Per quanto che si è potuto vedere nella Carovana, la maggioranza dei morti non è il risultato di lotte tra i cartelli della droga, come hanno irresponsabilmente detto le autorità, né si tratta di membri del crimine organizzato abbattuti da “valorosi” soldati.

Stiamo parlando di cittadini, di uomini, donne, anziani e bambini che sono stati trasformati in obiettivo di guerra. Di una guerra che già produce più di 45 mila morti e circa 18 mila scomparsi. Quanti di questi morti o scomparsi sono membri del crimine organizzato?

Allora, se non si sta riducendo il potere del crimine organizzato, se la produzione di stimolanti non diminuisce, se il consumo degli stessi sale e arriva sempre più all’infanzia, allora, quale è il bilancio che dobbiamo trarre da questa guerra?

Per alcuni può essere esagerato parlare di Felipe Calderón o dello Stato messicano come totalitari. Si potrebbe argomentare: ma esiste la divisione dei poteri, la gente può andare liberamente alle urne, i mezzi di comunicazione non sono statali, esiste la libertà di critica nei quotidiani nazionali … Allora, come si può pensare che si tratti di un regime totalitario? L’argomento contrario più demolitore di tutto questo, a parte il ribattere punto per punto, è il seguente: in tutto il paese non esiste la possibilità di poter camminare per le strade all’ora che uno vuole. E scusate, ma se dopo le ore 20.00 uno non può circolare per le strade di Durango, Saltillo, Morelia, Zacatecas, Guadalajara, Monterrey, Tijuana, qualsiasi città del Tamaulipas, Torreón, Chihuahua e Ciudad Juárez; se, dopo questa ora, siamo di fronte a città fantasma; se la gente si rifugia in casa per pregare di non essere attaccata nello stesso luogo dove vive; se il concetto di comunità, collettivo, gruppo, quartiere, famiglia viene distrutto dal potere, sia direttamente sia con la complicità o l’omissione … parlare di democrazia in Messico è un’altra menzogna geniale.

E questo si riflette in tutte le istituzioni di potere. È vero che formalmente i tre poteri sono separati, anche che a volte è favorito un potere rispetto a un altro. È vero che la popolazione può andare alle urne e “scegliere” i propri governanti. È vero che i mezzi di comunicazione non sono statali e che alcune volte possono perfino differenziarsi dal potere o permettere che appaiano sugli schermi personalità probabilmente democratiche.

Ma è anche vero che esiste un minimo comune denominatore tra tutti questi elementi che spiega perché la democrazia sia anche una questione irrisolta. Questo minimo comune denominatore è che tutte le istituzioni servono i grandi signori del denaro, sia nazionali sia internazionali. Questo minimo comune denominatore spiega che tutti i mezzi di comunicazione, sia quelli statali sia quelli del grande capitale, possiedono un codice comune che gli permette velleità critiche e, allo stesso tempo, di essere sostenitori del potere. Quelli si arrogano il diritto di dire chi di coloro che si muove sia buono, questo sì, non parlare di smilitarizzazione perché allora ti trattano come un gruppo di lotta o come narcozapatista. Dopo molti anni, dopo aver superato i 70 anni del PRI quelli hanno costruito questo denominatore comune.

Si tratta di una nuova versione del sistema del partito di stato, nient’altro, sennonché ora esiste un sottoinsieme: tre partiti politici “grandi” e quattro bonsai che non rappresentano gli interessi di una classe sociale subalterna, ma gli interessi di più ricchi e potenti e, soprattutto, di una struttura politica che gli permetta di creare una grande illusione: l’alternanza al potere. Alternanza, che fino alla nausea è stato dimostrato, sia a livello federale o statale o municipale, che non significa altro che la stessa cosa. Questo sistema di partito di stato con tre facce è ancor più mostruoso del precedente. Per questo, con il perdono di coloro che hanno delle illusioni, non c’è possibilità che avvenga un cambiamento sul terreno delle elezioni.

