Política & Miseria: il nuovo libro di Raúl Zibechi


Che impatto hanno sui movimenti sociali latinoamericani le politiche sociali dei governi progressisti? Perché la cosiddetta “lotta contro la povertà” occulta il vero problema della regione: la concentrazione della ricchezza? Le ONG sono la forma moderata dell’imperialismo? Chi mette in discussione il modello economico di estrazione delle risorse naturali? In questa intervista pubblica su MU, la rivista di lavaca, Zibechi sintetizza le sue ipotesi ed anticipa le battaglie a venire.

Quattro ipotesi per lanciarsi ad indagare il presente. Raúl Zibechi descrive in questo modo le difficoltà che producono le politiche sociali:

– Dichiarano la povertà come problema e tolgono la ricchezza dal campo visivo.

– Eludono i cambiamenti strutturali, congelano la disuguaglianza e consolidano il potere delle elite.

– Bloccano il conflitto per facilitare l’accumulazione di capitale.

– Dissolvono l’autorganizzazione di quelli abbasso.

Con queste proposte inizia Politica & Miseria, un libro che apre neuroni e dibattiti per indagare un presente che coinvolge movimenti sociali, governi progressisti, modelli economici, ong, dibattiti, concentrazione della ricchezza, lotta alla povertà ed altri enigmi che in Argentina e Sudamerica suscitano la seguente riflessione che Zibechi espone in una chiacchierata da Montevideo con MU: “L’asse dei nuovi tempi è che i movimenti sociali si sono affermati e incominciano ad occupare un posto centrale nelle società. Prima lo stato li reprimeva e criminalizzava. Ma ora li assorbe. Ha necessità di questa alleanza che, così come successe decenni fa al movimento sindacale, oggi avviene ai movimenti sociali. Come se dicessero: ‘Non possiamo più governare senza i movimenti, allora vediamo come controllarli’. E il modo di farlo è con gli appelli ‘politici contro la povertà’ che in realtà, per me, rappresentano un nuovo modo di dominazione”.

Zibechi aggiunge che questo controllo si materializza a partire dalle stesse richieste, idee ed aspirazioni dei movimenti sociali, e paragona: “Se sei un impresario e vuoi guadagnare denaro e la gente vuole indossare magliette del Che, fabbrichi magliette del Che. E se la gente vuole indossare pantaloni rotti per differenziarsi, non lasci che questa gente li compri e li rompa, ma glieli vendi già rotti, e più cari. Il sistema di dominio fa qualcosa di simile al mercato, ora attraverso governi progressisti. Prende i beni produttivi che crea la propria energia sociale”.

Ed un riconoscimento: “In questi discorsi e nelle politiche di questi governi c’è parte di quanto è nostro, parte di ciò che penso, di quello che tutti abbiamo apportato. Non cadrò in quello che fa una certa sinistra, dicendo ‘tutto ciò che sta nel governo mi è estraneo ed è orribile’. Né estraneo né è orribile: io ho a che vedere con questo. E non è facendo il disinteressato che lo comprenderai meglio”.

Né in alto né fuori

Raúl è autore di Genealogia della rivolta (sull’Argentina del 2001) e di Territori in resistenza (la realtà geopolitica delle periferie urbane latinoamericane) tra i vari lavori. Siccome indaga, viaggia, si cala in ogni realtà che vuole conoscere, questo uruguayano tifoso del Nacional ed editorialista su temi internazionali del settimanale Brecha, è il contrario di un opinionista. “Più che giudicare, importante è descrivere tendenze e logiche che permettano di comprendere ciò che sta avvenendo”. Così si colloca in un luogo poco usuale della geometria politica: né “in alto”, né a “destra”, ovvio. Né in quei supposti “centri” che sono soliti essere l’equilibrio del nulla. Nemmeno si colloca “fuori” (quei fuori puri, incontaminati ed utopici), né rigorosamente a “sinistra” (ossidata nel dogmatismo). Da molto tempo il luogo che preferisce è “abbasso”: conoscere, condividere ed apprendere ciò che sono capaci di produrre le società in movimento, le persone e le esperienze che cercano di gestire modi di vita che li allontanano dalla colonizzazione del presente.

