Il 1 gennaio 1994, nel sudest messicano, un gruppo di indigeni –con la faccia coperta da passamontagna e vecchi fucili in mano– sfidava il governo e l’esercito del Messico. Le loro richieste erano: terra, lavoro, tetto, cibo, sanità, educazione, libertà, indipendenza, democrazia e giustizia per le 56 etnie della repubblica. La notizia di una sollevazione popolare nell’angolo più povero del paese cadeva come un secchio di acqua fredda sia sulla classe politica come sulle elite imprenditoriali, in quei giorni, l’informazione che accaparrava i titoli dei principali media era la tanto citata entrata del Messico nella “modernità” attraverso la firma del Trattato di Libero Commercio. Oltre ad esprimere una relazione asimmetrica tra due dei paesi che fanno parte del G-8 ed il loro omologo messicano, suddetto trattato aveva come obiettivo il consolidamento del modello neoliberista. Per questo, il movimento neo-zapatista irrompeva sulla scena politica denunciando il nefasto e abietto spettacolo preparato dall’allora presidente: Carlos Salinas (Partito Rivoluzionario Istituzionale).
Durante una lunga intervista, successivamente pubblicata con il titolo Marcos: Il signore degli specchi, il sub-comandante ribelle Marcos spiegava che: “Noi (gli zapatisti), ciò che volevamo dimostrare era che l’ingresso del Messico nel primo mondo veniva costruito su una menzogna. Non solo una menzogna per gli indigeni, come ha dimostrato la crisi del 1994-1995, ma anche per le classi medie e per le classi lavoratrici come precedentemente gli veniva detto. Anche per una parte importante del settore imprenditoriale. Il nostro progetto ha la fortuna di coincidere con la rottura della simulazione, noi diciamo che questa scenografia che era stata montata, ha anche incominciato ad operare, o sta già operando in altri paesi che stanno sacrificando una parte importante della loro storia e di un settore sociale” [2].
In principio, il governo cercò di togliere valore alle specificità non solo del significato della sollevazione indigena, ma, inoltre, con un violento disprezzo per il mondo indigeno non si preoccupò di sostenere che la rivolta era manipolata da gruppi stranieri. Anche il Premio Nobel per la Letteratura, Octavio Paz –come la grande maggioranza dei membri dell’establishment culturale del paese, abituati a prebende, rendite e riconoscimenti con i quali sogliono essere alimentati [3] da coloro che comandano comandando– suggeriva che la sollevazione rispondeva ad interessi stranieri che volevano far sprofondare il paese in una spirale di violenza.
Fin dai suoi primi comunicati l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ebbe l’attenzione non solo per essere un gruppo che proponeva la rivoluzione in una epoca di “democratizzazione” liberale e di disintegrazione dell’Unione Sovietica ma per le risorse retoriche che insaeriva nel proprio discorso [4]. Questo gruppo di “antiquati” sembrava che fosse giunto tardi nel dibattito politico nazionale e, di conseguenza, non comprendesse lo spirito dei tempi nuovi.
Ironia della storia, questa guerriglia sbocciava nel momento in cui si proclamava la fine della lotta armata in America Latina [5], come aveva diagnosticato Jorge Castañeda, sociologo messicano che collaborò come Segretario delle Relazioni Estere durante il governo di Vicente Fox (del Partito Azione Nazionale).
Irruzione profetica e speranze intergalattiche
La “Chiesa dei poveri”, come manifestazione di un Cristianesimo della Liberazione, ha accompagnato i movimenti di resistenza dell’America Latina. Il ruolo di alcuni membri del clero, dalla lotta contro il potere coloniale spagnolo fino all’eroica ribellione contro il neoliberismo coloniale del XXI secolo, passando per le lotte di Indipendenza del XIX secolo e per quelle di liberazione del XX secolo, fa parte della memoria dei movimenti di emancipazione latinoamericani. Con la premessa del Vaticano II, il nucleo profetico e sovversivo del Cristianesimo della Liberazione riacquistò forza. Le conseguenze del lavoro realizzato dalle Comunità Ecclesiastiche di Base e dalle reti di base ebbero un forte impatto sulla formazione e l’atteggiamento del movimento zapatista. Con l’aiuto delle sue rappresentazioni, miti messianici, strategie utopiche e tradizionali, i movimenti sociali hanno la possibilità di creare e di proporre progetti alternativi al potere.
Fin dalla sua irruzione, il movimento neo-zapatista ha mostrato originalità e globalità. Una data significativa che rende conto di quello è il 27 luglio 1996, quando l’anziana indigena Ana María, nel suo discorso inaugurale per il Primo Incontro Intercontinentale per l’Umanità e contro il Neoliberismo, identificava due globalizzazioni. Da una parte, quella del capitalismo neoliberista (di stampo colonialista) che mercantilizza tutti gli aspetti della società, che omogeneizza le persone e che cosifica la natura e, dall’altra, una mondializzazione della resistenza, della lotta e della ribellione di cui sono protagonisti i popoli, le organizzazioni e gli individui che cercano di costruire ponti per un dialogo simmetrico e includente. Con una identità enunciativa ma rispettando le differenze. In questo senso Marcos ricondava che: “il movimento indigeno zapatista è un simbolo che resiste ad essere sacrificato in un mondo di modelli. Tutte le differenze o si incorporano smettendo di essere differenze o si eliminano. In questo caso, il movimento indigeno resiste a questo e propone questa sfida. Per questo provoca simpatia in settori inizialmente così lontani dal mondo indigeno come i giovani, gli anarchici, gli emigranti, i profughi della Terra, in Europa, negli Stati Uniti e in Messico (…) Stiamo progettando una società dove noi abbiamo un posto senza che questo significhi che omogeneizzeremo questa società. Non stiamo proponendo che tutti debbano essere indigeni e che debba scomparire tutto ciò che non sia indigeno” [6].
La lettera con la quale il Comando dava il benvenuto ai partecipanti all’Incontro Intercontinentale del 1996 chiudeva con la seguente dicitura: Pianeta-Terra. Non è fortuito che anche Naomi Klein riconosca l’importanza di questo Meeting come precedente fondamentale per la costituzione del movimento alter-mondista e la messa in marcia del Forum Sociale Mondiale nel 2001 [7].
