La difficile unità delle forze antisistema


Raúl Zibechi

Se le forze che cercano di cambiare il mondo optano per un percorso statale, questa logica impone di sostenere lo Stato di cui si sono fatte carico e, di conseguenza, debbono accettare lo sviluppo e ampliarlo.

Ora che a medio termine il sistema attraversa serie difficoltà di sopravvivenza, l’atteggiamento delle forze antisistema incomincia a giocare un ruolo decisivo. Molto prima di pensare ad una qualche forma di unità o di coordinamento stabile, bisogna constatare che coesiste nell’universo di coloro che sono per i cambiamenti di fondo una gamma di differenze che rende difficile una minima visione comune dei fatti.

Un buon esempio è l’atteggiamento verso la rivolta araba e, soprattutto, il caso della Libia. Ci sono ampi settori antisistema – o che dicono di esserlo – che simpatizzano per Gheddafi, osservano la rivolta contro di lui come una manovra occidentale e non danno grande importanza al massacro che il regime sta facendo contro il proprio popolo. Una parte di questo settore, e non mi riferisco solo ad alcuni governanti, ha seguito con simpatia le rivolte trionfanti a Tunisi ed in Egitto, ma non così quelle in quei paesi i cui governi hanno un qualche grado di scontro con gli Stati Uniti. Una ipotetica rivolta popolare in Iran, o in Cina, per esempio, non sarebbe seguita da ampi settori che si entusiasmano per simili rivolte in altri paesi.

Questa è solo una delle molteplici contraddizioni che attraversano il campo anti imperial-capitalista. Tutto indica che nella misura in cui la crisi vada ad aggravarsi e le contraddizioni si facciano più virulente e complesse, le differenze diventeranno maggiori. Senza pretendere di esaurire l’argomento ma solo di aprire un dibattito, sembra necessario affrontare quattro aspetti sui quali oggi si manifestano profonde differenze.

Il primo è l’atteggiamento verso lo Stato. All’interno di coloro che sono antistema ci sono per lo meno due posizioni contrapposte: diventare Stato o rifiutare questo percorso per costruire qualcosa di differente. Sembra evidente che la maggior parte dei movimenti sono a favore della prima opzione, per la quale lavorano in modo significativo sia attraverso la via elettorale sia per la insurrezionale o, più frequentemente, combinando le due. Nella misura in cui si acuisce la decomposizione del sistema, sembra crescere l’opposizione interna ai governi progressisti e a quelli allineati al socialismo del XXI secolo, la qual cosa tende a riaprire un dibattito che gli zapatisti ed alcuni intellettuali hanno iniziato nel decennio del 1990.

I problemi che presenta questo percorso sono evidenti e in questa congiuntura si fanno ancor più chiari. Il rischio di legittimare l’ordine mondiale e di usare l’apparato statale per quello che è stato realmente creato: controllare e reprimere quelli che stanno abbasso.

La seconda questione è stata prospettata le scorse settimane da Immanuel Wallerstein nell’evidenziare le differenze tra coloro che optano per lo sviluppo e la modernità e coloro che rivendicano un cambiamento di civiltà, soprattutto i movimenti indigeni che fanno appello al vivere bene (buen vivir). È certo che questo è un tema cruciale dal quale dipende il modo con il quale si va a risolvere la crisi sistemica, ma in assoluto non è separato dalla prima opzione.

Se le forze che cercano di cambiare il mondo optano per il percorso statale, questa logica impone di sostenere lo Stato di cui si sono fatte carico e, di conseguenza, debbono accettare lo sviluppo e ampliarlo. È ciò che stanno facendo i governi sudamericani attraverso l’estrattivisvmo. Gli stati hanno necessità di risorse urgenti e ingenti che possono procurarsi solo cedendo all’accumulazione territori attraverso la perdita del loro possesso, che inevitabilmente si scontra con la resistenza dei popoli indigeni, dei contadini e dei cittadini poveri.

In teoria si può argomentare che a partire dallo Stato ci siano altre vie. Però i fatti dicono il contrario. Il risultato è una crescente polarizzazione sociale e politica, concernente l’estrattivismo, che fa sì che lo Stato sia sempre più Stato e le opposizioni sempre più risolute. Al contrario, coloro che rifiutano il percorso statale si sono messi a costruire forme di potere di alternanza, territoriali o no, che non fanno più riferimento al gruppo degli stati-nazione.

Il terzo problema riguarda anche queste opzioni. Le forze antisistema appartengono a due grandi famiglie culturali: quelle che fanno riferimento alla forma-Stato, come i partiti, e quelle che stabiliscono la propria forza nelle diverse forme che assumono le comunità. Queste possono essere le tradizionali comunità indigene rinnovate e democratizzate, o anche comunità urbane e contadine, ma sempre riflettono altre forme di costruzione.

Nella coordinazione tra queste forze, per quanto flessibile ed orizzontale sia, la cultura della rappresentanza e quella della democrazia diretta sogliono scontrarsi e le intese non sono semplici. Però tendono ad essere le organizzazioni statocentriche – dai partiti e le grandi centrali sindacali fino alle ONG – quelle che finiscono per appropriarsi degli spazi comuni, monopolizzando la parola e trasformandosi in rappresentanti della diversità che, per quanto ci rincresca, rimane emarginata.

Non nego che su questo terreno si sia avanzato abbastanza, che si sia riusciti a costruire spazi collettivi dove il rispetto della parola e dell’identità degli altri sia incomparabilmente maggiore che una volta. Nonostante ciò, siamo di fronte ad una difficoltà che deve essere dibattuta e non occultata.

Al quarto posto, c’è la questione dell’etica. È possibile rendere compatibili Stato ed etica? Per essere più precisi: come si può indurre l’etica ad un tipo di relazione, come quella statale, che separa rigorosamente mezzi e fini? Lo Stato è una relazione strumentale, razionale, verticale, uno strumento adeguato a dirigere comandando che non può dirigere obbedendo poiché imploderebbe, a meno che il suo stesso modo di agire non venga impedito con la forza.

In questi momenti, che stiamo vivendo, così carichi di speranza, farsi carico con serenità di questi dibattiti  presuppone accettare i limiti di ambedue le strategie. Coloro di noi che pensano ad un percorso non statale sanno che non siamo in condizioni, per il momento, di andare più in là di esperienze locali e regionali. Gli uni e gli altri abbiamo bisogno e possiamo stare insieme, a condizione di porre l’onestà e l’etica alla guida del potere.

27.4.2011

lafogata.org

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da
Raúl Zibechi, “La difícil unidad de las fuerzas antisistémicas” traducido para lafogata por S., pubblicato il 27-04-2011 su [http://www.lafogata.org/zibechi/zibe.26.1.htm], ultimo accesso 17-05-2011.

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