Pablo Solana
Intervista a Juan Contreras, referente del “barrio 23 de enero” di Caracas (quartiere di Caracas, ndt).
Quando Resumen Latinoamericano ha visitato i compagni del Coordinamento Simón Bolívar nelle colline al nordest di Caracas dove si trova lo strategico barrio 23 de enero, tre recenti notizie turbavano la militanza popolare. Non erano questioni di ordine strettamente interno. Questa volta le novità avevano a che vedere con la complessa relazione della rivoluzione bolivariana con lo stato colombiano. Tra ambedue i paesi l’equilibrio geopolitico minaccia sempre di tornare instabile, e ora apparivano evidenti segnali di allarme: il leader della controrivoluzione Enrique Capriles era stato ricevuto ufficialmente dal presidente del vicino paese Juan Manuel Santos, che aveva anche annunciato accordi con la NATO che potrebbero destabilizzare la regione. Per di più, in quei giorni di metà giugno un gruppo di paramilitari colombiani era stato arrestato in Venezuela, e il presidente Maduro non scartava che fosse lui l’obiettivo di un attacco criminale.
La conversazione con Juan Contreras, principale dirigente del Coordinamento e deputato supplente nell’Assemblea Nazionale, va diretta al punto: “Cercheranno di aggredire il Venezuela con paramilitari, con una politica di guerra. Santos è un rappresentante dell’oligarchia colombiana. Che contraddizione enorme: mentre nel suo paese si siede a parlare con gli insorti, dice di appoggiare la NATO, attraverso la quale i gringos ci impongono la loro politica di guerra, insieme ai paesi che sono in contrasto con tutto il processo che oggi si svolge in America Latina. Questo è il presidente che c’è lì, un presidente che ha cercato una provocazione ricevendo il rappresentante della reazione, come è Capriles”.
RL: Juan, il sabotaggio per la mancanza di rifornimenti come sta colpendo i settori popolari?
Juan Contreras: La mancanza di rifornimenti, il rincaro e i prodotti che non ci sono, fanno parte della politica della controrivoluzione per cercare di fare arrendere per fame il nostro popolo. È così pericoloso il tema dei paramilitari che vengono portati dalla Colombia con le cattive intenzioni per cercare di uccidere, di aggredire il presidente, in questo caso Nicolás, o come ad un certo punto tentarono di far fuoriuscire il presidente Chávez, come questa politica di guerra economica che ci hanno dichiarato. Perché si tratta di demoralizzare il nostro popolo. Vogliono che ci sia scontento perché non trovi la carta igienica, i prodotti di prima necessità, il riso, l’olio, la carne o il pollo. Cercano di fare in modo che la gente non ne voglia sapere della rivoluzione di Chávez, di Cuba, di Fidel o del Che, che nessuno di questi referenti penetri nel popolo. Che alla gente sia causata una tale molestia, un tale sintomo di frustrazione, da non voler andare avanti con il processo rivoluzionario. Questo è ciò che si cerca con questo tipo di politiche. E certamente cercare di fare arrendere per fame il nostro popolo, oltre a creare tutte queste difficoltà che dopo vendono all’estero come campagna di menzogne, cercando di far vedere che la rivoluzione ha fracassato, o che sta affondando. Ma tutto ciò è certamente una menzogna. Sia dell’impero che dei nemici interni, la controrivoluzione, che non vuole trasformazioni, e cerca di colpire il nostro popolo, la rivoluzione bolivariana e il nostro governo. Ma qui si scontreranno sempre con un popolo che dal punto di vista ha ben chiaro quale sia il cammino. Oggi c’è molta più coscienza all’interno delle nostre comunità, dentro il movimento popolare.
RL: A partire da questa situazione che descrivi, dopo la morte del Comandante, è diventata carne del popolo questa parola d’ordine che dice “Tutti siamo Chávez”? Questo si vede giorno per giorno, le organizzazioni dispongono di più meccanismi di partecipazione diretta nella risoluzione dei temi quotidiani?