D’altra parte, il discorso etico-politico neozapatista è innovatore nell’espressione linguistica del gergo politico poiché bandisce i luoghi comuni. L’importanza della parola nella lotta ci riporta al recupero della memoria e, inoltre, al peso simbolico della non-contemporaneità del contemporaneo. Per esempio, il “comandare obbedendo” non è solo una pratica di resistenza, alimentata dalla tradizione delle comunità indigene, che “riporta ad un miscuglio di contenuti temporali, di futuro e passato, di aurora e tramonto o di tramonto e aurora sociali” ma è anche una fusione tra politica ed etica che è in contrasto con la filosofia borghese. In un’altra intervista, concessa al sociologo francese Yvon Le Bot, Marcos sostiene che: “per gli zapatisti, i valori etici sono un riferimento fondamentale che contano più della realpolitik. Le decisioni degli zapatisti hanno l’abitudine di aggirare la realpolitik, perché gli zapatisti danno più valore alle implicazioni morali” [8].
L’elemento etico è centrale nel discorso e nella pratica zapatista. Vale la pena ricordare il famoso episodio, quando l’EZLN catturò il generale Absalón Castellanos Domínguez (militare e governatore dello stato del Chiapas per il PRI dal 1982 al 1988) nella sua tenuta “El Momón” e, dopo un giudizio popolare –con un tribunale militare zapatista–, non fu condannato al patibolo ma “a vivere fino all’ultimo dei suoi giorni con la pena e la vergogna di aver ricevuto il perdono e la bontà di coloro che per tanto tempo umiliò, sequestrò, saccheggiò, derubò e assassinò” [9]. Questo modo di concepire la giustizia mostra l’onestà e la statura morale del movimento zapatista e lo distingue da ogni altro tipo di movimenti sociali [10]. La violenza divina –nei termini di Walter Benjamin– del movimento zapatista è ancor più violenta e più radicale di quella di molti gruppi terroristi o fondamentalisti. È la violenza divina che si oppone alla violenza strutturale.
La guerra di bassa intensità: la strage di Acteal
Walter Benjamin scrisse nella sesta delle sue Tesi sulla filosofia della Storia che: “Organizzare storicamente il passato non significa conoscerlo ‘come veramente è stato’. Significa impadronirsi di un ricordo così come questo lampeggia in un istante di pericolo … Ha il diritto di suscitare nel passato la scintilla della speranza solo quello storico che passa attraverso l’idea che nemmeno i morti saranno in salvo dal nemico, se questo vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”.
Dopo una importante mobilitazione nazionale, il governo e gli zapatisti accettano un “cessate il fuoco” e intavolano le Conversazioni di Pace, conosciute anche come Il dialogo della Cattedrale, poiché si svolse nella cattedrale di San Cristóbal de las Casas avendo come mediatore il Vescovo Samuel Ruiz [11]. In una lettera datata 16 febbraio 1994, il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno-Comando Generale dell’EZLN sosteneva che: “La parola di verità che proviene dal più profondo della nostra storia, dal nostro dolore, dai morti che con noi vivono, lotterà con dignità sulle labbra dei nostri capi. La bocca dei nostri fucili tacerà affinché la nostra verità parli con parole per tutti quelli che con onore lottano, non ci sarà menzogna nel cuore dei nostri veri uomini. Nella nostra voce sui muoverà la voce dei più, di coloro che nulla hanno, dei condannati al silenzio e all’ignoranza, di quelli scacciati dalle proprie terre e dalla propria storia per il predominio dei potenti, di tutti gli uomini e le donne buone che camminano per questi mondi di dolore e rabbia, dei bambini e degli anziani morti in solitudine e abbandono, delle donne umiliate, dei piccoli uomini. Con la nostra voce parleranno i morti, così soli e dimenticati, così morti e nonostante ciò così vivi nella nostra voce e nei nostri passi”.
Nel giugno del 1994, l’EZLN lancia la Seconda Dichiarazione della Selva Lacandona per sollecitare la società civile a formare una Assemblea Nazionale Democratica, dove si legge che: “sono necessarie tutte le forme di lotta per ottenere in Messico l’accesso alla democrazia”. Parallelamente ai dialoghi di Pace, il governo messicano –nei suoi tre livelli– sviluppò in tutto lo stato del Chiapas una strategia contro-insurrezionale, inviando l’esercito per colpire le comunità in rivolta. Alla fine del 1994, è pubblicata la Terza Dichiarazione della Selva Lacandona dove l’EZLN fa un appello alla “lotta per la giustizia, alla democrazia, e alla libertà; con tutti i media, a tutti i livelli e da per tutto”. Questa Terza Dichiarazione ha come contesto la crisi economica che condannò milioni di messicani alla povertà e ne obbligò una grande maggioranza ad emigrare negli Stati Uniti. A dicembre gli zapatisti riuscirono anche a rompere l’accerchiamento militare in 38 municipi dello stato del Chiapas.
Il 1 gennaio 1996, viene pubblicata la Quarta Dichiarazione della Selva Lacandona dove si annuncia la creazione di un Fronte Zapatista di Liberazione Nazionale (FZLN). Nelle parole del Sub-comandante Marcos: “La democrazia in un paese democratico non si limita a fare elezioni democratiche. Ha a che vedere con qualcosa di più profondo che è la relazione tra governanti e governati … La sfida più grande dello zapatismo è proclamare che è possibile fare politica senza programmare la presa del potere. Noi diciamo di sì. E sottolineiamo: che tipo di politica si produrrà se non c’è la condizione della presa del potere, che è il contesto elettorale, il contesto dei partiti politici. Noi possiamo costruire una formazione politica senza progettare la presa del potere. Diciamo di sì. Questa è stata la proposta della Quarta Dichiarazione della Selva Lacandona e dice ‘vogliamo un nuovo mododi fare politica, creiamo una nuova organizzazione politica’. Per realizzarla è necessario continuare un processo” [12].
Segnaliamo che nello spazio di un anno vengono pubblicate quattro Dichiarazioni della Selva Lacandona. Durante 12 mesi gli zapatisti non solo debbono rielaborare le proprie strategie e la propria posizione nello scacchiere politico ma devono anche far fronte alla “guerra di bassa intensità” elaborata dal governo messicano. Uno degli episodi più abominevoli di questa “guerra di bassa intensità” fu il massacro nella comunità di Acteal, dove il 22 dicembre 1997, furono assassinati 45 indigeni tzotzile tra i quali si trovavano bambini e donne incinta. Il governo di Felipe Calderón (2006-2012) e la maggior parte della classe politica in Messico non solo mantenne nell’impunità gli autori intellettuali che orchestrarono suddetta azione come l’allora presidente Ernesto Zedillo –attuale consigliere di diverse imprese private nordamericane– solo che la Corte Suprema di Giustizia della Nazione, il passato 12 agosto 2009, con l’argomento che la Procura Generale della Repubblica aveva fabbricato le prove, ordinò anche la liberazione di circa 20 indigeni che erano stati arrestati e incolpati del suddetto massacro. Successivamente, il 4 novembre, furono liberati altri 9 paramilitari.
