Elezioni in Perù: Intervista a Carlos Rivera, uno dei sei avvocati che il 7 aprile del 2009 ha fatto condannare l’ex presidente Alberto Fujimori a 25 anni di carcere per violazione dei diritti umani.
Perché si parla della “dittatura” di Fujimori?
In primo luogo per l’autocolpo di Stato. Fujimori, con la sua famosa frase “disolver, disolver el Congreso de la República” [“sciogliere, sciogliere il Parlamento”, ndt] chiuse l’ordine costituzionale. Quella stessa notte espulse i membri della Corte Suprema, destituì il procuratore della Nazione, espulse i membri del Tribunale di Garanzia Costituzionale e espulse circa il 20% dei giudici di tutto il Paese, soprattutto a Lima. In una settimana, oltre ad intervenire sui mezzi di comunicazione, già aveva sostituito tutti i giudici con persone che già sapeva sarebbero stati a favore del regime. Già nel ’92 era in corso un piano ci corruzione sistematica, di appropriazione dei fondi pubblici per acquistare mezzi di comunicazione, giudici, procuratori, e per nascondere non solo il fatto di aver rotto con l’ordine costituzionale ma i crimini che già stavano venendo commessi da prima del colpo di Stato.
La settimana scorsa il giornalista Gustavo Gorriti rivelò un fatto fondamentale: come Fujimori fa il suo primo milione. Alberto Fujimori, recentemente eletto, va in Giappone per chiedere donazioni per aprire scuole in Perù e tutto attraverso suoi conti personali. La corruzione non inizia nel ’92, come è stato sostenuto, Fujimori arriva con un piano criminale nel ’90. Nel processo è stato mostrato chiaramente come Fujimori distribuì gli incarichi pensando a come avrebbe organizzato una sorta di organizzazione illecita all’interno dello Stato.
Si può dire che la corruzione era la finalità e non l’effetto secondario?
Si, credo di sì. La corruzione comincia nel momento in cui Fujimori vince il suo secondo mandato e traccia un piano criminale con Valdimiro Montesinos e passa ad realizzarlo. Questo piano criminale è eseguito su due basi: una è la promozione di Montesinos, che con il passare del tempo diviene decisiva nella conduzione dello Stato, non soltanto nelle Forze Armate. La seconda base è la famiglia di Fujimori, dai fratelli, le sorelle ai cognati, tutti sono parte di una sorte di rete abbastanza ben organizzata destinata a sottrarre in maniera sistematica le risorse dello Stato.
C’è una stima di quanto fu rubato?
La procura un anno e mezzo fa ha fatto lo sforzo di estimare quanto venne sottratto allo Stato e parla di circa sei milioni di dollari. Qui il salario minimo è di 550 soles, corrispondenti a circa 200 dollari. Questa è la ricerca fatta dalla procura ma c’è la ricerca di Alfonso Quiroz che ha appena pubblicato un libro a New York che si chiama “Circoli Corrotti”. La sua stima è il doppio di quella della procura. Secondo Fujimori una parte fondamentale del suo programma era la modernizzazione dello Stato, che in fin dei conti fu la riduzione dello Stato con la privatizzazione delle imprese pubbliche. Venivamo dalla disastrosa gestione del Governo di García dell’amministrazione dello Stato, in teoria tutte le imprese erano in rosso e bisognava venderle perché lo Stato era un pachiderma che non serviva a nulla. Questo in parte era vero, ma è anche vero che c’erano alcune imprese pubbliche che non stavano in rosso eppure vennero vendute. Un esempio è la vendita di Aero Perù, la linea di bandiera peruviana. Ancora oggi si continua a indagare se venne venduta al prezzo reale. Quanto denaro portò questo processo di vendita delle imprese pubbliche? Tra i 12 e i 15 miliardi di dollari. Questo denari fresco che arrivò nelle casse dello Stato peruviano consentì la politica assistenzialista che oggi garantisce il 20% di appoggio incondizionato a Keiko Fujimori.
“Il ritorno dei morti viventi”
Keiko si presenta con una squadra di Governo simile a quella di suoi padre.