Fermare la guerra: l’imperativo categorico

“Lo scorso venerdì 17 giugno, nella città di Jalapa, Veracrus, sui mezzi di comunicazione scritti ed elettronici è stata data la notizia della morte di undici persone, probabilmente legate alla delinquenza organizzata, in un posto di blocco dell’esercito messicano situato lungo la strada federale Jalapa-Veracruz, all’altezza del 63 Battaglione di Fanteria, municipio di Emiliano Zapata.

“Tre lavoratori dell’impresa Costruzioni Santa Clara, Joaquín Figueroa Vásquez, meccanico diesel dell’impresa, che accompagnava l’ingegnere e il tecnico di laboratorio, ritornavano dal lavoro a bordo di un furgone Mitsubishi di colore bianco, quando arrivarono al posto di blocco di Lencero, gli intimarono l’alt.

“I fatti successivi che conosciamo sono che i tre furono assassinati e presentati dai rappresentanti militari e civili come delinquenti, i loro corpi presentavano segni evidenti di tortura, vari spari alla schiena e il colpo di grazia. Al momento della loro presentazione, furono sistemati all’interno di un furgone di colore nero insieme al corpo senza vita di un’altra persona e fotografati con armi di grande calibro sparse.

“La versione ufficiale dice che si stava svolgendo una operazione, che da El Tamarindo si stavano inseguendo dei delinquenti e che, giunti al posto di blocco militare, ci fu uno scontro a fuoco con un saldo di undici sicari morti e otto arrestati.

“Tale versione è inconsistente, se il supposto scontro avviene quando gli viene intimato l’alt e risultano morti, come sono giunti sull’altro veicolo? Perché il furgone non presentava i segni dei colpi? Perché i corpi presentano colpi alla schiena? E il colpo di grazia? E la tortura?”

Ciò che nelle precedenti righe è raccontato, nelle terre messicane si trasforma nel paesaggio quotidiano. Paesaggio di morti e scomparsi. Di gente il cui onore di lavoratore viene macchiato, volendo collocarli come appartenenti al crimine organizzato. Due morti, la morte fisica e la morte del loro nome. Ti uccidono due volte. La famiglia comincia un arduo e difficile lavoro: sviscerare chi e perché lo hanno ucciso, e cercare di lavare il loro nome, contro i mezzi di comunicazione che si divertono a raccontare tutta quell’immondizia. Due volte assassinato per il delitto di essere un lavoratore e di circolare per le strade. Dai posti di blocco militari e dai mezzi di comunicazione.

La guerra di Calderón sta portando il popolo messicano a una situazione limite. È vero che c’è molta tristezza nelle testimonianze dei familiari delle vittime. È vero che c’è molta paura quando si racconta la verità di ciò che è successo alle vittime. È vero che in molti luoghi si parla a bassa voce. Ma è innegabile che ci sia anche rabbia. Rabbia di non sapere la ragione perché è successo questo alle loro vittime. Rabbia perché c’è sempre una storia che coinvolge il potere come delinquente diretto o come complice e che copre i criminali. Rabbia di fronte alla desolazione. Questa rabbia è la reazione naturale di chi soffre di fronte all’ingiustizia. È vero che sia4 fondamentale il conforto (convivere con la solitudine dell’altro), ma anche comprendere che c’è rabbia e che questo non è il prodotto di un gruppuscolo politico, ma di quanto ci sia di umiliante in una realtà così piena di offese.

“Estamos hasta la madre” (“siamo al colmo”, n.d.t.) è stato una specie di “ya basta” del 2011. E non rivela solo il dolore di un padre, ma il sentimento profondo di centinaia di migliaia di messicani che ormai non ne possono più. E che non si aspettano nulla dal potere, l’unica cosa che vogliono è costruire una forza sociale di una tale dimensione che permetta di fermare la guerra.

Fermare la guerra. Non intenderla o comprendere la difficoltà affinché questo avvenga, ma fermare la guerra. Lo sviluppo di una mobilitazione che non si preoccupa di cercare di mettersi al posto di chi la ha iniziata, ma basata sempre sulle vittime, preoccupata della propria sorte dopo aver azzardato di parlare in pubblico, perché la rabbia ha potuto più della paura.