È necessario menzionare che il 21 aprile 2009, il Centro per i Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas e l’organizzazione civile “Las Abejas” avevano avvertito sulla possibilità della liberazione di alcuni paramilitari che avrebbero partecipato al crimine. Nonostante ciò sia per la Corte Suprema di Giustizia che per i “paladini del sistema”, come dire, per gli avvocati del Centro di Ricerca e di Docenza Economica (C.I.D.E.), l’inconsistenza delle prove era un motivo per promuovere una “tutela processuale” che avrebbe implicato, alla fine, la liberazione dei 20 detenuti. In questo senso, dobbiamo sommare alla lista dei “mercenari della giustizia” [13] i nomi di Hugo Eric Flores Cervantes (evangelico e professore del CIDE) e Héctor Aguilar Camín (direttore della rivista Nexos) che parteciparono a questa trappola [14].
Nell’ambito di una “guerra di bassa intensità” portata avanti dall’Esercito Messicano contro le comunità autonome zapatiste, il 22 dicembre 1997, circa 90 paramilitari di provenienza priista irruppero nella cappella dove stavano pregando gli abitanti della comunità autonoma “Las Abejas” per massacrarli. È importante menzionare il fatto che il gruppo de “Las Abejas” era simpatizzante della causa zapatista ma non erano zapatisti in strictu sensu. Pertanto, il massacro di Acteal rispose più ad una politica contro-insurrezionale che ad un “conflitto tra indigeni” come soleva sostenere l’allora segretario di Governo e, successivamente, candidato alla presidenza per il PRI, Francisco Labastida Ochoa. In un articolo pubblicato il 20 dicembre 2007 sul quotidiano messicano La Jornada, anche Carlos Montemayor sosteneva che si trattava di una congiuntura di una strategia di guerra e, conseguentemente, la logica di una amministrazione della guerra si imponeva sulla possibilità di una soluzione politica.
In un clima di deliberata amnesia, di repressione sistematica e di criminalizzazione dei movimenti sociali in Messico, dobbiamo prendere sul serio il suggerimento benjiaminiano rispetto al fatto che i morti non sono in salvo. Il massacro di Acteal è un altro capitolo della storia che ci avverte dello “stato di emergenza” come regola nella quale viviamo. La strage di Acteal non deve essere dimenticata ma ricordata come un manifesto crimine di stato e, pertanto, si deve agire di conseguenza esigendo il castigo dei colpevoli. Per ora è la memoria della “dignità” che li giudica e ripudia.
Il tragico dodicennio del Partito Azione Nazionale [15]
Il 19 luglio 1998 viene pubblicata la Quinta Dichiarazione della Selva Lacandona dove sono confermate le richieste di terra, tetto, lavoro, pane, salute, educazione, democrazia, giustizia, libertà, indipendenza nazionale e pace degna. Oltre a sollecitare la società civile ad una consultazione nazionale per il riconoscimento indigeno e contro la guerra di sterminio, l’EZLN sottolinea l’impellente necessità di una Riforma costituzionale in materia di diritti e cultura indigena e, certamente, l’incorporamento degli Accordi di San Andrés [16].
Dopo quasi settanta anni di egemonia priista, il Partito Azione Nazionale (partito conservatore e di taglio liberale) ottenne nelle elezioni del 2000 la presidenza della Repubblica messicana, attraverso il suo candidato, Vicente Fox [17]. La menzionata “transizione alla democrazia in Messico” si tradusse in una acutizzazione e un approfondimento dell’agenda neoliberista. Durante l’amministrazione foxista ci fu una reale caduta dei salari, l’emigrazione verso gli Stati Uniti aumentò (già nel 2004, c’erano più di 48 milioni di messicani dall’altro lato del Río Bravo), la flessibilità del lavoro e la precarizzazione del lavoro accompagnavano la criminalizzazione dei movimenti sociali.
Tra i mesi di febbraio e marzo del 2001, l’EZLN avrebbe intrapreso la Marcia del colore della Terra, percorrendo durante un lasso di 37 giorni una distanza di 6 mila chilometri e terminando la loro lunga camminata il 28 marzo nel Congresso con lo scopo di esporre le cause della propria lotta, le richieste e le necessità dei popoli indigeni [18]. Bisogna ricordare che i membri del Partito Azione Nazionale non furono presenti mentre il comando dell’EZLN parlava nel Congresso. Quando il nucleo creolo, formato da gente per bene, è stato un adeguato interlocutore degli indigeni? Come era possibile? Questi indigeni del Chiapas stavano sovvertendo il sistema delle caste!
Il 25 aprile 2001 è una data significativa per il riposizionamento politico dell’EZLN, dato che in questo giorno il Senato approvò, per mezzo dei tre più importanti partiti (PRI, PAN, PRD), una riforma costituzionale in materia di diritti indigeni. Nonostante ciò suddetta riforma era radicalmente diversa da quella che aveva proposto l’EZLN e tradiva anche lo spirito degli Accordi di San Andrés. La sinistra istituzionale, come dire, il Partito della Rivoluzione Democratica mostrava finalmente da chi era composto: una moltitudine di scrocconi dell’erario pubblico. Cosa meglio di un ritratto parlato del PRD fatto dal Subcomandante Marcos:
“Il PRD, il partito degli ‘errori tattici’. L’errore tattico, con i suoi patti elettorali, di favorire gli affari di famiglie mascherate da partiti. L’errore tattico di allearsi con il PAN in alcuni stati e con il PRI in altri. L’errore tattico della controriforma indigena e dei paramilitari di Zinacantán. L’errore tattico di Rosario Robles [19] e dei video scandali. L’errore tattico di colpire e reprimere nel 1999 il movimento studentesco della UNAM [20]. L’errore tattico della ‘legge Ebrard’ [21] e della ‘legge Monsanto’. L’errore tattico della importata ‘tolleranza zero’ [22] e di perseguitare i giovani, gli omosessuali e le lesbiche per il ‘reato’ di essere differenti. L’errore tattico di tradire la memoria dei propri morti, di presentare come candidati i loro assasini e riciclare quelli in eccesso delle candidature priiste. L’errore tattico di trasformare movimenti popolari in burocrazie di partito e di governo. L’errore tattico dell’indecisione di fronte ai movimenti di resistenza e liberazione in altri paesi, di abbassare la testa di fronte al potere nordamericano e di cercare di ingraziarsi i potenti. L’errore tattico dell’alleanza con il narcotraffico nel Distretto Federale. L’errore tattico di chiedere denaro alla gente mentendo e dicendo che è per aiutare, ‘sotto l’acqua’, gli zapatisti. L’errore tattico di corteggiare vergognosamente i settori più reazionari del clero. L’errore tattico di usare i morti nella lotta come carta per l’impunità di rubare, depredare, corrompere, reprimere. L’errore tattico di correre verso il centro, pazzo di gioia con il proprio carico di errori tattici” [23].