Più che simile, io direi la stessa squadra di Governo di suo padre. Loro dicono che è un nuovo fujimorismo, ma in realtà è una sorta di ritorno dei morti viventi. Tutta lo stato maggiore del fujimorismo, i golpisti del ’92, sono loro ad essere tornati. Uno dei più importanti è Jaime Yoshiyama. È vero che ebbe problemi con Montesinos, ma fu un uomo chiave del colpo di Stato e nella consolidazione del golpe negli anni successivi. Le principali difensore di Fujimori in materia di crimini contro i diritti umani, Martha Chávez, Luz Salgado y Carmen Lozada, sono tornate e due di loro sono nuovamente parlamentari. Anche il pubblicista principale di Fujimori, Edgardo Daniel Borobio, è quello che stà facendo la campagna elettorale a Keiko. La figlia di Fujimori iniziò la campagna dicendo che si prendeva le distanze da suo padre, che era diversa, che non avrebbe ostacolato la giustizia… Ma nell’ultima settimana ci sono almeno tre eventi pubblici nei quali applaude il padre e dice che è stato il miglior Governo della storia. C’è un ritorno, con molta forza, agli anni Novanta. Si considera buono tutto ciò che fu fatto e non c’è nessuna autocritica. È la maggior evidenza che chi conduce tutto questo è nuovamente Alberto Fujimori.
Che conseguenze avrà l’elezione di Keiko per i processi sui diritti umani?
Sarà un disastro. Ciò che non smette di stupirci è che questo non accade dopo 50 anni, ma dieci… Tutto è ancora molto recente. Così recente che il 15 aprile passato è stato consegnato alla giustizia Juan Carlos Hurtado Miller, l’ex primo ministro di Fujimori, dopo aver passato dieci anni profugo. E ci sono molti processi ancora da concludere. Fujimori conclude ora il secondo anni della sua sentenza principale. Tutto è abbastanza fresco nella memoria, ma credo che, disgraziatamente, non di tutti i peruviani. Credo che il fujimorismo arriva con un programma contro i diritti umani. Non c’è un’autocritica nel fujimoriamo ne in Keiko, che continua a difendere il padre dicendo che è innocente. Rafael Rey, la persona che provò dal Governo aprista a liquidare tutti i casi di violazioni dei diritti umani, si presente come vicepresidente. Se qualcuno vuole sapere quale va ad essere la politica sui diritti umani di Keiko semplicemente deve controllare il curriculum dei membri della squadra presidenziale o dei principali portavoce del fujimorismo.
La storica lotta per i diritti umani
Come nasce la lotta per i diritti umani in Perù?
La storia dell’Istituto di Difesa Legale è stata legata dai suoi inizi al processo di violazione dei diritti umani in Perù e allo stesso conflitto armato degli anni Ottanta e Novanta. Il conflitto interno ha attraversato vari momenti. Una prima fase è l’inizio del processo di violenza, tra 1982 e 1983, nella quale molto pochi capivano il fenomeno con cui stava confrontandosi il Perù. Questo discorso, un poco messianico, di Sendero Luminoso; la reazione ugualmente violenta e disinformata da parte delle Forze Armate… In quegli anni s’inizia un processo di militarizzazione della zona centrale e meridionale, di Ayacucho, Huancavelica, Junín, che apre un processo incontrollato di violazioni di massa ai diritti umani. Negli anni 1984 e 1985 si hanno i primi casi di sparizione forzata, inizialmente pochi poi in maniera massiccia. E da lì il salto qualitativo e quantitativo verso una massificazione della violenza con il primo governo di Alan García [1985-1990]. Quel momento coincide con la consolidazione delle organizzazioni dei diritti umani come gruppi essenzialmente di denuncia. Appare il IDL, la Asociación Pro Derechos Humanos (Aprodeh) e comincia a formarsi quello che oggi è il Coordinamento dei Diritti Umani. Nonostante che già in quel momento c’è l’accusa alle Ong di essere una facciata della sovversione, c’è un posizionamento radicale su questo, con una condanna ferma tanta di Sendero Luminoso che del MRTA. È questo cge segna l’atteggiamento delle organizzazioni dei diritti umani in questo momento. Ci fù ogni forma di persecuzione. In quel momento si definivano le organizzazioni dei diritti umani come il braccio legale della sovversione e tutto ciò che suonava come una critica, una denuncia o un’esigenza di cambiamento della strategia controsovversiva di terra bruciata era assunto come parte del discorso della sovversione.