Tre gambe

Il libro prospetta una specie di circolarità tra modello estrattivo, piani sociali e governi progressisti …

– L’idea è che le forme di dominio e di governo siano andate cambiando, adattandosi ai nuovi tempi segnati da rivolte come quella del 2001 in Argentina, dei Senza Terra in Brasile, da quanto avvenuto in Bolivia, e da tante altre. Di fronte a queste conseguenze, lo stato cerca di continuare ad essere stato. Questo è il suo obiettivo: essere ciò che controlla ed organizza la società. Allora incomincia a tirar fuori quelle che sono state le linee storiche della Banca Mondiale e dei governi neoliberali, le cosiddette “politiche contro la povertà”, che in realtà sono politiche per rendere docili i poveri ed evitare che diventino pericolosi, organizzati e che si mobilitino. Ai governi progressisti oggi tocca operare in questo scenario.

La domanda che qualcuno si farebbe è: come può essere negativa questa lotta contro la povertà?

– Il mio parere è che ciò che fa lo stato non è lottare contro la povertà, ma congelarla.

Che cos’è lottare contro la povertà?

– Se osserviamo la storia argentina, negli anni 40 il modello funzionava con gente che arrivava nelle città dalle campagne, lavorava nelle costruzioni, poco a poco riusciva a migliorare il proprio lavoro, cresceva l’industria che assorbiva uomini e donne, si produceva un fattore di integrazione, si facevano una casa, i loro figli potevano studiare. Ci furono due generazioni con una permanente ascesa sociale. Con la dittatura, il modello incomincia ad espellere i lavoratori, generando livelli di diseguaglianza sempre più grandi. La gente incomincia a perdere ciò che aveva guadagnato. Perfino le proprie case. E si arriva alla situazione attuale con una spaccatura tra ricchi e poveri inedita in ciascun paese dell’America Latina. Bisogna retrodatare di cento anni addietro per trovare questi livelli di diseguaglianza, ossia al periodo preindustriale. Allora, se si vuole combattere veramente la povertà, bisogna mettere in marcia un modello economico che crei lavoro degno, integrazione sociale, migliori condizioni di salute, di educazione, di vita.

Ma questo si può fare? Una reindustrializzazione?

– No, non è possibile poiché il modello si è convertito in un capitalismo finanziario di rapina. Lì non c’è un margine. È da una parte estrattivismo, dall’altro militarizzazione, con la componente morbida che sono le politiche sociali. Questo espelle la gente dalla campagna, l’abbandona in ghetti di povertà circondati da mura dove non si vede il futuro, ma gli si lanciano alcune briciole e piccoli aiuti per calmarli. Chiaramente non dico che non bisogna afferrare queste briciole. Ma non puoi dire che stai combattendo la povertà quando appoggi un modello che crea disuguaglianza ed una permanente crisi sociale.

Placare

Un esempio?

– Si parla di insicurezza cittadina, delinquenza, ma la base di ciò è la disuguaglianza. La concentrazione di ricchezza e di potere in un polo della società, la concentrazione di disperazione nell’altro polo. E ad anni luce di distanza gli uni dagli altri. Con le politiche contro la povertà, nei quartieri c’è un po’ più di riso, di polenta, di rivestimenti per il tetto. Ma strutturalmente la situazione non va a cambiare.

È una lettura opposta a ciò che appare nei discorsi politici e dei mezzi di comunicazione, dove si parla di riduzione della povertà.

– I governi progressisti esibiscono dati sulla diminuzione della povertà e della disoccupazione che sono indiscutibili, ma non dipendono dalle loro politiche ma dal ciclo economico che viviamo. E non dicono che la disuguaglianza non si è mossa, ed è più grande che prima del 2001. Mi piacerebbe fare incontrare Hugo Chávez (presidente venezuelano) con Alfredo Maffat (psicologo sociale, ispiratore di Cooperanza nell’Ospedale Borda e nel Bancadero). Chávez una volta disse: se vogliamo eliminare la povertà, bisogna dare il potere ai poveri. E Moffat dice che i marginali, i matti, sono quelli che non possono prendere il potere, non parlo di quello statale, ma quelli che non possono né sognare di organizzarsi e creare una situazione differente. Il punto centrale della povertà è il tema del potere. Non come luogo di governo o di dominio: se sei povero è perché ti ho tolto potere, ti ho reso impotente. Per prima cosa sono state chiuse le fabbriche, il luogo dove la gente si faceva forte. Questo avvenne durante la dittatura, che inoltre espulse i poveri affinché non deturpassero la città, e come per evitare un altro 17 ottobre del 45. Per questo, inoltre, la maggior quantità di scomparsi furono operai.

