Politiche sociali, governi progressisti e movimenti antisistema


Raúl Zibechi

Ondate di attivismo sociale hanno in America Latina modificato la relazione di forze ed hanno avuto come conseguenza indiretta l’insediamento nella maggior parte dei paesi del Sudamerica di un insieme di governi progressisti e di sinistra. L’azione collettiva ha cancellato il periodo neoliberale caratterizzato dalle privatizzazioni, dalla deregolamentazione e dall’apertura delle economie, ed ha aperto una fase più complessa nella quale convivono linee di uno stesso modello con la ricerca di percorsi basati su un maggiore protagonismo degli stati e la costruzione dell’integrazione regionale. Riguardo le politiche sociali il protagonismo dei movimenti sociali è stato decisivo nel configurare situazioni di crisi dove l’influenza dei soggetti popolari è risultata determinante al momento di chiudere una fase. A sua volta, le risposte date dagli stati nelle situazioni di maggior emergenza sociale, hanno permesso la nascita di una seconda generazione di politiche sociali che in qualche modo sostituiscono le politiche centrate e compensatorie del periodo neoliberale (Clemente; Girolami, 2006). Questa nuova gamma di politiche non solo estende ma aumenta anche le diverse prestazioni già esistenti, stabilendo nuovi modi di relazione società-stato che influiscono sul tipo di governabilità che i governi della regione, chiamati progressisti, in qualche modo inaugurano. Le nuove forme di governo, nelle quali le politiche sociali giocano un ruolo rilevante, si confrontano e si ripercuotono, allo stesso tempo, sulle caratteristiche dei movimenti nati in questa fase che si differenziano da quelli del periodo precedente in cui i sindacati avevano un ruolo centrale. I movimenti che sono stati protagonisti nel decennio del 1990 sono su base territoriale, rappresentano gli esclusi dal neoliberismo, i disoccupati, i senza tetto, i senza terra e senza diritti, insomma quelli che abitano la cantina delle società, hanno una forte impronta culturale e identitaria, ed un ruolo protagonista delle donne e delle famiglie (Zibechi, 2003).

Questi movimenti sono nati nell’ambito dell’accumulazione per depredazione (Harvey, 2003), e hanno rappresentato l’opposizione al nuovo patrono adottato dal capitale, che si può sintetizzare nei postulati del Consenso di Washington: liberalizzazione dei movimenti di capitali, deregolamentazioni, apertura economica, aggiustamento fiscale e privatizzazioni. La novità principale della nuova congiuntura regionale consiste, a mio modo di vedere, nel fatto che il Consenso di Washington è stato delegittimato ma il neoliberismo non è stato sconfitto. Al contrario, l’accumulazione per depredazione – basata sul modello estrattivista – continua ad aumentare in questa fase attraverso l’industria mineraria multinazionale a cielo aperto, le monocoltivazioni di soia, di canna da zucchero e di palma, ed il complesso forestazione-cellulosa. Queste iniziative, dirette sempre da grandi multinazionali, si appropriano dei beni comuni – in particolare acqua e territori – per trasformare la natura in mercanzie (commodities) esportate verso i paesi centrali o emergenti come Cina ed India.

La privatizzazione, conclude Roy, consiste essenzialmente nel “trasferimento di attivi pubblici produttivi ad imprese private. Tra questi attivi produttivi si trovano le risorse naturali: terra, boschi, acqua, aria. Questi sono attivi che lo stato possiede in nome del popolo che rappresenta (…). Portarli via per venderli ad imprese private rappresenta un processo di spoliazione barbaro, su una scala senza precedenti nella storia” (Harvey, 2003, 127).

Una seconda caratteristica della nuova governabilità è il fatto che l’accumulazione per depredazione deve essere necessariamente compensata con politiche sociali, poiché strutturalmente l’egemonia del capitale finanziario genera esclusione e marginalizzazione della forza lavoro. Le iniziative minerarie andine, i cinquanta milioni di ettari seminati con soia e le coltivazioni forestali, quasi non hanno bisogno di mano d’opera, ma sì di molta acqua che ritorna contaminata con mercurio e pesticidi. Il modello estrattivista, a differenza del modello industriale che necessita di operai nella produzione e di operai nel consumo (ossia nella produzione e nella realizzazione del plusvalore), può funzionare con macchine automatizzate e robot, e non ha bisogno di consumatori giacché le commodities vengono vendute in paesi lontani.