Con la controriforma indigena, il Partito della Rivoluzione Democratica ha mostrato che era uno dei tanti partiti –senza divergenze ideologiche di fondo con il PRI o il PAN– nella lotta per il bilancio e per gli incarichi pubblici. Un partito che si era adattato alla logica della democrazia liberale e alla norma, un partito che non lesinava di ricevere transfughi dal PRI per riciclarli nelle proprie liste elettorali. Il PRD si trasformava nel partito della smemoratezza e dell’ignominia.
Dopo il tradimento della classe politica del Messico, l’EZLN si rese conto che questa classe politica non è la soluzione ma certamente una parte del problema strutturale che subisce il paese. In questo modo, nell’agosto del 2003 gli zapatisti creano le Giunte di Buon Governo traducendo tutta una eredità di pratiche di autonomia e di autogestione ispirata alla forme comunitarie del mondo indigeno e contadino. Questo modo di mettere in relazione l’autonomia con le forme di resistenza avrà un forte impatto nella configurazione dei movimenti sociali anti-sistema dell’America Latina [24]. È interessante percepire in varie parti del Latinoamerica questa sfiducia verso la vecchia e tradizionale classe politica da parte dei movimenti sociali.
In un altro ordine di idee, non dobbiamo scindere la lotta contro il narcotraffico dalle strategie contro-insurrezionali che sono state applicate –e si continua ad applicare in Messico– durante il governo di Felipe Calderón (2006-2012). Per esempio, nel novembre del 2010 –ci ha informato la giornalista Laura Castellanos– fu ucciso “il comandante Ramiro”, membro dell’Esercito Popolare Rivoluzionario Insorto (ERPI), in una operazione contro il narcotraffico. La Segreteria della Difesa sostenne che “il comandante Ramiro” era legato al narcotraffico, nonostante, mai fosse comprovata suddetta segnalazione. Nello medesimo ordine di idee, la stessa Castellanos commentò che: “Recentemente, si è tantato di legare un dirigente indigeno del sudest con un altro gruppo del narcotraffico, fu arrestato e gli furono fatte delle foto con un arsenale bellico e l’informazione fu divulgata nei notiziari, nonostante ciò, successivamente fu posto in libertà poiché non esistevano prove probatorie. Il paese sta passando un momento molto delicato, perché l’unica strategia applicata da Felipe Calderón è di portare l’esercito nelle strade e nelle zone rurali. Chiaramente questa strategia è stata un grande fracasso e ci sono state denuncie per la morte e le torture di civili che sono state ignorate. In questo scenario, sono più vulnerabili le comunità indigene che hanno preso coscienza della propria autonomia, come è successo con quella di Santa María Ostula, nel Michoacán, che non si scontra solo con una situazione socio-economica marginale, ma che affronta la violenza dei gruppi paramilitari che sono vincolati al narcotraffico. Negli ultimi mesi sono stati sequestrari e sono scomparsi tre membri di Bienes Cumunales del Pueblo, tra di loro il presidente, Francisco de Asís Verdía Manuel, senza avere loro notizie” [25].
L’arrivo del Partito Azione Nazionale alla presidenza della Repubblica ha condizionato la nuova distribuzione geografica e, di conseguenza, ha scatenato una lotta intestina tra i vari gruppi delinquenziali del paese. La fuga, nel 2001, di Joaquín Guzmán Loera, meglio conosciuto come “El Chapo Guzmán”, capo del “Cartello di Sinaloa”, ha messo in evidenza il fatto che il governo federale simpatizzava per uno specifico gruppo delinquenziale [26]. La classe politica –PRI, PAN, PRD– fa parte del crimine organizzato e viceversa.
Durante il regime di Calderón, l’EZLN ha continuato a praticare nelle comunità autonome la propria politica di “comandare obbedendo”. Senza rinunciare ad intavolare un dialogo sia pratico che teorico non solo con i principali movimenti sociali in America Latina ma anche con pensatori come Pablo González Casanova, Sylvia Marcos, Walter Mignolo, Enrique Dussel, Naomi Klein, Jean Robert, Immanuel Wallerstein, Raúl Zibechi, John Berger, Gilberto Valdez, tra gli altri, durante il mese di dicembre del 2007, nell’ambito del Primo Colloquio Internazionale In memoriam di Andrés Aubry e, un paio di anni più tardi, durante il Primo Festival Mondiale della “Degna rabbia” che ha avuto luogo a Città del Messico, nel Caracol di Oventik e nella città di San Cristóbal de las Casas. L’EZLN ha continuato a combattere, nei limiti delle sue possibilità, il sistema capitalista e la pesante responsabilità ideologica della democrazia rappresentativa. La critica delle armi e le armi della critica –come piaceva dire a Marx– continua ad essere fondamentale nella pratica zapatista.
L’altra Politica
Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2006, l’EZLN ha pubblicato la sua Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona. Era strutturata enfatizzando sei punti fondamentali: 1) Chi siamo, 2) Dove stiamo ora, 3) Come vediamo il mondo, 4) Come vediamo il nostro paese che è il Messico, 5) Che vogliamo fare, 6) Come lo faremo. Nel documento l’EZLN metteva in chiaro la propria posizione di fronte ai partiti politici che “hanno approvato una legge che non serve, hanno una buona volta ucciso il dialogo poiché non importa ciò che concordano o firmano perché non hanno parola” [27]. Nonostante ciò, questa rottura con la classe politica non implicò un punto di vista passivo –così ricorrente in accademici ed editorialisti d’orpello– ma la resistenza attiva e quotidiana nei municipi ribelli. La critica al sistema capitalista –e alla sua logica distruttiva– è centrale in questa dichiarazione. Qui sta una differenza importante, se prima l’EZLN si riferiva alla globalizzazione neoliberista, ora denunciava apertamente il capitalismo e, certamente, la sua espressione politica: la democrazia liberale borghese.