Che succede con il primo Governo di Alan García?
Con Alan García c’è un consolidamento del fenomeno sovversivo, non come un fenomeno di “abigeos” [briganti], come li definì Fernando Belaúnde all’inizio del suo secondo Governo, ma come un fenomeno di carattere nazionale. Sendero ottiene i suoi principali successi politici e militari alla fine del Governo di Belaúnde e soprattutto con il Governo di Alan García. Da una parte, consolida la sua presenza in altre zone del paese, nel centro e nell’est del paese. Dalla dine del Governo di Alan García, Sendero arriva a Lima, diventata l’asse della guerra. Negli anni ’88, ’89 e ’90 il capo di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán, incomincia a parlare di equilibrio strategico, una cosa che spaventò molto. Guzmán lo presentò come un successo, una vittoria politica di Sendero e il fatto di essere uscito dalla foresta per raggiungere altri territori, ma il realtà con il passare degli anni ci si rende conto, come segnala la Commissione di Verità e Riconciliazione, che si trattativa del prodotto della sconfitta politica di Sendero davanti alle rondas campesinas [gruppi paramilitari anti-guerriglieri].
Come cambia questa struttura repressiva con il Governo di Alberto Fujimori?
Fujimori è un’altra fase, dal punto di vista militare, politico e dell’intelligence. Le Forze Armate ci mettono dieci anni per capire il fenomeno sovversivo e quindi creare la loro strategia. C’è un famoso manuale controsovversivo del ’89 che è la definizione del pensiero, la dottrina e la proposta dell’Esercito per affrontare la sovversione. Fujimori adotta questa strategia, la guida e gli inserisce elementi politici. E aggiunge l’apparato di intelligence come nucleo centrale di tutta la strategia. Fujimori apre una fase totalmente differente. Sebbene sia vero che in termini statistici c’è una diminuzione delle violazioni dei diritti umani, non è per una negazione della strategia anteriore, ma perché si produce una sorta di perfezionamento nell’identificazione del nemico, che è l’asse centrale della strategia in questo momento. Non è una strategia per sconfiggerlo moralmente, come dicevano alcuni, ma che vuole identificare i canali di informazione, i quadri organici e i dirigenti per eliminarli. E quando parlo di eliminazione parlo di eliminazione sommaria, dell’utilizzazione del metodo della sparizione forzata, dell’esecuzione estragiudiziaria, questi sono i metodi. Qui non c’è eufemismo che tenga. Eliminare è eliminare una persona fisicamente, toglierla dalla faccia della terra. Questa è la strategia di Fujimori.
I gruppi paramilitari già erano esistiti con Alan García?
Non al livello del gruppo Colina. Con Alan García nasce un gruppo paramilitare, il Rodrigo Franco. Ma il gruppo Colina nella fase di Fujimori non è un gruppo paramilitare, ma un distaccamento dell’Esercito, che risponde in maniera organica alle decisioni politiche e militari della nuova strategia controsovversiva. Qui c’è un cambiamento sostanziale. La nuova strategia si differenzia chiaramente dalla precedente su vari punti. Uno è il ruolo che lo stesso Fujimori ricopre, la famosa frase – “In verità io sono un comandante” – che venne ascoltata in un processo è un dato rivelatore di quale era la posizione che Fujimori voleva occupare rispetto a Belaúnde.
Uccidere non è gratis
Come si inizia a smontare l’apparato di impunità che impediva di giudicare i crimini?
