BLACKOUT in Patagonia


Caterina Amicucci

Progetto Hidroaysén: il Cile ha un problema.

Cinque dighe targate Enel in uno dei luoghi più incontaminati del pianeta, nella Patagonia cilena. E un’«autostrada elettrica» di duemila chilometri che attraverserebbe 9 regioni, 4 parchi nazionali e vari territori mapuche per trasferire l’energia alle miniere del nord. Il movimento che si oppone al progetto è il più ampio ed eterogeneo che la regione ricordi. Ma il governo tentenna, sotto la pressione delle imprese coinvolte.

«Quando soffia il vento del cambiamento alcuni costruiscono muri, altri mulini a vento». Così il vescovo dell’Aisén Luis Infanti de la Mora si è rivolto alla Commissione di ministri chiamata a esprimersi sulla fondatezza dei 35 ricorsi presentati contro l’approvazione della valutazione di impatto ambientale del controverso progetto Hidroaysén, nella Patagonia cilena.
La lunga e intensa lettera del vescovo di origini italiane, da sempre in prima linea contro la costruzione delle cinque dighe targate Enel in uno dei luoghi più incontaminati del pianeta, ha suscitato l’ira degli sparuti supporter del progetto a livello locale, i quali hanno acquistato diverse pagine dei quotidiani della regione per replicare pubblicamente al prelato. L’accusa è quella di non rappresentare il pensiero della comunità e di non averla consultata prima di consegnare la missiva ai destinatari. Un rimprovero a prima vista anomalo, considerando che la maggioranza della popolazione cilena si dichiara contraria al progetto. Ma l’iniziativa suona meno bizzarra se si legge con attenzione l’elenco delle settanta firme apposte in calce alla breve requisitoria. Vi compaiono ex dipendenti dell’impresa, ex politici locali, beneficiari dei cosiddetti programmi di «responsabilità sociale d’impresa» e, a detta di alcuni attivisti, persone che non sono state neanche informate dell’iniziativa e che si sono scoperti sostenitori della polemica aprendo il giornale.

Un movimento diviso

Il riferimento contenuto nelle parole di Infanti è duplice: da un lato l’invito a considerare un modello energetico innovativo e sostenibile, dall’altro un richiamo al movimento sociale «Mi problema es tu problema», che esattamente un anno fa ha paralizzato per settimane l’intera regione, avanzando una serie di richieste al governo Piñera. Tra queste dei referendum regionali vincolanti per tutti i mega progetti idroelettrici, industriali e minerari che interessano l’area. A distanza di un anno, della mobilitazione resta abbastanza poco. Il governo è stato molto abile a dividere il movimento più ampio ed eterogeneo che la regione ricordi nella sua giovane storia. Le elezioni imminenti hanno offerto una buona occasione per “cooptare” alcuni dei principali leader e molto poco è stato portato a casa: un po’ di assistenzialismo in più, ma nessuna rilevante riforma strutturale. Assistenzialismo governativo da cui l’Aysén è altamente dipendente, grazie al suo statuto di regione “estrema” e che l’esecutivo, invece di adottare un nuovo modello di sviluppo, vorrebbe scaricare sulle imprese promuovendo una serie di mega progetti che devasteranno un’area dal grande pregio naturalistico.
Tuttavia la riunione dei ministri è già stata posticipata due volte. La scadenza elettorale è un forte deterrente per un governo che registra un consenso ai minimi storici. Per entrambi gli schieramenti in lizza è altamente rischioso posizionarsi chiaramente su un progetto così impopolare che, vale la pena ricordare, al momento del primo via libera ufficiale nel 2011 ha scatenato una serie di proteste in tutto il paese, poi confluite nel movimento studentesco.
Il governo però deve anche fare i conti con una serrata pressione delle imprese coinvolte. Il consorzio Hidroaysén ha cominciato a mostrare segni di nervosismo, minacciando di impugnare il silenzio assenso se un parere politico non arriverà presto.
La Colbun, il socio cileno di minoranza che detiene il 49 per cento del consorzio Hidroaysén, è di proprietà dei Matte, una delle tre famiglie che a prescindere dal colore politico dei governi, da sempre si spartiscono la quasi totalità della ricchezza cilena. L’estate scorsa aveva già imposto un primo aut aut, dichiarando che «in assenza di una politica energetica nazionale di larghe intese, non ci sono le condizioni per sviluppare progetti di tale scala e complessità».