L’altra politica, “dal basso e per il basso”, che promuovono gli zapatisti non è una création ex nihilo ma frutto “di vari secoli di resistenza indigena e della stessa esperienza zapatista”. Questo è certamente uno dei principali segni dei movimenti latinoamericani di emancipazione giacché, da un lato, sovvertono la politica borghese così come è stata analizzata fin dal XVI secolo e, da l’altro, minano alle sue radici la pesante pietra tombale della colonialità del potere. Per mezzo dell’organizzazione orizzontale, l’autogestione come modo di produzione, il decentramento delle decisioni (sul piano politico e sociale), la democrazia faccia-a-faccia e, certamente, un altro modo di relazionarsi con la natura, i movimenti sociali latinoamericani, in generale, e gli zapatisti, in particolare, consolidano –apportando nuove esperienze– la lunga tradizione libertaria degli oppressi.
La colonialità del Potere –pesante struttura di dominazione– si fonda nell’interazione della razza, del genere e del lavoro. Nonostante ciò, suddetta struttura –come il capitalismo– è espressione di determinate relazioni sociali storiche e, pertanto, può essere trasformata nel momento in cui modifichiamo, attraverso la praxis, la nostra realtà. Nelle comunità autonome si cerca di trasformare questa struttura di potere. In questo senso, le parole della Comandanta Hortensia rivelano la volontà di smantellare la “colonialità del potere” radicata nell’immaginario sociale. Per lei, “per esempio, nella politica ci sono state delle donne nella direzione della nostra organizzazione, come Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno. Come responsabili locali e regionali, e delle compagne sono state anche nominate come supplenti del CCRI. Le donne già partecipano alle assemblee dei popoli. Già avviene nei progetti politici o nelle assemblee generali, per eleggere le proprie autorità, come per esempio: autorità municipali, Giunte di Buon Governo, agenti municipali, comissari del ejido e dei comitati per l’educazione. E anche per eleggere nella comunità comandanti politici, come responsabili locali (…) Per questo, noi donne non dobbiamo più farci da parte. Dobbiamo prepararci sempre di più. Per poter continuare in avanti e ad avanzare il più possibile che si può a tutti i livelli del lavoro. Perché se non lo facciamo noi, noi che stiamo già in questo mondo, che è un mondo dove per i capitalisti e i neoliberisti noi donne non abbiamo ancora faccia, nome né voce. Per questo, è l’ora di agire e di far valere i nostri diritti. Ma, per poter fare tutto questo, è necessario solo avere volontà, decisione, forza e ribellione. E non abbiamo bisogno di chiedere il permesso a nessuno. Ma tutto ciò che stiamo facendo e ciò che sto dicendo non è una invenzione, né un’immaginazione. Ma è una realtà. Lo abbiamo dimostrato nel Terzo Incontro, che un anno fa si è tenuto nel Caracol della Garrucha. Lì, come donne, abbiamo parlato e spiegato i nostri lavori” [28].
Di fronte allo stupore di alcuni disinformati, la negligenza di alcuni disorientati e la disillusione di molti arrivisti, l’EZLN ha deciso di non unirsi al progetto dell’allora candidato della diligente Sinistra istituzionale: Andrés Manuel López Obrador. Detta decisione è stata utile agli zapatisti per eludere non più solo l’accerchiamento militare ma anche un nuovo accerchiamento dell’informazione. Non c’è dubbio che una parte della classe politica e imprenditoriale del paese non si sentiva comoda con la crescente popolarità, in alcuni settori, di López Obrador. Nonostante i sotterfugi e i sofismi, da parte di Vicente Fox, per ottenere l’esclusione di López Obrador, questi ha saputo capitalizzare lo scontento sociale. Ma già nel 2005, quale era la percezione che l’EZLN aveva della figura di López Obrador?
“L’Andrés Manuel López Obrador (AMLO) proiettato all’apice della democrazia ‘moderna’ (ossia, le inchieste) dall’assurda campagna della coppia presidenziale. Colui che ha trasformato la mobilitazione cittadina contro l’autoritarismo dell’esclusione, in un atto di promozione personale e di apparizione personale. Colui che non ha detto, nella mobilitazione contro l’esclusione, la frase che realmente era necessaria, chissà ‘nessun dirigente ha diritto a capeggiare un movimento per una causa giusta, per sottoporlo, alle spalle della maggioranza, al proprio progetto personale di ricerca del Potere e di negoziare per questo’. Colui che convoca un corteo del silenzio e, invece di rispettarlo, lo usa per parlare al Potere, imponendo a tutti la parola di uno (…) Colui che ha, come uno dei suoi primi ‘comitati di appoggio’ indigeni in Chiapas, i capi indigeni e i paramilitari di Zinacantán, gli stessi che aggredirono il corteo zapatista del 10 aprile 2004. Colui che già vede se stesso con indosso la fascia presidenziale (…) Colui che paragonò se stesso a Francisco I. Madero … dimenticando che lui allo stesso modo di Madero non finisce come il democratico incarcerato da Porfirio Díaz, ma che continua con il Madero che formò la sua compagine di governo con gli stessi porfiriti (e che fu tradito da uno di loro). Con il Madero che, dando le spalle alle rivendicazioni dei diseredati, si dette il compito di mantenere la stessa struttura economica di sfruttamento, saccheggio e razzismo costruita dal regime porfirista. AMLO e i piccoli cardellini che gli svolazzano al lato si sono ‘dimenticati’ questi dettagli. E, soprattutto, si è ‘dimenticato’ che, di fronte a Madero, gli zapatisti hanno presentato il Piano di Ayala. Quel piano di cui Madero disse, parole più o meno, ‘pubblicatelo, che tutti sappiano che questo Zapata è matto’. Ma basta con questa storia passata e di comparazioni. Siamo agli inizi del XXI secolo e non del XX secolo (…) L’offerta centrale del programma presidenziale di AMLO è ‘stabilità macroeconomica’, come dire, ‘crescita dei profitti per i ricchi, crescita di miseria e spoliazione per i diseredati, e un ordine che controlli lo scontento di questi ultimi’. Quando si critica il progetto di AMLO non si tratta di criticare un progetto di sinistra, perché non lo è, così lo ha dichiarato e promesso López Obrador al Potere dei più in alto. Lui è stato chiaro e non lo vedono solo coloro che non vogliono vederlo (o non gli conviene vederlo) e continuano a sforzarsi di vederlo e presentarlo come un uomo di sinistra. Quello di AMLO è un progetto, secondo quanto lui stesso ha dichiarato, di centro (…) Se Carlos Salinas de Gortari fu il governante esemplare addetto alla distruzione neoliberista in Messico, López Obrador vuole essere il paradigma dell’addetto alla riorganizzazione neoliberista. Questo è il suo progetto” [29].