Nel 2000 la Corte Interamericana dei Diritti Umani emette una sentenza sul caso del massacro di Barrios Altos [nel 1991 il gruppo Colina entra ad una festa e assassina 15 civili], che provoca la ripresa delle indagini. Il caso non era solamente chiuso dalla giustizia militare ma era protetto dalla famosa legge di amnistia. Aveva tutti i blocchi possibili. Fu un successo molto importante. È la sentenza della Corte che ordina allo Stato peruviano di aprire un’indagine sul caso [e dichiara che la legge d’amnistia “era carente di effetti giuridici”]. Lo Stato peruviano non ebbe altra possibilità che aprire un’indagine come conseguenza del mandato interamericano. Risultava il primo caso aperto per mandato di un’istanza sovranazionale.
Tra 2001 e 2003, la Comisión de la Verdad y Reparación svolse un compito primariamente importante e trascendente, uno spartiacque sul tema dei diritti umani in Perù. La Commissione diventò il principale propulsore della ricerca di verità e giustizia nel paese. Noi in quell’epoca pensavamo che un paese con le complessità del Perù era difficile che la giustizia avanzasse. Ma ora che è possibile fare un bilancio, questo tema, il più difficile, più conflittuale e più critico, è quello che più è avanzato. Nei tre o quattro anni successivi si dà un forte impulso al processo di judicialización, nel 2004 si crea il sottosistema penale dei diritti umani – raccomandato dalla Commissione sulla Verità – e vengono iniziate molte cause considerando acquisite le relazioni della Commissione. Tra il 2005 e il 2007 si riesce a consolidare una sorta di giurisprudenza a favore dei diritti umani. Si emettono molteplici risoluzioni sul tema della proibizione delle amnistie. Oltre alla sentenza della Corte Penale Interamericana si parla della imprescrittibilità dei crimini di lesa umanità, si parla di inesistenza di giudizio in quei casi che erano stati trattati dalla giustizia militare, si nega la competenza della giustizia militare su questi temi e si produce una incorporazione massiccia del diritto internazionale alla giurisprudenza peruviana… Dal 2006 al 2007 possiamo dire di aver consolidato il processo di judicialización.
Quali sentenze sono state le più importanti?
Esistono due sentenze che segnano un precedente e che serviranno più avanti: il caso Castillo Paez, che è il caso di uno studente fatto sparire nell’ottobre 1990 e il caso Chuschi, con la sparizione della autorità civili e comunali in questa località di Ayacucho [entrambi da parte dell’Esercito]. Nella sentenza di Castillo Paez, marzo 2006, c’è una dichiarazione sulla natura giuridica del crimine di sparizione forzata, cosa mai successa prima in Perù, per una questione molto concreta, mai era stato giudicato un caso di sparizione forzata. La sentenza segnava un precedente: si afferma che la sparizione forzata è un crimine di carattere permanente quando la colpevolezza è dimostrata attraverso una prova indiziaria, cosa che mai è stata fatta in Perù in materia di diritti umani. E quella del caso Chuschi è la sentenza che in maniera più chiara dice che in Perù ci fu una violazione sistematica dei diritti umani e che crimini come quello di Chuschi sono crimini contro l’umanità.
Tuttavia in quel momento c’è un elemento che inizia a giocare un ruolo fondamentale, quello della politica. Alejandro Toledo finisce il suo Governo nel 2006 con una critica per niente sottile al processo ai crimini contro i diritti umani. Arriva Alan García e questo discorso poco sottile diventa una politica di Stato. È innegabile che Alan García arriva al Governo con un’agenda politica che aveva come uno dei suoi principali aspetti quello di combattere il processo di judicialización. Lui ne veniva coinvolto direttamente e coinvolgeva il suo vicepresidente, Luis Giampetri. A quei tempi vennero chiamati la “squadra del Frontón” perché entrambi vi erano implicati [nel massacro avvenuto in quel carcere nel 1986]. García s’insedia il 28 luglio 2006 e la prima settimana di settembre detta un decreto concedendo difesa legale agli autori di violazioni dei diritti umani, una cosa un poco strana e pagata dal Ministero della Difesa. E a partire da quel momento si sviluppa un scontro che ha come obiettivo indebolire i giudici e i procuratori. E ci riescono. C’è un cambiamento nella quantità delle persone processate e nella quantità di quelle condannate o assolte. L’anno passato abbiamo fatto una statistica sulle persone processate e poi giudicate e abbiamo raggiunto una conclusione che ci ha scandalizzato: alla fine dell’anno passato c’è stato un 85% di assoluzioni. Ma ciò che più ci ha scandalizzato è che c’è stato un cambiamento nella giurisprudenza e che questo cambiamento è dovuto al dibattito politico. Tu puoi dire che abbiamo perduto i processi perché la difesa fu sostanzialmente migliore, ma non è stato così, perché abbiamo preso parte a molti processi e perché il contenuto delle risoluzioni mostra che ci sono state una serie di arbitrarietà, abbiamo fatto una lista di circa venti motivi per i quali un giudice di diritti umani non può firmare una sentenza così.