Ed oggi

– Il progetto non è con la forza militare, poiché per via militare non si può più eliminare la presenza dei poveri. Il progetto, e per me il nucleo del riformismo, è placare i poveri. Un’altra cosa è che tra coloro che fanno queste politiche, nei ministeri o nelle ong, ci sia gente interessante, con buone intenzioni, onesta. Non ho il minimo dubbio. Ma il nucleo del tema è questo: evitare che i poveri si ribellino. Le politiche in Argentina e in tutti i paesi della regione sono identiche. Il 19 e 20 dicembre hanno mostrato che i poveri possono creare problemi gravissimi per la continuità del potere statale e dell’accumulazione di capitali, che sono funzionali tra loro. Hanno bloccato i meccanismi della governabilità, e per ripristinarli bisogna fare politiche speciali per placare la gente. E cosa meglio di questi piani sociali che non modificano il modello economico.

Da Menem/Duhalde ad oggi

Nel libro, questo ruolo è anche una parte essenziale di ciò ch fanno molte ong.

– Il ruolo glielo ha dato la Banca Mondiale negli anni 90, con gli Accordi di Washington ed il ridimensionamento degli stati. Le ong appaiono per fare quello che gli stati non fanno più: occuparsi di certi punti nodali, poiché in quel momento la povertà era evidente. Dopo sono passate ad avere un altro ruolo, più legato allo stato. Non è più possibile concepire politiche sociali senza la presenza delle ong, il cui personale ha incominciato ad entrare nei ministeri. Questo avviene con i governi progressisti, ma anche in Colombia dove fanno esattamente lo stesso. La novità in questa fase è che bisogna lavorare con le organizzazioni sociali di ciascun territorio. E se non esistono, bisogna inventarle, perché sono la garanzia affinché la politica sociale possa essere applicata attraverso gruppi e dirigenti dello stesso quartiere, che conoscono le necessità ed i problemi.

Ma questo è ciò che vogliono le stesse organizzazioni: essere assistite, che le diano risorse.

– Sempre meglio! In realtà l’obiettivo della gente, il suo desiderio, è di uscire dalla situazione attuale, di cambiarla. Come farlo? Questa è una discussione aperta tra il mondo popolare, tra le organizzazioni
sociali. Certamente tra Menen o Duhalde, che mandavano la polizia, ed un governo che fa piani come Argentina Lavora o l’Assegno Universale per i Figli – che sono molto meglio dei primi piani come Uomini e Donne Capofamiglia – preferirà quest’ultimo. La situazione è molto meglio. Quando un movimento sociale ha l’opportunità di organizzare centinaia di compagni in cooperative come con Argentina Lavora, non la rifiuterà, e mi sembra bene che le risorse statali possano essere utilizzate per organizzarsi. È un terreno che io chiamo “zone grigi di dominio e resistenza”, dove le cose non sono più bianche o nere. Sulla carta uno può dire: “La politica sociale cerca di controllare i poveri”. Ma la realtà è più complessa. Io posso dire che l’obiettivo dello stato è che la burocrazia sindacale controlli i lavoratori. Ma nell’attività di un sindacato ci sono stati il Cordobazo e  Agustín Tosco. Oggi si può pensare anche che ci siano organizzazioni che fanno parte dei piani, entrano nelle cooperative, ma contendono lo spazio affinché ciò significhi un rafforzamento del lavoro territoriale, non perdono il loro proprio orizzonte di organizzazione. È una contesa tra l’alto e il basso, che determinerà ciò che avverrà in futuro. È un dibattito che tutti sappiamo che si sta facendo, anche tra molti lavoratori sociali, tra gente che sta nel governo e nelle ong, che sono come una cerniera tra lo stato e quelli abbasso, in cui si sentono in disaccordo e sono critici delle politiche sociali.

Queste “cerniere” sono la zona grigia?

– Molte di queste persone fanno al meglio possibile il proprio lavoro, con rigore e impegno verso i quartieri e la loro gente. Dall’interno possono esigere di più dallo stato e, nel frattempo, hanno un lavoro. Tutto ciò che è il miglioramento delle politiche, che siano trasparenti e a favore della gente, non ci danneggerà. Ma non si può pensare che questo sia il lavoro per la liberazione e la giustizia sociale. Che non vengano con favole. Il discorso “nac & pop” non chiarisce che è un modello di monocoltura e di esportazione della soia, devastatore della gente attraverso le miniere a cielo aperto e che approfondisce la diseguaglianza.