JC: Guarda, quando è incominciata la malattia del presidente, già i grandi media, le grandi compagnie private, incominciano con questa campagna: “Se Chávez non c’è, che succederà? la rivoluzione va giù”. E noi abbiamo sempre detto: Con Chávez o senza Chávez, la rivoluzione continuerà. Perché certamente Chávez è stato un gigante, ha dato voce e viso ai poveri, in questo paese Chávez è stato l’unico presidente che si sia preoccupato dei poveri. Allora, oggi non c’è Chávez, ma credo che mai si sia trattato di Chávez. E questo mai lo hanno compreso, né l’impero, né l’antiquata oligarchia di qui, né questi settori fascistoidi. Il problema non era Chávez, il problema è un popolo che ha detto basta, che ha cominciato a far muovere una rivoluzione. Allora non si tratta della figura di un presidente, o della figura di questo gigante che è stato Chávez. Si tratta della fame che aveva questo popolo venezuelano quando già nell’ 89 ha sotterrato le politiche neoliberiste, le politiche del Fondo Monetario Internazionale, che ha seminato con il sangue di più di 3000 compatrioti questo popolo che in questo momento è sceso in strada. E quando dico questo popolo bolivariano, sto parlando del popolo povero, e del popolo in uniforme. Questo popolo che ha siglato un patto, perché dopo il 27 e 28 febbraio [del 1989, il caracazo], immediatamente è venuto il 4 febbraio [del 1992, l’insurrezione civile-militare]. Lì c’è stata una generazione di militari progressisti che, comprendendo la crisi che stava vivendo il nostro paese, si è sollavata in armi. La chiave di questo processo è nella partecipazione e nella disposizione al cambiamento che ha questo popolo, un popolo che ha detto basta e ha cominciato a far muovere una rivoluzione in America Latina quando nessuno parlava più di socialismo.
RL: Come vedete questo momento della lotta del popolo colombiano, e che importanza credete che abbia questa lotta per la continuità della rivoluzione in Venezuela?
JC: All’inizio, abbiamo serrato le file con il processo di pace che viene portato avanti dall’Avana, da Cuba. E, certamente, siamo favorevoli che ci sia un processo di negoziazione per ottenere la pace del popolo colombiano. Ma un accordo deve essere adeguato, perché le cause per le quali il popolo si è alzato in armi, gli insorti colombiani, chiamasi FARC o ELN, che sono il popolo in armi, popolo che vuole trasformare la Colombia, queste cause che hanno originato questo conflitto non sono state chiuse. Io credo proprio che l’unico modo e l’unica garanzia che sia rispettato un accordo, è che gli insorti mantengano le armi. Sembra contraddittorio, andare ad un processo di pace così, ma l’unica garanzia che le cose siano rispettate, è che la guerriglia mantenga le armi. Certamente tutti siamo favorevoli alla pace. Questa rancida oligarchia, che tradì Bolívar, in Colombia è ancora al potere. E io avrei preferito che il nostro presidente, Nicolás Maduro, non avesse detto nulla di fronte a queste provocazioni, come aver ricevuto Capriles, ma sì che adottasse una politica diplomatica più audace. Ha dovuto tener chiusa la bocca, non dare tanta stampa a questa controrivoluzione, ma sì avrebbe potuto dare la libertà e l’asilo a Julián Conrado [cantante popolare colombiano detenuto in Venezuela accusato di far parte delle FARC]. Credo che questa sarebbe stata una carta più forte. In silenzio ma con fatti concreti che dimostrino sempre una via d’uscita a sinistra, questo è ciò che dobbiamo cercare. E a volte per questo ricatto che ci viene criticato con un governo criminale, un governo terrorista, noi ci intimoriamo. Julián Conrado è stato arrestato in Venezuela, ma non ha nessun conto pendente con la giustizia venezuelana. È da due anni senza un processo, perché non ha commesso nessun delitto.
Luglio 2013
Resumen Latinoamericano
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Pablo Solana, “Juan Contreras: Intentarán usar a Colombia como cabeza de playa para agredir a Venezuela” pubblicato il 07-2013 in Resumen Latinoamericano, su [http://www.resumenlatinoamericano.org/index.php?option=com_content&task=view&id=3673&Itemid=1&lang=es] ultimo accesso 19-07-2013. |