Un esempio è stato il caso Parrco e Pomatambo nel quale si chiede alla procura o alla parte civile di dimostrare il crimine con un documento, cosa che in nessuna parte del mondo si può riuscire a fare, arrivando ad adottare la posizione politica dei militari. Nella sentenza di novembre dell’anno passato su questo caso ma si dice che il crimine di 12 persone arrestate, condotte in un luogo determinato, torturate, assassinate e squartate è semplicemente l’eccesso del capo della pattuglia. Questo è adottare il discorso più politico dei militari. Questi prima lo negano, però quando c’è un’evidenza dei crimini, dicono che è un eccesso del militare che l’ha compiuti.
Alberto Fujimori in carcere
Che ripercussioni ha avuto la sentenza di Fujimori nel 2009?
La maggior ripercussione l’ha prodotta fuori dal Perù. Abbiamo avuto notizia che ci sono molti tribunali, soprattutto in Colombia e in altri paesi americani, che stanno iniziando a utilizzare la sentenza. Ma nel caso peruviano il Tribunale dei Diritti Umani non ha mai menzionato la sentenza, nonostante da quando Fujimori è stato condannato siano già state emesse una mezza dozzina di risoluzioni, su diversi casi. C’è un processo molto pericoloso tra i giudici del sistema penale dei diritti umani al quale non trovo altra spiegazione che non sia politica. Tra le prime sentenze e le attuali continuano ad esserci più o meno gli stessi giudici e ora cominciano ad esserci sentenze nelle quali un giudice che anni prima aveva emesso una determinata sentenza, ultimamente ne emette solo di contrastanti con ciò che lui stesso aveva scritto.
La sentenza del caso Fujimori ha detto che in questo tipo di crimini non era possibile chiedere prove scritte e documenti che diano conto degli ordini criminali. Nella sentenza di dice che normalmente in questi piani gli ordini sono verbali o clandestini. Ci sono tre sentenze recenti nelle quali si dice alla procura e alla parte civile che non hanno dimostrato niente perché non c’è parte documentaria. Ti dice che la testimonianza dei familiari della vittima non è affidabile perché hanno un interesse nel risultato del processo. Ascolta, non è così in Bosnia, in Ruanda o in qualsiasi altra parte del mondo? Il familiare è colui che ha interesse. Perché non lo possono considerare come testimone valido? Il terzo elemento dice che il generale dell’Esercito non può essere giudicato con una condanna perché non si è dimostrato che abbia emesso un ordine scritto o perché non stava sul luogo dei fatti. E da quando il comando militare deve stare con il soldato ad emettere l’ordine? In realtà c’è una giurisprudenza che ha sta cercando di smontare quella che stabilì il caso Fujimori e che ci preoccupa perché già confina con la mancanza di passività o di imparzialità.
Nonostante tutto è un fatto storico per gli organismi dei diritti umani…
È un fatto storico della giustizia peruviana. Ci sarebbe piaciuto se la sentenza di Fujimori avesse marcato uno spartiacque nel giudiziario e nel politico. La conclusione che si può ricavare è che il giudiziario non ha lasciato questo segno. L’unica sentenza nella quale viene menzionata è quella emessa l’anno scorso nel caso di La Cantuta. Sul lato della politica, sua figlia è andata al secondo turno e potrebbe essere la prossima presidente della Repubblica.