L’autostrada elettrica

I padroni chiamano, il governo risponde e dietro una situazione di stallo solo apparente l’esecutivo di Piñera ha messo in cantiere due leggi finalizzare a semplificare le procedure e a spianare la strada al più grande progetto idroelettrico dell’America Latina. La prima riguarda la cosiddetta «Carretera Elettrica» (Autostrada elettrica) che dovrebbe attraversare da nord a sud l’intero paese. Esattamente quello che serve a Hidroaysén. Il progetto prevede infatti una linea di trasmissione di duemila chilometri per trasferire l’elettricità dalla Patagonia alle miniere del nord. Oltre a rappresentare la metà dell’enorme costo dell’intera opera, stimato oggi in 11 milioni di dollari, la linea di trasmissione dovrebbe passare per 9 regioni, 66 comuni, 4 parchi nazionali e vari territori dove vivono comunità indigene Mapuche. Una missione impossibile per l’impresa, che non è ancora riuscita a delineare con certezza nemmeno il piano di reinsediamento delle quattordici famiglie che saranno costrette ad abbandonare le loro terre per far posto al bacino della diga Baker due. L’intervento dello stato toglierebbe le castagne dal fuoco all’azienda, che in attesa di sviluppi favorevoli non ha ancora presentato lo studio di impatto ambientale della linea elettrica. L’altra legge è relativa alle concessioni elettriche ed è mirata a promuovere il cosiddetto approccio «Fast Track», che in soldoni altro non significa se non abbassare tutti gli standard ambientali e sociali semplificando al massimo l’iter preliminare dei progetti. L’attuale esecutivo avrà il tempo di far passare queste nuove leggi? E come si comporterà il nuovo governo, che probabilmente sarà guidato per la seconda volta da Michelle Bachelet?

Piccoli comitati crescono

Intanto in Patagonia, dove per il momento i fiumi Baker e Pascua continuano a scorrere liberamente in uno scenario naturale mozzafiato, i comitati locali che resistono al progetto crescono, si rafforzano e continuano a fare i conti con forme diverse di inquinamento democratico. Nell’ultimo anno l’impresa sembra aver allentato la sua attività mirata a garantirsi il consenso o il silenzio della popolazione. I bandi per finanziare progetti individuali e collettivi sono stati aperti, ma non finanziati. Il personale dell’ufficio di Cochrane è stato ridotto. Ma anche in tempi di vacche magre non mancano gli strumenti per garantire consenso al progetto.
Villa O’Higgins è la cittadina più remota della Patagonia cilena. Situata sull’omonimo lago, dove sfocia il fiume Pascua e alla fine della strada Carretera Austral giunta qui appena tredici anni fa, fu fondata per presidiare la contesa frontiera con l’Argentina. Nonostante ospiti una comunità di appena cinquecento abitanti, inclusi i neonati, gli iscritti nelle liste elettorali risultano essere più di settecento. Non si tratta però di un fenomeno migratorio, bensì di un bizzarro, quanto sospettoso, aspetto della legge elettorale cilena, secondo la quale è possibile registrarsi e votare in un qualunque luogo diverso da quello di residenza. Con questo trucco è molto facile alterare il voto di piccole comunità che in alcune circostanze possono rivestire un’importanza strategica.

Una radio e un’azione clamorosa

Secondo l’Agrupación «Rio Pascua», sono molto pochi gli abitanti di Villa O’Higgins che hanno votato per l’attuale sindaco, Roberto Recabal, acceso sostenitore delle dighe patagoniche al punto di spegnere le frequenza di Radio Madipro, emittente locale che fa parte del circuito della progressista Radio Santa Maria legata alla diocesi e alle posizioni del vescovo. Ma gli attivisti non si sono scoraggiati e hanno preso direttamente in gestione la radio. Non solo, alle ultime elezioni comunali sono riusciti ad eleggere – in questo caso con tutti voti di residenti – Lorena Molina, attivista processata e scagionata per aver occupato pacificamente la pista dell’aeroporto durante le sollevazioni dell’Aysén dello scorso anno. Il gruppo si è infatti reso protagonista di un’azione clamorosa, bloccando l’aereo privato di Alejander Luksic, una delle tre famiglie già menzionate, che nell’area ha comprato 37 mila ettari ufficialmente per «preservare la natura». Nessuno è disposto a crederci.
Anche quest’anno i comitati locali della Patagonia si sono dati appuntamento sul fiume Baker per celebrare la giornata mondiale di resistenza contro le grandi dighe, celebratasi lo scorso 14 marzo. Il lavoro continua in stretta collaborazione con la rete StopEnel (www.stopenel.it) che il prossimo 29 aprile realizzerà la sua seconda assemblea internazionale, dopo quella dell’aprile del 2012.

* Re:common

21.03.2013

Il Manifesto

 
Caterina Amicucci, “BLACKOUT in Patagoniapubblicato il 21-03-2013 in Il Manifesto, su [http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20130321/manip2pg/16/manip2pz/337725/manip2r1/progetto%20hidroays%C3%A8n/] ultimo accesso 22-03-2013.

 

I commenti sono stati disattivati.