Come è già anche troppo risaputo, dopo il rovescio elettorale e l’evidente frode elettorale del 2006, la diligente Sinistra istituzionale (che per gli zapatisti “non è altro che una destra vergognosa”) al posto di fare un esame autocritico come gli ha intimato la stessa classe politica –con la quale per più di sei anni si è abituata a far coincidere gli affari o i progetti– ha perferito dedicarsi a vilipendere lo zapatismo [30]. L’allora presidente del PRD, Leonel Cota Montaño, e alcuni “editorialisti al soldo” dettero all’EZLN la colpa della sconfitta di López Obrador. Senza prendersi il minimo disturbo di capire la riconfigurazione politica ed ideologica dei movimenti sociali, di comprendere i loro obiettivi (simbolici e materiali), né di riflettere sulle conseguenze del silenzio complice (per sempio, quello di López Obrador di fronte al voto perredista al Senato contro gli Accordi di San Andrés o quello di Cota Montaño di fronte alle ostilità del governo di Juan Sabines –ex priista come il primo– verso le comunità zapatiste, tra molti altri) che questa diligente sinistra istituzionale ha mantenuto di fronte alle ignominiose decisioni e alle abiette azioni del Potere.
È innegabile che durante il tragico dodicennio si sono acutizzati lo scontento, la frustrazione e la divisione sociale a causa della sempre presente violenza strutturale e della mancanza di giustizia sociale, assenza permanente nelle società postcoloniali. Non c’è dubbio che le sequele dell’attuale forma sociale, e la sua produzione in serie di esseri da eliminare [31], si possono osservare nei terribili livelli di povertà (31 milioni di poveri) e di corruzione (secondo una evidenza internazionale, in questi ultimi sei anni il Messico è sceso di 33 posti) che si registrano nel paese. Avendo questo scenario, alcuni settori della società messicana hanno deciso di appoggiare attraverso il Movimento di Rigenerazione Nazionale (MORENA) la candidatura, di nuovo nel 2012, di Andrés Manuel López Obrador [32]. Certamente, l’acuto stridio degli editorialisti d’orpello e degli intellettuali organici della diligente Sinistra istituzionale ha diffamato la posizione dell’EZLN e di altri movimenti sociali (come quella del Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità) che non si sono uniti alla campagna di AMLO. Un’altra volta, gli indigeni zapatisti non sapevano quello che facevano …
Perché se già, fin dal 2005, l’EZLN aveva dichiarato la propria posizione di fronte alla politica di quelli in alto –la feticizzata politica borghese– doveva ripiegare su un progetto che non implicava una rottura con il capitale? Perché se già, fin dal 2001, la diligente Sinistra istituzionale aveva mostrato il suo percorso e il suo amoreggiamento con il potere, doveva essere la guida degli oppressi?
La “debole forza messianica” dalla selva Lacandona
Nel suo famoso libro Das Passagen-Werk, Walter Benjamin interpretò la modernità come “il tempo dell’inferno” [33]. Effettivamente, per Benjamin l’epoca moderna, misurata da una temporalità vuota, si definiva in relazione alla merce e alla logica del capitale. La ragione strumentale ha funzionato da arma per dominare popoli e da strumento per sfruttare la natura. Oggi, suddetta ragione strumentale non è più solo uno strumento ma una dittatura. Il capitalismo come religione –forse la più feroce, implacabile e irrazionale– che non contempla alcuna redenzione sta approssimandosi alla distruzione dell’Umanità e del Pianeta. Nonostante ciò, nella visione profetica di Benjamin esistono delle possibilità di lotta, momenti di resistenza, bagliori di speranza e di ribellione; è “la debole forza messianica” delle vittime.
Gli dei della morte, quelli che si nutrono del sanque e dei “valori d’uso”, non riconoscono altre divinità che non siano quelle che contribuiscono al “processo di valorizzazione”. Fin dal XVI secolo, le culture mesoamericane o preispaniche dell’altro Atlantico sono state testimoni delle nuove divinità della modernità: l’oro e l’argento. Milioni di indigeni morivano estraendo l’oro e l’argento dalle miniere, queste da loro erano chiamate “la bocca dell’inferno”. Come Moloch, la modernità incipiente aveva bisogno di vittime. Qui comincia la lunga notte dei 500 anni dei popoli originari. Di conseguenza non è fortuito che la lotta dei popoli originari –prime vittime della modernità– non solo trascenda, da un nucleo etico-mitico distinto, alla temporalità omogenea e vuota, ma che anche si opponga alla razionalità strumentale borghese.
Durante la Mezza notte nella storia –quando l’Anticristo si ergeva di fronte al compiacimento delle democrazie borghesi– un paio di romantici giudei rivoluzionari formularono l’idea che la tradizione degli oppressi (W. Benjamin) e la non-contemporaneità del contemporaneo (E. Bloch) sono solite trascendere –nella medesima lotta– alla temporalità vuota del capitale. Suddetta intuizione non ha potuto trovare una migliore espressione che nel sollevamento insurrezionale nel sudest messicano [34]. Cavalcando le verdeggianti montagne del Chiapas, percorrendo le pianure e vivendo nelle foreste, gli uomini e le donne zapatiste –come fulmini della storia– venivano ad interrompere il continuum della storia. Il “Ya Basta!” era la prova più convincente che “solo grazie a quelli senza speranza ci è data la speranza” [35].
Mentre l’intero Pianeta si trovava nell’incertezza per il presagio maya della fine del mondo, il 12/12 più di 40 mila indigeni –basi d’appoggio zapatiste– facevano una marcia del silenzio mostrandoci che lì continuavano: a resistere nelle montagne, a lottare per la giustizia, a camminare dritti, a sognare che un altro mondo è possibile, a darci una speranza, ma soprattutto, a darci una grande lezione di dignità.
*Luis Martínez Andrade, sociologo messicano. Nel 2009 ha ricevuto il Primo Premio del Concorso Internazionale di Saggistica “Pensare Controcorrente”.
Note dell’autore:
– Ringrazio i preziosi commenti e le osservazioni di René Rojas e di Alí Calderón, indubbiamente gli errori e le debolezze del testo sono una mia responsablità.
[2] Manuel Vázquez Montalbán, Marcos: el señor de los espejos, Aguilar, México, 2000, p. 108.