Preoccupata di creare meccanismi organizzativi che permettano un processo di autorganizzazione sociale. Ciò che è in gioco in questa mobilitazione non è quello che alcuni irresponsabili possono pensare: la rivoluzione socialista. Ma nemmeno quello che altri irresponsabili possono pensare: la riforma politica.

Non è un problema fare un tavolo di discussione con il governo o chiamarlo dialogo, fintanto che Felipe Calderón è il capo supremo delle forze armate. Il problema è per cosa sia fatto questo dialogo e chi è l’interlocutore. Se si pensa che l’interlocutore fondamentale sia Felipe Calderón e la classe politica si commetterà un equivoco. Se si cerca che il dialogo dia sicurezza alle vittime affinché rompano il loro silenzio e denuncino ciò che gli è successo, se si lavora per modificare il tavolo e parlare tra sé per andare a formare un soggetto sociale specifico che con forza morale si rivolga alla nazione, fino a quando non si allontana dal suo obiettivo fondamentale: fermare la guerra, allora, il dialogo, non c’è alcun dubbio, avrà una forza travolgente.

Il dialogo non può essere visto come un evento che muore il giorno dopo che è successo. Questo è l’obiettivo del potere. Se è necessario inghiottire alcuni rospi ascoltando alcune vittime, non c’è altro rimedio. Ma dopo si passerà a ciò che interessa al signor Calderón: che la mobilitazione continui con una politica di facciata, alla fine promettere, ricevere o indagare non manda in rovina.

E dopo, trattare la riforma politica. E lì, gli ha spiegato che lui ha già richiesto una sessione straordinaria alle due camere del potere legislativo e che non è più nelle sue mani, che si rivolgano al Congresso.

Allora è stato fatto un secondo dialogo alquanto inutile. I deputati e i senatori possono anche arrivare a dire di sì. Non c’è problema! Far passare la riforma politica di Calderón con alcuni cambiamenti, non significa nulla per la democrazia in Messico: candidatura cittadina, quando esiste il SNTE, il sindacato del petrolio, la CNC, Morena? Revoca del mandato, quando possono coprirsi e farlo attraverso una consultazione telefonica, come ha innovato López Obrador a Città del Messico, lasciando a Carlos Slim la sua impresa, chiaro, in cambio di alcuni spiccioli? Iniziativa cittadina, dopo quanto hanno fatto con gli Accordi di San Andrés che è stata la più autentica iniziativa cittadina della storia del Messico?

Si può o non si può andare a un dialogo. Il problema non è la parola, ma le idee e l’obiettivo. Si poté dialogare con il governo a San Andrés e utilizzare lo spazio per denunciare ciò che era la politica di disprezzo, di repressione e di morte cui erano condannati i popoli indigeni del Messico. E avanzare nella costruzione di un soggetto sociale organizzato.

Si può dialogare con il governo con l’obiettivo di denunciare e promuovere il castigo contro lo stato messicano. Con l’obiettivo di fermare la guerra.

Scomparire forzatamente, il peggiore dei crimini

Con la Carovana per la Pace con Giustizia e Dignità, chiamata anche del Conforto, si è potuto entrare in contatto con ciò che significano i nuovi tipi di scomparsa che sono stati sviluppati in Messico. Nel linguaggio giornalistico sono chiamati allontanamenti. La scomparsa delle persone è stata considerata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite come un crimine di lesa umanità. Allo stesso modo dei massacri e delle uccisioni per cause etniche. Dal 1969, la pratica di far scomparire con la forza è stata portata a termine dallo stato messicano durante il periodo che è conosciuto come guerra sporca. Si trattava di annichilire tutta una generazione di giovani rivoluzionari che avevano deciso di prendere le armi per combattere il mal governo. Nonostante ciò, sarebbe un errore ridurre quelle vittime a quel tipo di esseri umani. La maggioranza non erano rivoluzionari armati: erano maestri, contadini, che avevano il problema di chiamarsi Cabañas, o di vivere in un paese considerato sostenitore della guerriglia. Per questa politica criminale, il governo costituì un gruppo speciale che chiamò Brigata Bianca, creata da Fernando Gutiérrez Barrios, tanto ammirato da alcuni ex guerriglieri del Sudamerica.