Credi che i processi hanno aiutato a cambiare la coscienza dei peruviani?
Sono sicuro che hanno aiutato moltissime persone, non solo il dato che Fujimori è stato condannato, ma che c’è stato un elemento del quale Fujimori non aveva tenuto conto ossia il fatto che il processo sarebbe stato trasmesso in televisione, cosa che pesò molto sul cambiamento dell’opinione pubblica. E ti capita di incontrarti ancora oggi con tassisti che ti riconoscono e si congratulano. Ci sono molti che mi hanno detto che non si perdevano nemmeno un’audienza del processo, che tornavano a casa per vederlo. Questo ti dà una soddisfazione immensa perché abbiamo fatto pedagogia senza che nessuno se lo fosse proposto.
Che aneddoti ricordi del processo?
Il primo è che decidemmo tra noi avvocati di non salutare Fujimori. Quando venimmo a sapere che sarebbe stato un processo trasmesso in televisione ci rendemmo conto della dimensione del caso. Primo che devi prepararti come mai ti sei preparato in vita tua e inoltre è un processo nel quale non soltanto ciò che dici è importante, ma anche i gesti che fai. Il fatto di non salutarlo in nessuna delle 161 occasioni fu importante. Lui insisté fino alla terza o quarta occasione e da lì intese che c’era una distanza che il saluto non avrebbe rotto. Il fatto simbolico che nella sala principale delle udienze c’erano due colonne: i familiari e le Ong da una parte e dall’altro, separati, i parlamentari di Fujimori, la sua famiglia, i politici amici… Era qualcosa difficile da eliminare perché evidentemente su questo tema non c’era possibilità di riconciliazione-
Un altra cosa che segno il processo fu l’arrivo del procuratore Avelino Guillén, che non era previsto. All’inizio il procuratore doveva essere José Antonio Pelaes. Ma poi c’è la sostituzione, che obbedisce alla decisione politica del Ministero Pubblico, con il procuratore Guillén. Questo fu un cambiamento sostanziale: cominciando a interrogarlo Pelaez lo chiamò “presidente Fujimori”. La prima cosa che gli dice il procuratore Guillén è “accusato, si sieda bene, lei si trova in una sala di tribunale”. Lui era seduto normale, sentiva che il grido “Io sono innocente!” che aveva lanciato nella prima audienza aveva stordito i giudici. E il procuratore rimette le cose a posto nel mezzo del processo. Nella faccia che fa Fujimori quando gli dice così si vede che si rende conto per la prima volta che si trova in un processo.
Sapeva che il giudizio sarebbe stato di condanna?
Centianai di giornalisti ce lo chiedevano e dicevamo di sì, perché la prove che possedevamo dicevano che era lui il responsabile. Ma, come in tutti i processi, la sentenza si conosce alla fine. Alla fine eravamo molto più convinti che sarebbe stata di condanna, perché avevamo visto un processo nel quale era evidente che avevamo sconfitto la difesa. Lo stesso avvocato di Fujimori César Nakasaki, diceva: “Voi pensate di starmi facendo una goleada, ma io credo che state solo vincendo per 3-2”. Io credo che la difesa fu schiacciata sul piano più giuridico. Nessuno degli argomenti di Nakasaki venne raccolto, nonostante sia un tipo abile.