Per questa ragione, una volta delegittimata l’era delle privatizzazioni, il modello estrattivista deve essere pilotato da governi progressisti, che sono i più adatti per scontrarsi con la resistenza sociale giacché provengono da quella. Harvey segnala, con totale successo, che i movimenti che si sono sollevati contro l’accumulazione per depredazione “in genere hanno intrapreso una propria via politica, in alcuni casi molto ostile alla politica socialista” (Harvey, 2003, 130). Ma non ci dice cosa succede ai movimenti sociali quando lo stesso modello è diretto da una parte della coalizione che ha guidato le rivolte. Quando si dice che l’America Latina è un laboratorio di resistenze sociali, bisognerebbe non dimenticarsi che, parallelamente, è anche un banco di prova di programmi per placare le rivolte sociali. Come le necessità dei più poveri non si calmano con discorsi, quantunque siano radicali, ci sembra necessario indagare come siano stati costruiti i meccanismi capaci di placare la conflittualità sociale di carattere territoriale, chiave per lubrificare le nuove governabilità.

Politiche sociali per garantire la stabilità

Nonostante la varietà e diversità di situazioni, una prima costatazione è l’ampliamento quantitativo dei beneficiari delle politiche sociali. In Brasile il Piano Borsa Famiglia raggiunge 50 milioni di persone, un 30% della popolazione, mentre che in alcuni stati del nordest i beneficiari arrivano al 65% degli abitanti. Anche se il Brasile è il paese dove la copertura ha la maggiore ampiezza, in nessun caso le cifre scendono al 15-20% della popolazione totale assistita da politiche sociali. In tutta la regione i beneficiari sono più di cento milioni di poveri che, da un lato, hanno migliorato la loro situazione materiale, ma ora hanno meno motivi per organizzarsi in movimenti sociali.

Nonostante ciò, la cosa più rilevante sono i cambiamenti introdotti rispetto alla prima generazione di politiche sociali, precisamente per la grandezza della problematica che si cerca di affrontare. Alcuni anni fa  uno dei più importanti teorici latinoamericani sul tema riassumeva così la necessità di introdurre cambiamenti di fondo nelle politiche mirate e compensatorie verso la povertà, predominanti in quel periodo: “L’imponenza dell’esclusione e del degrado del lavoro salariato e autonomo esistente richiede un cambiamento di visione. La politica sociale assistenzialista diretta a compensare le distruzioni che genera l’economia è inefficace e riproduce ed istituzionalizza la povertà” (Coraggio, 2004, 318).

La proposta ha una duplice dimensione: su scala generale di rompere con le politiche privatizzatrici e di arretramento degli stati che hanno caratterizzato il decennio del 1990, e su scala locale e territoriale, spazi dove le politiche sociali si traducono in interventi concreti, “di promuovere non la passività ma l’attività della gente” (Coraggio, 2004, 319), affinché si integri o metta in piedi iniziative che si concludano con un aumento delle loro entrate. La richiesta di attivismo sociale, individuale o collettivo, suppone un cambio radicale rispetto al precedente concetto del “beneficiario” come oggetto passivo di politiche compensatorie basate sui trasferimenti monetari. In questo modo, la nuova generazione di politiche sociali si congiunge con l’ondata di mobilitazioni che nella regione è stata il segno caratteristico dei 90, servendosi e sommandosi all’universo di organizzazioni e movimenti sociali per integrarli alle nuove politiche.

Certamente questo processo non è stato graduale né uniforme, e non si è registrato in tutti i paesi con una identica intensità. Desidero indagare il caso dell’appoggio statale ai progetti socio-produttivi, o economia solidaria, per considerare che si tratta di una delle svolte più profonde in materia di politiche sociali che riguardano – o desiderano farlo – la governabilità, stabilendo nuove relazioni società-stato.

