Non credo che il Premio Nobel per la letteratura o i premi letterari in generale abbiano qualche legittimità. Non mi interessa tanto discutere se il premio Nobel per la letteratura a Vargas Llosa sia giusto o ingiusto, è solo così arbitrario come tutti in generale. Ciò che mi interessa indagare è il modo in cui sembra che ampi settori della sinistra accettino esplicitamente o implicitamente che Vargas Llosa sia un intellettuale organico dell’internazionale neoliberale conservatrice, uno sbirro dell’impero e, allo stesso tempo, l’autore di alcuni romanzi di indiscutibile valore letterario. Articolo di Luis Martín-Cabrera
Alcuni sono persino più specifici e aggiungono che i suoi migliori romanzi sono quelli che ha pubblicato nel suo primo periodo, prima della sua rottura con la rivoluzione cubana e di abbandonarsi ad un tipo di scrittura eminentemente commerciale ed opportunista. Questa concezione dell’opera di Vargas Llosa accetta senza per nulla discutere che lo stile, la qualità letteraria o la letteratura in generale stiano al margine della realtà, au dessus de la mêlé. Però la letteratura, come qualsiasi altro discorso, è non solo compresa nella realtà, ma è anche un modo di costruire, conoscere e attraversare questa realtà. Per questo, non c’è stile innocuo né estetica letteraria che non sia sempre già determinata da tutte le tensioni del potere: il contenuto e la forma sono inseparabili e finiscono con il produrre effetti ideologici.
In America Latina, nessuno come Ángel Rama ha inteso le strette connessioni della letteratura con le strutture del potere, della dominazione e dello sfruttamento che costituiscono la storia della regione, dalla colonia alla formazione degli stati moderni. Rama teorizza le relazioni tra scrittura e potere a partire dalla figura del letterato, una singolare versione di intellettuale organico gramsciano. Per il critico uruguayano, la scrittura disimpegna un ruolo fondamentale in America Latina, perché dalla conquista in poi, sono solo una minoranza gli intellettuali che hanno il privilegio di accedere alla scrittura e lo fanno sempre in contrapposizione alle culture orali precolombiane ed alle loro particolari forme di intendere il linguaggio e la storia. A partire dall’indipendenza e con ancor più forza con l’arrivo della modernità, il letterato latinoamericano si trasforma in una sorta di mediatore tra lo Stato e le classi subalterne. Il letterato è, pertanto, traduttore e rappresentante delle classi subalterne nel loro processo di integrazione ai processi di modernizzazione in America Latina. Questo particolare sviluppo è, per esempio, nel cuore di tutta la letteratura indigenista del continente. Lo scrittore indigenista sta tra lo Stato e le masse degli indigeni cercando di creare per loro un luogo nel cuore della patria, dopo secoli di invisibilità, sfruttamento ed oppressione. Questa importante ed ambivalente posizione di rappresentanti dei “senza voce” che occupano gli scrittori letterari in America Latina è cruciale per intendere la produzione letteraria e culturale.
In questo senso, bisogna dire che Mario Vargas Llosa è uno scrittore letterario per definizione e, non solo questo, è uno scrittore letterario che sempre o quasi sempre ha scritto a favore del potere delle classi dominanti, prima in America Latina e più tardi a livello globale. Questo essere annoverato al potere costituito può a priori essere letto in romanzi così lontani dalla politica come La tía Julia y el escribidor [La zia Julia e lo scribacchino] (1977). Il romanzo, scritto in chiave autobiografica, racconta la storia di “Varguitas”, un giovane scrittore latinoamericano, che esordisce nella letteratura e nell’amore con una sua formosa zia, nonostante e contro i valori borghesi della propria famiglia. Però il romanzo è anche la storia di Pedro Camacho, un “estensore” boliviano di copioni di telenovela che avvia “Varguitas” alla scrittura. Dopo aver scritto tanti romanzi a puntate, Camacho finisce col diventare pazzo e col produrre un discorso delirante, dove il romanzo a puntate, la realtà e la finzione diventano non operativi. Pertanto, ciò che è in gioco non è solo l’iniziazione del giovane scrittore, ma anche l’autorità del letterato sulla cultura popolare orale, ciò che il romanzo produce è la distinzione tra scrittore letterato con un capitale simbolico e il compilatore popolare senza capitale culturale né legittimità, quest’ultimo abbietto.
Questa ossessione di esercitare e reclamare l’autorità dello scrittore letterato sulle classi subalterne compare in un infinità di romanzi di Vargas Llosa e arriva al suo culmine con la pubblicazione di El Hablador [Il narratore ambulante] (1987), romanzo che torna a mescolare due piani narrativi e due voci, la voce del narratore e quella dello scrittore letterato. Il “narratore” è una figura chiave nelle culture indigene dell’amazzonia, perché è l’incaricato di preservare e attualizzare la storia della comunità, una sorta di archivio orale ambulante. Nella misura in cui procede il romanzo, la contrapposizione tra oralità e scrittura si accentua e diventa più violenta, fino a che scopriamo che, in realtà, il “narratore” è, Saúl Zuratas, un collega di facoltà dello scrittore/narratore. Zuratas, soprannominato “Mascarita” per una macchia scura che gli copre metà della faccia e per la sua capigliatura diabolica e rossa era famoso per la sua malvagità, era figlio di un giudeo e di una creola. Così in modo spietato e poco sofisticato: Zuratas si interessa delle culture indigene perché è sgradevole. Di fatto, il romanzo non è altro che un rozzo riadeguamento della dicotomia civilizzazione e barbarie che inaugura il Facundo dello scrittore argentino Domingo Faustino Sarmiento. Gli indigeni, per Vargas Llosa, rappresentano semplicemente la barbarie e l’arretratezza. Così come si sarebbe espresso con singolare brutalità in un articolo pubblicato nella rivista nordamericana Harper’s: “Questions of Conquest: What Columbus Wrought and What He Did Not”, il prezzo che il Perù deve pagare per lo sviluppo e la modernità è l’estinzione delle sue culture indigene, perché queste non sono altro che una zavorra antimoderna e irrazionale.