Oltre al caso Fujimori avete portato in tribunale anche il caso del massacro del carcere del Frontón [dove più di cento senderistas furono fucilati dopo una protesta nel 1986]
Sul caso del Frontón si è raggiunto un successo molto importante. Abbiamo portato avanti questo caso dal ’87. Abbiamo sperimentato tutto ciò che si può sperimentare in termini di meccanismi di impunità: giudizi militari, giudizi segreti, mancanza di informazione, leggi di amnistia, ingerenza politica, sentenze irregolari… tutto quello che uno si può immaginare è successo nel caso del Frontón. Nonostante tutto ciò nel 2005 si riesce ad aprire il processo. È vero che è solo contro gli autori materiali e non contro coloro che diedero gli ordini. Alla fine Alan García, Luis Giampietri y Agustín Mantilla, che sono i principali responsabili, e i comandi militari ci sono solamente come testimoni. Il processo continua ad essere aperto, in fase di istruttoria, la prima fase del processo penale peruviano. La strategia dell’avvocato Carlos Taipa, candidato quest’anno al Congresso con il fujimorismo e espulso dalla lista perché aveva un passato mezzo fascistoide, fu ostruire e ostacolare il processo. Dal mio punto di vista fu un errore, perché se il processo del Frontón fosse arrivato a sentenza con il Governo del presidente García, ora in scadenza di mandato, è probabile che una sentenza assolutoria non avrebbe stonato con le sentenze che stanno uscendo in questo periodo, ossia assoluzioni. Credo che così la difesa sia finita per fregarsi da sola, perché ora il processo si farà con il nuovo Governo, che sia quello di Fujimori o quello di Humala, non saà comunque quello di García. Questo caso, dopo quello di Fujimori, è quello dove più è intervenuta la politica.
Quali altri successi ha ottenuto la lotta contro l’impunità in questi ultimi anni?
Credo che in questo contesto il fatto che ci siano 70 casi aperti per violazione dei diritti umani sia notevole, soprattutto perché molti di essi indicano la forma sistematica attraverso la quale si commettevano questi crimini. Il caso dei desaparecidos dell’Università del Centro, un caso molto importante che fa rendere conto del tipo di crimini commessi tra 1990 e 1993, dimostra che nonostante ci siano stati quattro capi militari tutti conducevano la stessa politica, cosa che conferma che ci fù una direzione superiore e dello Stato. E non ci si dimentichi dei crimini del distaccamento Colina. Sui casi di Barrios Altos e di La Cantuta, diretti da questo gruppo, ci furono condanne l’anno scorso e nel 2008. È vero che ci hanno messo tanto ad arrivare al giudizio, ma sono fatti notevoli.
Un altro caso sommamente importante sono i crimini sessuali nelle basi di Malta e Vilca in Huancavelica e il caso di una giovane universitaria con cognome Montesa. I due casi stanno venendo affrontati da noi e hanno avuto le loro difficoltà. Come si dimostra un crimine di violenza sessuale compiuto 20 o 25 anni fa? C’è molta dottrina sul fatto che sia un crimine contro l’umanità, ma l’aspetto probatorio è quello più importante. Ci ha costato tra i sei e i sette anni ottenere l’apertura del processo. Nel caso di Malta e Vilca, dove circa 30 donne furono violentate in un periodo di dieci anni, la Commissione sulla Verità dice che è possibile identificare un modello generalizzato dello stupro come metodo di tortura. Nel 2009 si apre il caso Malta e Vilca e un mese fa è stata ottenuta l’apertura del processo sul caso dell’universitaria Montesa. In ambi i casi si è ottenuto che si qualificassero i delitti come crimini contro l’umanità. Oltre questo successo sul piano giuridico non sapevamo che il caso di Malta e Vilca è il primo caso nella regione nel quale un sistema di giustizia nazionale sottomette alla giustizia un crimine di violenza sessuale e lo identifica come crimine di lesa umanità. Supponiamo che in Guatemala e Colombia, dove è stato usato come metodo, esisteranno casi simili. Fu un ingrata sorpresa quando ci mettemmo a cercare giurisprudenza e scoprimmo che non vi era nessun caso. Per questo Malta e Vilca diventano il primo caso nella regione. Questo è un successo notevole, perché non soltanto è una forma di riparare le vittime ma è diventato un contributo in Perù e in America.
* Articolo pubblicato originariamente dal giornale Diagonal
Tradotto dal Comitato Carlos Fonseca da |
Emma Gascó e Martín Cúneo,“Una victoria de Keiko sería un desastre para los derechos humanos”, pubblicato il 02-06-2011 su [http://www.prensadefrente.org/pdfb2/index.php/a/2011/06/02/p6493], ultimo accesso 03-06-2011. |