La guerra, l’affare che ci uccide


Víctor Flores Olea

La più acuta, veritiera e rivelatrice, delle analisi pubblicate sullo stato di guerra che predomina in Messico, è quella del subcomandante Marcos, sulla La Jornada del 16 febbraio 2011, scritta sotto forma di un riverente riconoscimento dei valori intellettuali e morali di Luis Villoro, che confermano anche la forza intellettuale e morale del Subcomandante Insurgente. Onore a chi merita onore, che in questo caso lo è doppiamente.

L’asse della riflessione di Marcos: come sempre la guerra è in primo luogo una questione di affari. Ci riporta alla memoria, tra gli altri, “Gli affari del signor Giulio Cesare, l’opera teatrale di Bertold Brecht. Con le sue sinistre e a volte ridicole conseguenze: per esempio, le bugie e le falsità inevitabili, l’abissale illegittimità, se ancora ce ne fosse bisogno, in cui è sprofondato Felipe Calderón. Affari con il sangue di molti messicani, la immensa maggioranza dei quali, 35 mila morti, non ha nulla a che vedere, né direttamente né indirettamente, con il “crimine organizzato”. Allora perché queste decine di migliaia di “danni collaterali”?

Come dice bene Marcos: “Questa guerra, da quando è stata concepita, non ha fine ed è anche persa. Non ci sarà un vincitore messicano su queste terre (il Potere straniero, a differenza del governo, ha un piano per ricostruire–riordinare il territorio), e sconfitto sarà l’ultimo cantone dell’agonizzante Stato Nazionale del Messico: le relazioni sociali che, dando una identità comune, sono la base di una Nazione”. Si da allora luogo, come dice il Subcomandante, al più perverso e distruttivo scenario: “Ancor prima della supposta fine, il tessuto sociale sarà completamente fatto a pezzi”.

Una profonda disarticolazione del tessuto sociale della nazione messicana, che è il nostro più grande patrimonio spirituale e culturale, ci spingerà verso una comunità senza radici e senza solidarietà, un insieme di esseri viventi senza reali relazioni se non, con difficoltà, le effimere dell’interesse (il denaro) e della violenza (lo scontro armato, la rivalità per parcelle di un potere effimero). Che ha però praticamente portato a tutti i livelli sociali una corruzione intollerabile che è anche la causa e lo scopo della disarticolazione sociale che stiamo vivendo.

Ricchezza per l’apparato militare (in una analisi rigorosa, attraverso le informazioni che Marcos è riuscito ad ottenere), aumento conseguente delle spese nei diversi rami dell’esercito e della sicurezza del paese (Segreteria di Stato e Procure), questo sì, con differenze abissali nei redditi degli alti capi e tozzi di pane avanzato per le fanterie. E ricchezza anche per coloro che si vedono obbligati a “mettere in scena” la distruzione delle armi, data la loro obsolescenza, e a rinnovarne la loro tecnologia.

Gruppi ridotti di beneficiari. Però diciamocelo in una parola: i signori dell’affare della guerra (della nostra e delle altre che appaiono nelle varie parti del mondo) sono, come già si sa, le grandi compagnie del complesso industriale-militare degli Stati Uniti, ed i suoi migliaia di canali di distribuzione in tutte le parti del mondo, là da loro e qui da noi.

Risulta perciò patetico che in Messico i funzionari di alto livello, incominciando da Felipe Calderón, “esigano” senza sincerità, tra piagnucolii, che si smetta di vendere armi lungo tutta la frontiera con il Messico, anche quelle di grande calibro. Per soddisfare allo stesso tempo i “signori della guerra” di ambedue le fazioni: l’esercito messicano e i cartelli della droga. Munizioni di tutti i tipi: proprie dell’esercito, agli uni e agli altri, e ciò senza la più remota possibilità che “l’affare” si interrompa e si sospenda.

Questa fonte di ricchezza multimiliardaria si dovrebbe interrompere per una petizione del paese del sud, che ha nell’affare compromesse anche le sue più alte sfere di governo e di potere, che ugualmente ricevono smisurati introiti? Perché ora tutto indica, anche se la storia è già vecchia, che il traffico e la vendita di armi senza controllo è un affare molto redditizio o più di quello delle stesse droghe. Alcuni gangster contro altri? Almeno nella loro incontenibile avidità di guadagni mafie e cartelli si uniscono, e per nessun motivo sono disposti a sospendere questa cascata di ricchezza che gli giunge.

Solo che nel caso messicano, come alcune funzionari statunitensi hanno suggerito in varie dichiarazioni, è già sorto l’interventismo (che per molti sarebbe sul punto di essere una invasione). Una delle ultime, quella del sottosegretario alla Difesa Joseph Westpahl non potrebbe essere più rivelatrice: “tali organizzazioni criminali sono ‘una specie di gruppi insurrezionali’ che possono cercare di prendere il potere in Messico, proprio lungo la nostra frontiera, per cui Washington deve essere preparata ad agire nel caso in cui ciò avvenga”.

Nonostante che il giorno dopo il militare abbia ritrattato, è più che evidente la coincidenza con altre dichiarazioni simili di alti funzionari di quel paese. Almeno è tale oggi una delle visioni statunitensi sul Messico. La questione è stata avvertita ripetutamente quando è stata sottoscritta “l’Iniziativa Mérida”, così simile nelle sue cause ed effetti al “Plan Colombia”.

Però, come dicono il Subcomandante Marcos e Luis Villoro, il principale valore del Messico, quello della sua comunità e continuità culturale, si sta perdendo a passi da gigante: la rottura inarrestabile del nostro tessuto sociale. Gli affari (le armi e le droghe) sono stati posti al di sopra della Nazione.

04-03-2011

La Jornada

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da
Víctor Flores Olea, “La guerra, el negocio que nos destruye” traducido para La Jornada por S., pubblicato il 04-03-2011 su [http://www.jornada.unam.mx/2011/02/28/index.php?section=opinion&article=023a2pol], ultimo accesso 08-03-2011.

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