Ora, sono scomparsi militari, poliziotti, padri di famiglia, giovani, emigranti, donne. L’utilizzazione di questa terribile pratica è diventata indiscriminata. Chi commette questo crimine? Durante la Carovana, una signora ha narrato di come suo figlio fosse scomparso fuori della sua scuola, sembrava che alcuni criminali lo avessero preso, ma dopo che suo marito andò a denunciare i fatti, anche lui fu fatto scomparire. Qui, in modo cinico si dividono la responsabilità tanto il crimine organizzato che lo stato.

La scomparsa è un crimine di lesa umanità poiché si priva della libertà una persona senza nessun pretesto né nessun giudizio, è sottoposto alle torture e, in modo molto perverso, si tiene l’anima dei suoi familiari su un filo.

Nella Carovana una signora ha raccontato: “Mio figlio è stato fatto scomparire, ogni notte io metto un piatto sulla tavola e gli servo la cena, sempre pregando che lo liberino”. I familiari vivono un lutto infinito, permanente. Possono passare dieci, quindici, venti o trenta anni e la loro pena perdura. Non hanno un corpo da abbracciare, una tomba dove pregare, non hanno niente se non il ricordo, la memoria. E quellx lottano per qualcosa di elementare: “se vivi li hanno portati via, vivi li vogliamo”. Secondo rapporti della stessa Segreteria per la Difesa Nazionale ci sono 18 mila scomparsi.18 mila case distrutte. 18 mila famiglie distrutte.

E appare chiaro che i familiari degli scomparsi chiedano che in questa lotta non gli sia fatta la stessa cosa che il governo gli fa: che non li facciano sparire. Ed hanno tutto il diritto di avere un posto in questa mobilitazione, che si parli di loro, che si costruisca una testimonianza con i nomi dei loro familiari. Che non gli si dia di meno nel creare un patto cittadino, nel quale gli vengono dedicate due frasi, mentre alla riforma politica vengono dedicati vari paragrafi.

Il loro dolore è ugualmente grande, nient’altro che continuo, immanente alla vita quotidiana, costante. Loro sono andati avanti nella creazione di organizzazioni dei familiari. Loro vogliono avere un posto importante nella mobilitazione che si sta sviluppando oggi in Messico.

La classe politica e la mobilitazione per le vittime

Giorni per rivelare il dolore che sta vivendo la società messicana. Giorni per raccontare, con lacrime e rabbia, i crimini che lo stato messicano ha commesso contro messicanx e centroamericanx. Giorni di manifestazione della società civile che, per un momento, sposta l’agenda della classe politica. Giorni in cui la società si riconosce nelle strade e si esprime come un corpo unico di fronte ad una classe politica assente e infastidita. Giorni di discussioni su quanto avviene e su quanto è deciso in un movimento plurale e, molte volte, contraddittorio.

La marcia per la pace con giustizia e dignità ha rappresentato il grido soffocato per molti anni di chi non sopporta più così tanti oltraggi: 45 mila morti, quasi 18 mila scomparsi, migliaia di donne emigranti violentate.

Giorni di ignominia quando un Felipe Calderón si esalta e si compara a Winston Churchill e gli manca solo da dire: “Mai tanti sono stati debitori di così pochi”, riferendosi alle forze armate e della polizia. Il nostro piccolo Churchill che ci offre “sangue, sudore e lacrime” come orizzonte visibile. Il piccolo Churchill, una delle poche cose che condivide con il suo alter ego, è la sua inclinazione per le bevute. Un presunto presidente che si altera poiché la gente non condivide la sua visione ottimista della realtà: nel suo mondo, c’è una guerra contro il narcotraffico, si sta vincendo e lui ottiene legittimità.

Di fronte, il dolore del popolo messicano, il dolore prodotto dal fatto che la comunità, la popolazione, la famiglia, che sono i veri obiettivi centrali di questa guerra, si stanno sfasciando. Il dolore di vedere un paese distrutto nella cosa più importante, nella quale non si può permettere di parlare di Nazione: nel suo tessuto sociale.