Evita e i ricchi

Rispetto a ciò, il libro propone che una tendenza del periodo è mettere a fuoco mediaticamente i poveri, ma non i ricchi.

– Non solo i mezzi di comunicazione. Anche i governi. Torno indietro: prendiamo i discorsi di Eva Perón e vedremo che per tutto il tempo parla dell’oligarchia, dei ricchi. In quell’epoca il primo peronismo, la sinistra ed il nazionalismo mettevano sotto la lente la ignobile concentrazione della ricchezza. Oggi ti dicono che il problema è il giovane ladro che si droga, che ruba il portafoglio ad una signora, la qualcosa è indubbiamente orribile, ma questo è il problema della società? Vengono fatti studi, statistiche, lavori universitari e di multinazionali sul cosa fare con i poveri. Però nessuno indaga i ricchi e quali problemi creano all’insieme della società, come è stato dimostrato negli ultimi anni dalle le crisi economiche, anche delle potenze.

I ricchi sono stati i sostenitori e gli ideologi delle dittature, per esempio, anche se si parla solo dei militari. Ma nell’attuale fase sembrano vecchi casi, riconoscibili per gli scontri con il governo: Ernestina Herrera, Héctor Magnetto, i Rocca della Techint.

– E continuerà, perché credo che stiamo in una fase di transizione tra una vecchia ed una nuova dominazione. Una volta la dominazione era spagnola. Ci furono rivoluzioni 200 anni fa, nuove idee, forme di governo, e si passò ad una egemonia britannica. Un secolo più tardi sorsero anche nuovi partiti, crisi, sinistre, nazionalizzazioni, e si passò ad una dominazione nordamericana. I cambiamenti di dominazione producono questi terremoti. L’ultimo fu nel 2001 e ancora non vediamo molto bene come quello si sta riassestando. Ma gli “spagnoli” di oggi sarebbero i Menem, Techint, Macri, il passato. Il problema è che, essendo una transizione, è un periodo di confusione.

Cosa ci confonde?

– Pensare che ci liberiamo mentre, in realtà, stiamo contribuendo a costruire un nuovo dominio. Dirlo così  è molto terribile, però è ciò che credo: nessuno di noi è libero dall’essere dominatore e dominato. Qualcuno può dire che ha un padrone, il capitale o lo stato che lo controllano, ma può anche avere relazioni di potere con sua moglie, i suoi figli, i suoi pari. Scorgere tutto questo problema aiuta a lavorarci meglio. Questo è il mio obiettivo.

Sono rimasto confuso. Molta sinistra degli anni settanta di fronte alla confusione prospettava “quanto peggio, meglio”: che si vedano chiaramente le forme di dominio, affinché la gente “intenda” la realtà. Ed è stato un massacro.

– È un discorso orribile, che non comprende che, anche se uno critica, con i governi attuali ci sono cambiamenti, situazioni migliori, e altre che sono uguali. Ciò che mi sembra importante, è menzionare che il riformismo non è così progressista in molte cose. Se c’è una lite con il Clarín, è ovvio che appoggio il riformismo. Per questo dico che nelle nuove forme di dominio c’è parte di quello che penso, parte di quanto è nostro. Che è stato ripreso, sfigurato, manipolato, ciò che tu vuoi, ma sono materiali che noi abbiamo apportato.

Un’altra idea: “Il periodo migliore dei governi progressisti è già passato. Perfino Evo sta avendo insurrezioni poiché molta gente si sente ingannata da tematiche come la nazionalizzazione del petrolio e del gas”. Un’altra: “Mai sto dicendo: gli altri sono confusi, io ho le idee chiare. Al contrario, faccio parte della confusione, sono parte del problema. Perfino i concetti che uso non mi piacciono, ma non ne ho altri. La differenza è che mi piacerebbe chiarirmi e chiarirci collettivamente, nell’attività comune e nella resistenza. Ciò che mi pare, è che si vada verso un mondo ed una quotidianità ogni volta più complessa, in cui è in gioco la sopravvivenza di coloro che come tali stanno abbasso”.

La chiacchierata è appena una introduzione. Benvenuti, allora, a Politica & Miseria.

1/06/2011

lavaca

 

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da
Política&Miseria: el nuevo libro de Raúl Zibechitraducido para lavaca por S., pubblicato il 01-06-2011 su [http://lavaca.org/notas/politicamiseria-el-nuevo-libro-de-raul-zibechi/], ultimo accesso 16-08-2011.

 

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