Si deve comprendere che non si tratta solo di una questione quantitativa rispetto alle risorse, ma di “reindirizzare le risorse delle politiche sociali” (Coraggio, 2004, 314), con il convincimento che i reinserimento sociale degli esclusi richiede un lungo processo di intenso lavoro (che Coraggio stima in un minimo di un decennio), ma soprattutto di dimostrare i limiti dell’assistenzialismo come elemento di superamento dell’esclusione. Insomma, su come abbia tanta o maggiore importanza ciò che si vuole fare. Da lì la proposta di “’occuparsi’ dell’economia per cambiare l’attuale situazione” (Coraggio, 2004, 319). A questo punto si sviluppa una proposta che non vuole inventare ma servirsi della spinta dei movimenti sociali per incanalare un insieme di energie che, sulla base dell’attivismo che ha creato migliaia di iniziative produttive per ridurre la miseria, permetta di approfondire e migliorare quelle iniziative per incanalarle nel duplice senso di integrazione sociale e sviluppo nazionale.

In questa direzione, i governi progressisti del Cono Sud hanno saputo comprendere il fenomeno ed hanno considerato con audacia teorica e pratiche originali le rotture implicite nella nuova generazione dei movimenti, poiché in grande misura i loro quadri e amministratori provengono dal cuore di questo nuovo attivismo di base, dalla forte impronta territoriale. L’esperienza dell’emergenza sociale del 1989 causata dall’iperinflazione in Argentina, ha permesso di comprendere la risposta dei municipi durante l’emergenza del 2001 in maniera più complessa. Il punto di inizio può essere stato simile, nel senso che “i municipi argentini sono tornati a lanciare raffiche di lenticchie, polenta e latte in polvere, evitando l’esplosione sociale proteggendo la nostra democrazia” (Clemente; Girolami, 2006, 9). Ma quando si posa lo sguardo su quanto successo sul territorio, si pone l’accento sulla “analisi dei vincoli, conflittuali e cooperativi, che si sono stabiliti nella crisi tra i governi locali e le organizzazioni sociali – specialmente quelle sorte durante la protesta sociale degli anni novanta” (Clemente; Girolami, 2006, 11).

Nonostante l’intensità della crisi (la povertà in Argentina raggiunse il 54,3% e l’indigenza il 27,7% della popolazione) e la vastità del conflitto (diecimila blocchi di vie e di strade nel 2002, assalti a supermercati e decine di morti nel 2001), si è compreso che la distruzione è stata una opportunità per creare nuovi canali per soddisfare richieste sociali insoddisfatte. La crisi e l’emergenza sociale, oltre ad un ampio movimento sociale territoriale dei disoccupati, hanno attivato nuove capacità: di creare consenso, di organizzazione sociale e di contenimento delle famiglie. “La gestione dell’emergenza mette in gioco e/o incentiva lo sviluppo di differenti capacità che, sebbene siano proprie della gestione pubblica, non è abituale trovare dispiegate insieme nel campo della politica sociale” (Clemente; Girolami, 2006, 92).

Non aver negato o represso il conflitto, l’impegno a pianificarlo e canalizzarlo per mantenere la governabilità, ha portato una nidiata di professionisti – una parte dei quali hanno avuto successivamente incarichi importanti in ministeri per lo sviluppo sociale – a comprendere la necessità di contare sui movimenti per – precisamente – assicurare questa governabilità che sembrava scappare di mano nei momenti più gelidi della crisi. Per questo esiste un certo consenso sul fatto che la crisi è stata generatrice della nuova generazione di politiche sociali. Tra le capacità che la crisi mette in moto, appare la forte interazione tra organizzazioni sociali e stato, che ha convertito le prime, aldilà della loro stessa volontà, “in una estensione operativa delle politiche municipali destinate ad alleviare la crisi” (Clemente; Girolami, 2006, 97). Detto in un altro modo, la mobilitazione sociale apre le porte a nuove articolazioni territoriali per configurare politiche sociali, nelle quali si distinguono i municipi, le chiese, le organizzazioni imprenditoriali, le organizzazioni social tradizionali (sindacati, associazioni di aiuto, cooperative) ed i nuovi movimenti (picqueteri, assemblee di quartiere).