[3] Il termine “maizar” (tradottocon alimentare, n.d.t.) proviene dall’atto di lanciare mais agli uccelli per allevarli. Questo detto, inoltre, si riferisce alla cooptazione, che il governo fa, di intellettuali, giornalisti o politici di opposizione in cambio di denaro, posti di governo o riconoscimenti. Si racconta che quando il Generale Porfirio Díaz, che in nove occasioni governò il paese totalizzando quasi tre decenni, si sentiva perseguitato dalle critiche di qualcuno dei suoi oppositori soleva dire “questo gallo vuole il suo mais” con lo scopo di mobilitare l’apparato politico per una sua possibile cooptazione. All’interno della rassegna di tendenze che c’erano nella Rivoluzione Messicana risaltano soprattutto: il Magonismo (corrente anarchica rappresentata principalmente dai fratelli Ricardo e Enrique Flores Magón e da Praxides Guerreo), il Villismo del Nord (rappresentata da Francisco Villa) e lo zapatismo del Sud (simboleggiata dalla figura di Emiliano Zapata e dal suo Piano di Ayala). In certe occasioni l’EZLN omologa il ruolo della dittatura di Díaz con quella del Partito della Rivoluzione Istituzionale (P.R.I.) e, per questo, ricorre ad immagini e termini propri dell’immaginario contadino.
[4] Per Enrique Dussel, teologo e filosofo della liberazione, i comunicati dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale hanno il loro fondamento nella memoria collettiva perché danno un senso al presente, a questa richiesta di libertà, giustizia e democrazia con la quale gli indigeni amalgamano il proprio senso etico alla cosiddetta modernità. Il discorso zapatista è un luogo di memoria e incontro tra diverse visioni del mondo che erano state espulse dal discorso politico eurocentrico.
[5] Jorge Castañeda, La Utopía desarmada, J. Mortiz-Planeta, México, 1993.
[6] Manuel Vázquez Montalbán, Marcos, op. cit. 107.
[7] Naomi Klein, Vallas y ventanas, Paidos, Barcelona, 2002.
[8] Sous-commandant Marcos/ Yvon Le Bot, Le rêve zapatiste, Seuil, Paris, 1997, p. 214.
[9] Gloria Muñoz Ramírez, EZLN: 20 y 10, el fuego y la palabra, Rebeldía-La Jornada, México, 2005.
[10] Ong Thong Hoeung, J’ai cru aux Khmers rouges, Bouchet/Chastel, Paris, 2003.
[11] Nel 1959, Samuel Ruiz è nominato Vescovo di San Cristóbal de las Casas. Con influenze del Vaticano II, Samuel Ruiz va virando gradualmente verso posizioni più progressiste, legate alla Teologia della Liberazione. Nel 1974 Samuel Ruiz organizza anche Il Congresso Indigeno, evento fondamentale per la presa di coscienza delle comunità. Nell’agosto del 1995 il goveno di Ernesto Zedillo (PRI) e Giovanni Paolo II riescono a separare Samuel Ruiz dalla sua diocesi e, al suo posto, portano Raúl Vera pensando che sarà ostile al movimento zapatista. Nonostante ciò, Raúl Vera radicalizza la propria posizione e mostra simpatia per le lotte indigene. Successivamente, nel 1999, Vera viene nominato vescovo di Saltillo e nel suo lavoro si distinguono: la difesa dei Diritti Umani, l’appoggio alle rivendicazioni di miglioramento del lavoro dei minatori, l’aiuto agli immigranti, la lotta contro la discriminazione che soffrono gli omosessuali, tra le varie cose.
[12] Manuel Vázquez Montalbán, Marcos, op. cit. 126.
[13] Per il Subcomandante Marcos, i “mercenari della giustizia” sono quelli che pensano che la giustizia sia un fenomeno mediatico come lo è la politica. Tra loro si trova il giudice Baltasar Garzón che “brilla molto perseguitando l’ETA e in realtà l’unica cosa che ha fatto è perseguitare la cultura basca. Ha chiuso giornali, rinchiuso giornalisti, e lui lo presenta come facente parte della lotta al terrorismo”. Laura Castellanos, Corte de Caja. Entrevista al subcomandante Marcos, Endira, México, 2008, p. 105.
[14] Cfr. Luis Hernández Navarro, “Justicia a la Carta”, La Jornada, martes 11 de agosto 2009: http://www.jornada.unam.mx/2009/08/11/opinion/017a1pol
[15] In Messico è conosciuto come la “Decina Tragica” del movimento armato che abbatté il governo del presidente Francisco I. Madero e durò dal 9 al 18 febbraio 1913, come dire, dieci giorni. Qui con il “dodicennio tragico” ci riferiamo alle amministrazioni di governo del PAN di Vicente Fox (2000-2006) e di Felipe Calderón (2006-2012) che non solo hanno aumentato la povertà del paese ma che le hanno aggiunto un’ondata di violenza senza precedenti. Per esempio, la “guerra contro il Narcotraffico” dichiarata da Felipe Calderón nel 2006 ha comportato più di 80 mila morti. Senza menzionare i terribili livelli di violazione dei Diritti Umani che hanno rappresentato ambedue le amministrazioni.
[16] Gli accordi di San Andrés su Diritti e Cultura Indigena sono stati firmati il 16 febbraio 1996 tra l’EZLN e il governo del Messico con lo scopo di modificare la Costituzione e introdurre l’autonomia dei Popoli Indigeni del Messico. Ma nel settembre di quello stesso anno, l’EZLN si ritira dal tavolo dei negoziati dichiarando che il governo non voleva rispettare i suddetti Accordi. Conformemente all’articolo 13.2 della Convenzione 169 dell’OIL al governo toccò effettuare un “nuovo patto sociale” con i popoli indigeni. Disgraziatamente il governo non ha mai rispettato suddetti Accordi.
[17] Durante la sua candidatura, Vicente Fox aveva dichiarato che avrebbe risolto il problema del Chiapas in 15 minuti. È superfluo dire che non solo non lo nemmeno risolto ma che nemmeno ha ritirato l’esercito dal Chiapas, né sono cessate le ostilita contro le comunità zapatiste: http://www.pagina12.com.ar/2001/01-01/01-01-10/pag17.htm
[18] Vedere Gloria Muñoz Ramírez “A diez años de la Marcha del color de la Tierra”: http://www.jornada.unam.mx/2011/03/12/oja167-marcha.html
[19] Politica messicana che oltre ad essere una delle fondatrici del PRD, ne fu il suo presidente per qualche tempo. Grazie al suddetto partito fu capo di governo del Distretto Federale (1999-2000). Attualmente fa parte del gruppo di lavoro del presidente Enrique Peña Nieto (PRI).