La rinascita di una società che era stata allontanata dalla scena politica dalla classe politica, che, nonostante il suo carattere totalmente minoritario, era riuscita a vendere l’idea che la data chiave che dovrebbe occupare tutta la nostra attenzione dovrebbe essere il 2012; che fuori dalle elezioni e dalle urne non c’è un altro calendario né un’altra geografia; che questa sarà la data fondamentale, anche se nessuno discuterà dei veri problemi della società, per esempio dei 45 mila morti. Il 2012 come obiettivo dichiarato della nazione, anche se sarà stremata. Il 2012 come sogno di potere, di quel potere che annulla l’azione cittadina e che non solo la impedisce, ma che si infastidisce quando questa agisce in modo autonomo.

Per questo la rabbia degli intellettuali organici di López Obrador verso la Carovana. Per questo il tema non merita di essere discusso nel dibattito de La Jornada e della Casa Lamm.

O quelli pensano, al colmo del delirio, che il movimento diretto da Javier Sicilia ed insieme il movimento zapatista saranno le ali dell’aereo supersonico pilotato da López Obrador. Il 2012 fa già le sue prime vittime. Tanto si è sperato, tanto si è sognato su quell’anno. Tanti sospiri e desideri li tengono svegli, l’esistenza di 45 mila morti infastidisce non per la tragedia che rappresenta, ma perché hanno distratto l’attenzione che era necessaria affinché l’elezione dello stato messicano ottenesse l’importanza che dal potere era stata decisa.

La cosa importante non era, secondo loro, che ci fossero 18 mila scomparsi, ma che “Encinas può di più” (anche se è complicato chiarire che cosa si è cercato con questa parola d’ordine. Encinas, di più di che cosa, di più di chi, del popolo dello stato messicano?), che Eruviel, lui sì è nato nello stato del Messico, o che Luis Felipe ha una faccia da spavento, giacché lo hanno mandato in una contesa elettorale per rimanere all’ultimo posto, come per evidenziare ciò che accadrà nel 2012 se quelli del PAN non cambiano strategia.

Migliaia di donne emigranti violentate rappresentano una pietra nelle scarpe di Enrique Peña Nieto, Andrés Manuel López Obrador, Marcelo Ebrard, Ernesto Cordero o Adolfo Lujambio. Bene, il loro fastidio non è che siano violentate ma che, all’improvviso, i e le emigranti acquistino vita e si presentino di fronte all’opinione pubblica e scaglino la loro situazione e la loro realtà come una sfida di fronte alle istituzioni del potere politico messicano.

Il 3 luglio

Ed è arrivato il 3 luglio 2011 e il Partito Rivoluzionario Istituzionale ha avuto un sussulto e dicono che ha vinto. Il suo candidato a governatore, Eruviel Ávila, ha ottenuto il 62 per cento dei voti, molto al di sopra di Alejandro Encinas che ha ottenuto il 21 per cento e di Luis Felipe Bravo Mena, il quale ha solo raggiunto il 12 per cento.

La madre di tutte le elezioni, quella che apriva il 2012, è stata tutta un fracasso. L’astensione è arrivata quasi al 60 per cento se si tiene conto della votazione totale per i partiti. Con questo comportamento dei cittadini che in maggioranza hanno votato non andando alle urne, la realtà è che, prendendo il totale del censimento dello stato del Messico, la votazione per Eruviel Ávila è stata del 27 per cento: governerà con l’appoggio di un quarto dei cittadini. Ma il fatto più significativo è che il voto reale di Encina sia stato del 9 per cento e quello di Bravo Mena del 5 per cento.

Questo sì, il costo della campagna, senza contare i debiti che ciascuno ha fatto, è stato di 3.200 milioni di pesos, che significa che ciascun voto è costato 727 pesos, cifra record in tutta l’America Latina.