La mobilitazione sociale passa dall’essere considerata un problema ad essere vista come una opportunità. Insieme alla logica ascendente della domanda sociale,  appare una contraria – ma complementare – il cui soggetto è lo stato, ma ora condivisa con gli attori territoriali: “Allo stesso tempo viene creata dal potere locale una logica discendente dove l’esistenza di queste organizzazioni costituiscono canali per l’assistenza sociale dello stato ed il punto più vicino per l’arrivo delle politiche sociali mirate territorialmente alle famiglie beneficiarie” (Clemente; Girolami, 2006, 57).

Questa andata e ritorno è stata intercettata dalle autorità dell’area sociale come una opportunità per modificare la prima generazione di politiche sociali, che nei fatti erano esplose per la fenomenale domanda provocata dalla crisi del 2001.  Ma per fare questo passo mancava di fare assegnamento sulle organizzazioni, non nel senso di usarle come appoggio o veicolo delle politiche sociali ma per poter co-costruire queste politiche in modo che avessero una maggiore legittimità e profondità sul territorio. Si può dire che si è agito con pragmatismo, ma certamente il fatto è che una nidiata di analisti e gestori furono capaci di vedere l’opportunità che si presentava giacché “sul territorio fu tessuto ciò che potremmo rappresentare come un ampio telo di contenzione al quale progressivamente si sono aggiunti attori sociali fino al momento assenti, come gli impresari e i sindacati, ed altri che stavano attuando dalla parte della protesta, come i movimenti dei disoccupati” (Clemente; Girolami, 2006, 86).

A questo punto operano come minimo due elementi addizionali, ambedue legati ad una nuova comprensione dei cambiamenti introdotti dal modello neoliberale. Da un lato, gli effetti della crisi della società salariale e i problemi strutturali del mercato del lavoro, che portano gli esclusi alla ricerca di forme di auto impiego “che si evidenziano nella creazione di microimprese, di imprese recuperate, di attività familiari, di feste sociali, di reti del baratto, di commercio giusto e di micro credito” (Arroyo, 2009, 88). Lo stato ricostruito dopo l’esplosione sociale del 2001, vede nel consolidamento dell’economia sociale un attore per creare politiche di sviluppo con integrazione. Questo spiega l’interesse dello stato, non solo in Argentina ma in modo molto rilevante in Brasile e Uruguay, tra gli altri, a rafforzare un settore che schiude la possibilità di promuovere sviluppo economico in differenti direzioni da quelle che proclama l’economia di mercato.

In secondo luogo, si cerca di superare la povertà con misure che puntano, oltre verso una nuova economia, verso un concetto più dinamico di cittadinanza e meno legato ad uno sguardo riduzionista che reifica i poveri come “beneficiari”. Daniel Arroyo, ex ministro dello Sviluppo Sociale della provincia di Buenos Aires ed ex segretario per le Politiche Sociali del Ministero dello Sviluppo Sociale, punta in questa direzione:

Non si ottiene l’integrazione sociale garantendo la sopravvivenza delle persone, ma affermando il diritto di tutti a vivere degnamente in una società senza esclusi e che l’inclusione dipenda significativamente dalla partecipazione popolare alla vita comunitaria in un pieno ed attivo esercizio della cittadinanza (Arroyo, 2009, 125).

Queste forme di affrontare il superamento della povertà hanno portato le autorità ministeriali a prestare una speciale attenzione all’economia sociale e solidaria. Mentre il contratto sociale che ha dato origine al welfare, specialmente importante in Argentina ed Uruguay, si riassumeva in rischio per il capitale e sicurezza per il lavoro, il modello deregolatore ha invertito l’equazione facendo in modo che “l’insicurezza sia parte della vita quotidiana dei lavoratori e la sicurezza figuri come attributo esclusivo del capitale” (Arroyo, 2009, 127). Per modificare questa equazione, senza creare panico nei capitalisti, si propone in sintonia con Pierre Rosanvallon, “la promozione di lavori di vicinanza e l’utilizzazione delle reti territoriali per la creazione di lavoro e la redifinizione della previdenza sociale” (Arroyo, 2009, 126).