[20] Tra l’aprile del 1999 e l’aprile del 2000, il movimento studentesco della UNAM si ribellò contro la modifica Generale dei Pagamenti che implicava un passo verso la privatizzazione dell’Educazione Medio Superiore e Superiore della Massima Casa degli Studi del paese. Dopo molte assemblee, gli studenti decisero di creare il Consiglio Generale dello Sciopero (CGH) come interlocutore del Rettore. Lo sciopero universitario, uno dei più lunghi nella storia dei movimenti studenteschi in America Latina, fu criticato dai principali mezzi di comunicazione del paese. Alcuni intellettuali a cui piace presentarsi “in alto” come progressisti e vicini al PRD criticarono il movimento studentesco. Cfr. Arturo Ramírez, Palabra de CGF. El testimonio de los huelguistas. Ediciones del milenio, México, 2000. Per conoscere la posizione dell’EZLN vedere: http://palabra.ezln.org.mx/comunicados/1999/1999_10_08_a.htm
[21] È conosciuta come “Legge Ebrard” la proposta fatta da Marcelo Ebrard per la modifica del Codice delle Procedure e delle Istituzioni Elettorali che ha come obiettivo di porre nuovi chiavistelli alla registrazione di nuovi partiti politici. Marcelo Ebrard, come la grande maggioranza dei presunti politici progressisti come Andrés Manuel López Obrador o Manuel Camacho Solís, incominciò la sua carriera politica nel PRI e, gradualmente, passò nella Sinistra Istituzionale. Certamente, il suo scivolamento verso la Sinistra Istituzionale fu più per motivi elettorali che ideologici.
[22] Il subcomandante Marcos ha sempre sottolineato la funzione dell’apparato repressivo imposto nel Distretto Federale durante la gestione di Andrés Manuel López Obrador, che importò dagli Stati Uniti la dottrina della tolleranza zero e che fu applicata dal governo di Marcelo Ebrard (2006-2012). Cfr. Primo vento del Festival Mondiale della Degna Rabbia, 2 gennaio 2009. Come in Grecia, Spagna o Cile, gli studenti sono accusati di essere vandali o banditi. Un esempio è stato il primo atto di governo, nel Distretto Federale, di Miguel Ángel Mancera Espinosa (PRD) nella repressione del 1 dicembre 2012 durante la cerimonia di ascesa al governo di Enrique Peña Nieto. È importante non dimenticare la tripletta López Obrador-Ebrard-Mancera, già sta preparando la propria candidatura per il 2018 quando ci saranno nuovamente le elezioni presidenziali. Il calendario del potere e i suoi tempi vuoti esprimono un altro modo della colonialità del potere e dell’ideologia liberal-borghese.
[23] Subcomandante Insurgente Marcos, “La (imposible) ¿Geometría? del poder en México”, in Sergio Rodríguez Lascano, La crisis del poder y nosotr@s, Rebeldía, México, 2010, p. 147-148.
[24] Sebbene gli zapatisti non siano i primi a portare a termine questa pratica di autogestione, già dagli anni novanta il Movimento dei Lavoratori senza Terra in Brasile (MST) va praticando l’autogestione nelle terre che occupa; il movimento indigeno zapatista impregna con i propri miti, leggente e linee di fede la produzione di altre soggettività relativamente alla terra e alla natura. Cfr. Raúl Zibechi, Autonomías y emancipaciones: América latina en movimiento, Bajo Tierra-Sísifo Ediciones, México, 2008.
[25] Intervista pubblicata nel quotidiano “El Columnista”, Puebla, México, 1 de junio 2010, p. 22. Disponible en: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=107229
[26] Sulla relazione tra l’amministrazione di Vicente Fox e il Cartello di Sinaloa consultare Anabel Hernández, Los señores del Narco, Grijalbo, México, 2010.
[27] http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2005/11/13/sexta-declaracion-de-la-selva-lacandona/
[28] “Quinto viento: una digna y femenina rabia”, 4 de enero 2009, México. Disponible en: http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2009/01/05/la-brutalidad-sexual-del-poder-y-la-otra-sexualidad-quinto-viento/
[29] Subcomandante Insurgente Marcos, “La (imposible) ¿Geometría? del poder en México”, op cit. p, 148-152.
[30] Non bisogna dimenticarsi che il 2 luglio 2006, giorno delle elezioni, ci fu una astensione del 30% dei rappresentanti di seggio del candidato López Obrador.
[31] Zygmunt Bauman, Wasted Lives. Modernity and its Outcasts, Polity, Cambridge, 2004.
[32] Per il resto non bisogna menzionare i patti di AMLO con la vecchia classe politica, certamente, non solo attorniato da René Bejarano e da Carlos Imaz, ma il suo appoggio alla candidatura per il Senato del Priista Manuel Bartlett Díaz. Nella vita politica del Messico si mette in relazione Bartlett con la frode elettorale del 1988 (che portò alla presidenza Carlos Salinas) e con la morte di un agente della DEA Drug Enforcement Administration) http://articles.latimes.com/1997/oct/26/news/mn-46907/5 . Nemmeno si deve dimenticare la vicinanza di AMLO ad Arturo Núñez Jiménez (ex priista, per variare) che il comandante Marcos ha sempre identificato come uno dei responsabili della strage di Acteal: http://www.jornada.unam.mx/2007/10/02/index.php?article=009n1pol§ion=politica
[33] Walter Benjamin, Libro de los pasajes, Akal, Madrid, 2005, p. 838-839
[34] Per Stefan Gandler, filosofo tedesco e alunno del recentemente scomparso Alfred Schmidt, “Essere rivoluzionario implicherebbe allora la capacità di ricordare, di vedere ed apprendere dalle generazioni passate, dalle loro esperienze e tradizioni. La semplice ossessione nelle presunte “modernizzazioni” ci preclude, al contrario, il cammino a questo salto della tigre. Le ricette della sinistra riformista e stalinista nelle ex colonie per superare prima le rimanenze delle società tradizionali, come dire, per assomigliare alle società del centro, come preliminare requisito per poter entrare nel progetto di una società radicalmente meno ripugnante, si basano su questa falsa concezione del ruolo delle tradizioni. I neozapatisti sono forse il gruppo che vede con più chiarezza la necessità di questo salto della tigre verso il passato e non è casuale che lo facciano dall’angolo più appartato del Messico, apparentemente dal luogo più lontano da questa altra società meno repressiva”. Stefan Gandler, Fragmentos de Frankfurt: ensayos sobre la Teoría Crítica, Universidad Autónoma de Querétaro-Siglo XXI, p. 79.
[35] “Nur um der Hoffnungslosen willen ist uns die Hoffnung gegeben“ scrisse Benjamin durante l’avvento dell’epoca fascista.
29-01-2013
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da: |
Luis Martínez Andrade, “De palabras ardientes y sueños rebeldes: la insurrección indígena” pubblicato il 29-01-2013 in Rebelión, su [http://www.rebelion.org/noticia.php?id=163011&titular=de-palabras-ardientes-y-sueños-rebeldes:-la-insurrección-indígena-] ultimo accesso 12-02-2013. |