Vargas Llosa, che sicuramente è un appassionato lettore di “Kafka e dei suoi precursori”, sa, come Borges, che ogni scrittore immagina la sua propria genealogia letteraria. Per questo, oltre a rimuovere continuamente l’oralità, la cultura popolare e l’indigenismo, lo scrittore ispano-peruviano, come lo chiama El País, è anche ossessionato dall’esercizio della propria autorità e dall’annullamento degli altri scrittori, soprattutto di quelli che hanno posto la loro scrittura a sostegno della rivoluzione e degli esclusi (gli altri letterati). In questo senso La guerra del fin del mundo [La guerra della fine del mondo] (1981) è esemplare, perché si tratta di una riscrittura del romanzo Os Sertoes [Brasile ignoto] (1902), dello scrittore brasiliano Euclides da Cunha. I due romanzi raccontano la storia di Antonio Consejero, una specie di leader religioso-politico di Canudos che fonda una comunità che sopprime, tra le altre cose, il denaro ed il sistema metrico decimale. I ribelli di Canudos, i più miserabili e dimenticati del Brasile, resistono alla dominazione dello Stato liberale fino a che l’esercito li annienta. Nonostante ciò, mentre Euclides da Cunha si sforza di cercare di comprendere Canudos come una forma di “antirazionalità” e resistenza allo Stato liberale, Vargas Llosa concepisce i ribelli come ostinati mistici millenaristi e trasforma da Cunha in un giornalista cieco. Appoggiare la rivoluzione produce cecità politica.
Però non sono solo da Cunha o García Márquez, nessuno scrittore agita e preoccupa tanto Vargas Llosa come José María Arguedas. Arguedas era uno che parlava quechua e la sua letteratura, al contrario di quella di Vargas Llosa, si è sempre mossa in una tensione tra due mondi, due lingue e due storie; El Zorro de arriba y el zorro de abajo [La volpe di sopra e la volpe di sotto], come intitolò il suo ultimo romanzo. Arguedas, come José Carlos Mariátegui, anche se in maniera differente, non vide nelle culture indigene un intralcio, ma la possibilità stessa del comunismo incaico, di una società ed una modernità basata sul comunitarismo e non sul genocidio culturale e fisico degli indigeni. Se, come immaginò Borges nel La biblioteca de Babel [La biblioteca di Babele], ogni libro ha il suo antilibro, senza dubbio l’antilibro del La Ciudad y los Perros (1962) è Los ríos profundos [I fiumi profondi] (1956). Mentre La ciudad y los perros è il racconto iniziatico della borghesia di Lima, Los ríos profundos è il racconto iniziatico di un soggetto di Cuzco totalmente meticcio e utopicamente biculturale; mentre La Ciudad y los perros è scritto nello spagnolo della classe media di Lima, Los ríos profundos è scritto in uno spagnolo liberato dai suoi impedimenti dalla sintassi del quechua; mentre il protagonista di La ciudad y los perros si dibatte tra i suoi amori e la sua solidarietà con “lo schiavo”, Ernesto, il protagonista di Los ríos profundos, si identifica con la ribellione delle indigene chichere contro l’oppressione neocoloniale; mentre Arguedas si sparò due colpi per firmare il suo ultimo romanzo, disperato per le contraddizioni della modernità andina, Vargas Llosa vince il premio Nobel per la letteratura.
Vargas Llosa è così preoccupato da Arguedas che scrisse un libello infame, La utopía arcaica, la cui unica funzione è rimuovere Arguedas dal canone letterario peruviano per mettere se stesso. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, possiamo pensare molte cose di Vargas Llosa, però non possiamo dire, se fossimo lettori seri e rigorosi, che la sua letteratura si sia formata in maniera indipendente dalle volontà dei potenti; possiamo pensare che sia buona letteratura, però non possiamo ignorare che la sua letteratura è fondata sul disprezzo più assoluto per le classi popolari latinoamericane.
11-10-2010
(Per Daniel Noemi, dalle conversazioni sulla letteratura latinoamericana fatte a Toronto fino alle prime ore del mattino e dai tanti anni di letture e apprendistato condiviso).
Luis Martín-Cabrera è professore assistente nel Dipartimento di Letteratura dell’Università della California, San Diego.
rCR
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da |
Luis Martín-Cabrera, “Contra la escritura letrada de Vargas Llosa” traducido para Rebelión por S., pubblicato l’ 11-10-2010 su [http://www.rebelion.org/noticia.php?id=114623&titular=contra-la-escritura-letrada-de-vargas-llosa-], ultimo accesso 12-10-2010. |