I progetti socio-produttivi o la governabilità su una scala micro

Esiste un certo consenso sul fatto che i suddetti progetti socio-produttivi, l’economia sociale o economia solidaria, sono venuti crescendo dallo momento della messa in moto del modello neoliberale e che è una delle principali conseguenze della crisi di quel modello tra il 1998 ed il 2002. A tal punto in Brasile l’economia solidaria occupa un ruolo importante che ha meritato la creazione di una Segreteria Nazionale (SENAES) nel Ministero del Lavoro guidata dall’economista Paul Singer. Il I Congresso Nazionale di Economia Solidaria, celebrato nel 2006, è stato convocato dai ministeri del Lavoro, dello Sviluppo Sociale e dello Sviluppo Agrario. Il regolamento della conferenza ha stabilito che venissero eletti più di mille delegati nelle conferenze statali, dei quali la metà rappresentavano le iniziative di economia solidaria, una quarta parte organismi del potere statale e l’altra quarta parte gli enti della società civile (Ministerio de Trabalho e Emprego, 2006). Un movimento che conta su 15 mila iniziative economiche di base e su 1.200.000 associati è stato istituzionalizzato, al punto di integrarsi con le politiche di sviluppo del governo federale.

Si tratta di un movimento sociale nato contro il modello, che ora è promosso come strategia e politica di sviluppo. Paul Singer ha sostenuto, nell’ambito del I Congresso, che l’economia solidaria “rovescia la logica capitalistica opponendosi allo sfruttamento del lavoro e delle risorse naturali, attraverso l’emergere di un nuovo attore sociale”, che secondo la sua opinione può “superare le contraddizioni  proprie del capitalismo, cosa che caratterizza il suo attuare come un processo rivoluzionario” (Ministerio de Trabalho e Emprego, 2006, 11). Arriva più lontano definendo, d’accordo con il governo di Lula, l’economia solidaria come “erede delle più antiche lotte di emancipazione popolare”, e sottolineando la sua capacità di “costruire una società senza classi, la società socialista” (Ministerio de Trabalho e Emprego, 2006, 11). Per quanto discutibile possa sembrare la posizione governativa, attira l’attenzione il fatto che nello stesso testo Singer sostenga che questo potenziale emancipatore non possa essere realizzato senza l’intervento dello stato attraverso le sue politiche sociali:

Poiché lo sviluppo solidario è promosso da comunità povere, hanno bisogno dell’appoggio degli organismi governativi, delle banche pubbliche, di ONG, università e organizzazioni autonome di sviluppo per individuare e sviluppare le proprie potenzialità socioeconomiche, etniche, e culturali. Uno sviluppo sostenibile con distribuzione di reddito, mediante una crescita economica che protegge gli ecosistemi, richiede alleanze tra le organizzazioni solidarie del campo e della città con i poteri pubblici nelle tre aree di governo (Ministerio de Trabalho e Emprego, 2006, 11).

Nel caso argentino la consapevolezza statale è simile. Si fa un parallelo tra l’iperinflazione del 1989 e la svalutazione del 2001. Mentre la prima “portò le pentole popolari come base di quello che sarebbero state successivamente le mense comunitarie, la svalutazione produce le strategie dell’economia sociale come ricerca di risposte alla mancanza di entrate” (Clemente; Girolami, 2006, 131). La linea di lavoro consiste nel “costruire con” giacché la definizione unilaterale da parte dello stato delle politiche sociali ha dimostrato che presenta limiti insuperabili. Si procede ad una specie di divisione del lavoro: lo stato apporta risorse e personale specializzato mentre le organizzazioni di base apportano la conoscenza territoriale e le relazioni faccia a faccia con gli altri diseredati con i quali hanno legami orizzontali e di fiducia.

In questa nuova fase, le politiche sociali devono essere partecipative e pertanto rivalutano la componente di cooperazione e associazione come elementi chiave per creare reti di contenzione delle persone disoccupate. “Con più partecipazione e mobilitazione dei settori colpiti, più possibilità di relazionare il problema della disoccupazione come un problema sociale e non come un deficit personale, lettura che favorisce lo sviluppo delle iniziative socioproduttive come strategia delle organizzazioni dello stesso settore colpito” (Clemente; Girolami, 2006, 135).