I danneggiati da questo risultato sono:

  1. Felipe Calderón, il voto così basso per il PAN indica che i cittadini rendono responsabile il governo federale della violenza che queste persone stanno vivendo, così come dei livelli di miseria che una buona parte della popolazione soffre.
  2. Andrés Manuel López Obrador, il quale ha fatto un’autentica campagna per impedire che fosse effettuata una alleanza con il PAN, per non stabilire un chiaro precedente per il 2012 e, una volta che ha ottenuto il suo obiettivo, ha lasciato completamente solo il suo candidato, una specie di nuovo “juanito”. Ora, chi può mandar giù il fatto giacché il suo movimento (Morena) ha milioni di iscritti? Se non ha ottenuto né un milione di voti nello stato del Messico, e, a Coahuila, il suo candidato González Schmal ha ottenuto l’uno per cento (né lì, né a Nayarit ha appoggiato il candidato del PRD, in cambio ha fatto una campagna per il candidato della coalizione PT-Convergenza), e a Nayarit non ha ottenuto nemmeno l’uno per cento.
  3. Il Partito Azione Nazionale, il quale ha sofferto una caduta a picco. L’unico posto dove ha ottenuto un voto meno ridicolo è stato a Nayarit con una candidata che era senatrice del PRD, che a sua volta l’aveva strappata al PRI.
  4. Tutti questi che “plasmano l’opinione pubblica” che per tre mesi hanno strombazzato che la candidatura di Encinas faceva tremare Peña Nieto. La capacità di analisi di questi intellettuali, una volta di più, evidenzia fino a dove siano caduti. Un’altra volta hanno confuso i loro desideri con la realtà e, certamente, non ci sarà nessuna autocritica.
  5. Il sistema della “democrazia rappresentativa”, che non solo non ha successo nel paese, ma che si allontana ogni volta di più dalle principali preoccupazioni della popolazione. Elezioni così care per risultati tanto scarsi non sono la rappresentazione del non avanzamento del PRI come alcuni credono, ma della crisi del sistema di dominio, dalla quale quelli estraggono la “lotteria della tigre”. È sempre più evidente che i cittadini voltano le spalle ai processi elettorali. Per questo, in questa congiuntura elettorale con votazioni in quattro località importanti (stato del Messico, Nayarit, Coahuila e Hidalgo) l’astensione è stata del 52 per cento.
  6. Tutti quelli pensano che l’unica possibilità di cambiamento del paese sia per via elettorale, senza rendersi conto che questa via è stata sbarrata dagli stessi che giocano a percorrerla. Questa via non esiste come alternativa, la stessa classe politica si è incaricata di minare il terreno.

Oggigiorno, la lotta sta dall’altra parte, nel processo di autorganizzazione sociale, nella costruzione di un percorso comune per coloro che sono differenti, come lo siamo noi.

“La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è forza”. Queste erano le disposizioni del Partito degli Interni nell’allucinante utopia negativa di Orwell, chiamata 1984. Così governa Felipe Calderón. Fa una guerra con il pretesto della pace, dice che lo fa per la libertà ma per questo favorisce la schiavitù e, per ottenere questo, fa in modo che i mezzi di comunicazione favoriscano la disinformazione e l’ignoranza, anche se falliscono nel creare un pretesto (le elezioni) che permetta alle persone di dimenticare la catastrofe che già stanno vivendo.

Alcuni anni fa, chiesero a Karol Modzelewski, dissidente polacco, le ragioni del suo inflessibile impegno, semplicemente rispose: “Per lealtà verso gli sconosciuti”. Così potremmo manifestare il nostro impegno. La guerra che Calderón ha scatenato contro la società messicana ci deve indurre a un argomento simile: lealtà verso gli sconosciuti.

I mezzi di comunicazione: il ministero degli interni (l’arte di governare)

Ma affianco alla classe politica si trovano i mezzi di comunicazione, e indicano l’agenda politica a cui i primi si devono attenere.

La prima cosa è trasformare i “leader delle aziende dei mezzi di comunicazione” e gli “esperti”, ai quali si è unita (tra i quali, sicuramente, il rettore dell’UNAM), in presunti rappresentanti della “Società Civile” (con le maiuscole) messicana, volendo utilizzare così la crisi di rappresentanza tanto dei partiti politici che delle istituzioni in generale ed anche dello stesso Comitato di Uomini d’Affari, per ergersi a protagonisti.