Da un punto di vista strettamente tecnico, si produce un cambiamento notevole: l’associazionismo, la capacità di organizzarsi e mobilitarsi, si collega con la necessità delle politiche sociali di ristabilire le perdute capacità al lavoro e alla cooperazione tra diversi soggetti e differenti attori nella società. Queste capacità, precisamente, sono quelle che sviluppano i poveri organizzati in movimenti e quelle che i ministeri dello Sviluppo Sociale hanno bisogno di potenziare affinché le risorse che riversano sui terrirori della povertà non siano dilapidate da pratiche clientelari, corruzione o semplice inefficienza burocratica. Voglio insistere sul fatto che per i governi progressisti del Cono Sud appoggiare il movimento sociale non è solo una opzione politica, ma il migliore modo di investire le sempre scarse risorse con efficienza e con un più probabile ritorno insieme a  coloro che vengono presi in considerazione. Averlo compreso è una delle rotture più notevoli che ha prodotto la seconda generazione di politiche sociali.

Per il tipo di collegamento, centrato sulla produzione e non sul consumo di sussistenza, in questi progetti anche la relazione dei beneficiari con lo stato può essere meno asimmetrica. Alla fine, la possibilità di ristabilire saperi collegati al lavoro (soprattutto mestieri), che tornano ad essere socialmente valorizzati, contribuisce anche alla costruzione di canali di integrazione sociale (Clemente, 2006, 136).

L’appoggio ai progetti socio produttivi, figli delle migliaia di iniziative create dai piqueteri per incrementare le scarse risorse che lo stato apportava durante l’emergenza sociale, ha letture e origini diverse. Lo stato è stato modificato dalla crisi ma lo sono state anche le organizzazioni sociali. A marzo del 2005, il programma statale Mettiamoci al Lavoro del Ministero dello Sviluppo Sociale è arrivato a finanziare 33.861 unità produttive raggiungendo in totale 425.670 piccoli produttori (Clemente; Girolami, 2006, 125). Un intervento così vasto non ha potuto che influire seriamente sulla micro-relazione interna nelle iniziative. Queste hanno guadagnato in stabilità, hanno migliorato considerevolmente le entrate dei propri partecipanti ed hanno permesso di configurare relazioni di fiducia con le istituzioni. Insomma, hanno lubrificato la governabilità.

Sfide dei movimenti di fronte alle politiche sociali

In questa nuova fase sono i movimenti quelli che affrontano un nuovo problema, a cui non erano preparati. La governabilità nello scenario nazionale, o regionale, è basata, e prefigurata, in migliaia di microspazi, e l’una non potrà essere compresa senza l’altra. La relazione tra i governi progressisti della regione sudamericana e i movimenti sociali nuovi di zecca, passa necessariamente attraverso questi spazi e questi territori dove il modello proposto nel Consenso di Washington è risultato depredatore del rapporto sociale. Perché la legittimità dei governi principalmente non si gioca sul terreno delle macro politiche, ancor meno sui diritti universali, ma sul loro ruolo di fornitore di benessere della popolazione (Chatterjee, 2007). È stato esattamente nel periodo dell’emergenza, mostrandosi capace di garantire per lo meno la giornaliera alimentazione di base di milioni di poveri ed impoveriti, che lo stato argentino ha cominciato a rimontare la grave delegittimazione provocata dall’ultima dittatura militare (1976-1982) e da un decennio di neoliberismo depredatore (1990-2000). Anche gli altri stati ottengono la propria legittimità, in grande misura, dai risultati delle loro politiche sociali.

Il maggiore problema che affrontano i movimenti nati nell’ultimo decennio, è che il modello neoliberista, o più precisamente l’accumulazione per depredazione e l’estrattivismo, sono lontani dall’essere stati superati. In tutta la regione questo modello si è acuito aggravando le contraddizioni sociali ed ambientali, creando ciò che il sociologo brasiliano Francisco De Oliveira definisce come “egemonia alla rovescia” (De Oliveira, 2007). Secondo la sua opinione, lontano dal ridurre l’autonomia del mercato, il governo Lula ha continuato il sentiero aperto dai presidenti Fernando Collor (1990-1992) e Fernando Henrique Cardoso (1995- 2003), giacché “ha solo aumentato l’autonomia del capitale, togliendo alle classi lavoratrici e alla politica qualsiasi possibilità di diminuire la diseguaglianza sociale e di aumentare la partecipazione democratica” (De Oliveira, 2009). Il modello neoliberista continua a funzionare ma non ruota più intorno alle privatizzazioni, all’apertura economica e alla deregolamentazione, ma si è riversato sull’appropriazione dei beni comuni. In ogni caso, la diseguaglianza continua a crescere nonostante le politiche sociali (che in Brasile rappresentano appena l’ 1% del PIL), le banche hanno i maggiori introiti della loro storia e la crescita economica si basa sulle esportazioni di commodities agropastorali e dei minerali del ferro, in una sorta di riprimarizzazione della struttura produttiva del paese. È il cammino che seguono i paesi della regione, al di là delle forze politiche incaricate di amministrare il governo.

Le politiche sociali accompagnano e “compensano” l’intensificazione del modello neoliberale. Hanno ottenuto la pratica scomparsa dei movimenti sociali ma, soprattutto, ottengono di spoliticizzare la povertà e la disuguaglianza trasformandole “in problemi di amministrazione” (De Oliveira, 2007). I dibattiti intorno alla povertà dimostrano la giustezza di questa valutazione, giacché appaiono centrati su questioni tecniche e operative nelle quali evaporano i concetti di oppressione e sfruttamento e le cause strutturali della disuguaglianza. La simultanea accentuazione del modello neoliberista e l’estensione dei programmi sociali come Borsa Famiglia, ci pone di fronte ad un fenomeno nuovo, che richiede nuove riflessioni. De Oliveira sostiene che i programmi sociali non stanno integrando le classi dominate, come sostengono molti analisti, ma appena migliorando le loro entrate. Il nuovo scenario, dal trionfo elettorale di Lula nel 2002, impone di ripensare l’arsenale teorico con il quale si prende in esame la realtà.

Sostiene che le classi dominate hanno ottenuto la guida della società, ma al prezzo di legittimare il capitalismo selvaggio:

Siamo di fronte ad una nuova dominazione: i dominati realizzano la “rivoluzione morale” – sconfitta dell’apartheid in Sudafrica, elezione di Lula e Borsa Famiglia in Brasile – che si trasforma, e si deforma, in capitolazione di fronte allo sfruttamento sfrenato. Nei termini di Marx e di Engels, dall’equazione “forza+consenso” che forma l’egemonia, sparisce l’elemento “forza”. Ed il consenso si trasforma nel suo contrario: non sono più i dominati quelli che consentono il loro proprio sfruttamento. Sono i dominanti – i capitalisti ed il capitale – quelli che consentono di essere politicamente diretti dai dominati, a condizione che la “direzione morale” non metta in questione la forma di sfruttamento capitalista. È una rivoluzione epistemologica per la quale non abbiamo ancora uno strumento teorico adeguato. La nostra eredità marxista gramsciana può essere il punto di partenza, ma non è più il punto di arrivo (De Oliveira, 2007).

Per i movimenti è il peggiore scenario immaginabile, se si pensa in termini di lunga durata e di emancipazione. Che le classi dominanti accettino di essere governate da chi si proclama rappresentante di quelli abbasso è, da un lato, il prezzo che hanno dovuto pagare di fronte all’irruzione massiccia di questo abbasso organizzato in movimenti. Parallelamente suppone un cambiamento culturale di lunga durata nella relazione tra dominanti e dominati, soprattutto in quei paesi – la maggior parte di quelli della regione – dove ha governato una oligarchia formatasi durante il periodo coloniale che ha mostrato un profondo disprezzo per i settori popolari.