Per questa stessa ragione hanno scelto di mettere direttamente in pratica le loro proposte e l’unica cosa che hanno ricevuto sono stati gli elogi del presunto presidente e di tutta la classe politica, senza nemmeno passare per il Congresso dell’Unione. Basta leggere la lista dei personaggi riuniti da Emilio Azcárraga e da Salinas Pliego in Iniziativa Messico per dimostrare che, nella loro grande maggioranza, sono solo rappresentanti di alcune elite che propongono di mettere in piedi nuove forme di “governabilità” dispotica al servizio di una uscita più neoliberale, se è possibile, dalla crisi attuale. Quest’ultima cosa è più evidente quando, “di fronte allo stato e ai politici”, ci propongono niente meno ciò che è stato il concetto di governabilità elaborato in Europa, per promuovere anche lì la costruzione di una Big Society disposta a dirigere il paese, a decidere su ciò che si dice e come si dice.

La seconda intenzione, che si può intuire dietro a tutto questo parlare oscuro sulla necessità di “impegno per costruire assieme a tutti il Messico”, è la decisione ideologica di presentare una radiografia e una diagnosi del paese e della società nel suo insieme e un “Modello di Stato” nel quale le disuguaglianze sociali, di classe, di genere – e i conseguenti antagonismi e conflitti di interesse, valori e diritti in gioco – siano subordinati in nome del miglioramento del “valore paese”.

Ossia, la gravità della crisi obbligherebbe a un patriottismo dell’informazione. Come sempre, questa ideologia si traveste da critica delle ideologie e delle altre politiche possibili formulando opinioni così demagogiche come quella che sostiene che: “Bisogna ‘deideologizzare’ la Politica”. “Tutti siamo vittime del crimine organizzato e non dello stato e delle sue forze della repressione”. O quella che vince il premio della più stupida fatta da Luis Inacio da Silva, meglio conosciuto come Lula: “Il Messico è più grande di un problema di violenza”. Così viviamo un problema di violenza.

Ah, bene! Bisogna dire questo alle decine di migliaia di vittime, alle centinaia di migliaia di loro familiari e ai milioni di loro conoscenti … ma che non si affliggano, poiché il Messico è più grande di un problema di violenza.

Ma il principale scopo che è necessario rivelare degli argomenti di questa “Società Civile” è che i “cambiamenti urgenti, strutturali e di sistema” sui quali puntano sono tutti quelli che servono per sviluppare una “strategia del paese” – sul piano educativo, scientifico, dell’innovazione, di vincoli produttivi, energetico e della comunicazione “responsabile” – diretta a una “riformulazione urgente del valore paese, tutto questo sempre da un’ottica di obbligatoria competenza globale” (l’esempio di López Obrador e della sua visione di lotta contro il monopolio è in questo senso rivelatore).

Insieme a tutto questo non mancano alcuni ammiccamenti alle preoccupazioni sociali sugli eccessi della guerra e sulla violazione dei diritti umani, questo sì, sempre che siano subordinati al mantenimento della guerra in quanto tale.

L’obiettivo mediatico, come il nuovo Ministero degli Interni, è creare i limiti all’informazione per evitare il generale clima di indignazione crescente.

Disgraziatamente per loro, una mobilitazione è esplosa, una parte delle vittime è stata resa visibili. Dalle catacombe della paura un fantasma percorre il Messico: il fantasma di decine di migliaia di vittime che ora esigono giustizia, ora.

Che il loro grido di dolore ci spinga a lottare per fermare la guerra del piccolo Churchill. Questo è l’imperativo categorico con il quale si deve costruire una mobilitazione contro la guerra e per lottare per le vittime. Allora sì, la memoria otterrà una vendetta sulla storia che con la televisione e con i giornali cercano di inculcarci.

14 settembre 2011

Rivista Rebeldía

Número 78

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da
Sergio Rodríguez Lascano, “El dolor de las víctimas, la indeferencia del poder” traducido para Rivista Rebeldía por S., pubblicato il 14-09-2011 su [http://revistarebeldia.org/revistas/numero78/04dolor.pdf], ultimo accesso 13-10-2011.

 

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