Per il momento esistono scarsi dibattiti su questa nuova realtà. La maggior parte dei movimenti e degli intellettuali di sinistra continuano ad essere impegnati nel rendere visibili i governi progressisti come il male minore, di fronte al timore della restaurazione delle destre conservatrici, con le quali alcune sinistre hanno sempre meno differenze. Il problema potrebbe essere formulato, come lo fa il Grupo Acontecimiento (Gruppo Evento, n.d.t.), nel seguente modo: “Come operare all’interno di un campo in cui convivono il desiderio di inventare – qui ed ora – una nuova radicalità politica e, allo stesso tempo, vederci costantemente obbligati a rimanere fuori dai processi che giorno per giorno ci si prospettano? (Grupo Acontecimiento, 2009, 7).

Per superare questa difficile situazione, che alcuni qualificano come “impasse” (Colectivo Situaciones, 2009), i movimenti ed il pensiero critico dovrebbero affrontare quattro sfide ineludibili, che passo a commentare.

1) Il tipo di regime politico relativo ad un periodo segnato dall’accumulazione per depredazione e dal modello estrattivista non è lo stesso che ha riguardato il periodo di sostituzione delle importazioni e dello sviluppo industriale che hanno permesso di costruire uno Stato del Benessere, anche con tutti i limiti che ha avuto in America Latina. Viviamo sotto regimi elettorali che permettono la rotazione dei gruppi dirigenti ma che bloccano i cambiamenti strutturali, salvo che ci siano delle esplosioni dal basso che impongono la ricerca di nuovi modelli. Insomma, democrazie limitate, tutelate dal blando potere dei mezzi di comunicazione di massa che condizionano e delimitano l’agenda politica, e il potere duro dell’impero, il capitale finanziario e le multinazionali, che minacciano di destabilizzare i governi che cercano ampliare i cambiamenti di fondo. Lo stato non potrà essere, pertanto,  la leva principale dei cambiamenti necessari. Affinché siano possibili, è necessaria l’irruzione dei settori popolari organizzati in movimenti.

Escludo i casi della Bolivia e del Venezuela dove le classi dominanti vengono colpite nei loro interessi.

2) Nell’attuale congiuntura, in senso stretto non possiamo più continuare a parlare di movimenti sociali ma di organizzazioni sociali. Queste sono caratterizzate dall’esistenza di gerarchie interne e divisioni del lavoro tra coloro che prendono decisioni e coloro che le eseguono, che vengono a sostituire i meccanismi della democrazia diretta che caratterizzano i movimenti. Queste organizzazioni, inoltre, hanno stanziamenti fissi, fonti di risorse regolari, formazione politica e tecnica propria, gruppi di lavoro e settore amministrativo, come parte della statalizzazione della società civile (Instituto Humanitas Unisinos, 2009). Molti movimenti, che sono stati formattati dalla cooperazione internazionale e dalle politiche sociali, presentano un profilo molto simile, se non identico, a quello delle ONG con le quali hanno continui legami e relazioni di dipendenza economica ed intellettuale. Una delle conseguenze è la professionalizzazione dei gruppi dirigenti dei movimenti.

Non sarà possibile recuperare il protagonismo dei movimenti sociali senza un ritorno alle pratiche di base e ad un chiarimento concettuale che porti a gettar via idee introdotte nel corpo sociale dalla cooperazione. Ossia, il ritorno al conflitto come asse organizzatore dei movimenti e delle loro analisi e della comprensione della realtà. Il concetto di società civile, attraverso cui viene trasmessa la proposta politica di lavorare per una società armonica integrata da attori che cercano il consenso e operano attraverso quello, è uno dei vari lasciti della cooperazione (Pérez Baltodano, 2006).

3) È necessario comprendere le politiche sociali non come “conquiste” ma come il modo di governare e contenere i poveri per permettere la privatizzazione dei beni comuni. L’attuale modello estrattivista non è sostenibile senza politiche sociali poiché impedisce la distribuzione di reddito, esclude ampi settori della popolazione giacché non ha necessità né di lavoratori né di consumatori, è accentratore e favorisce la militarizzazione degli spazi che controlla. Propongo che le politiche sociali siano intese come un nuovo panoptico, come un modo di controllo e disciplinamento a cielo aperto delle moltitudini che si ammassano nelle periferie urbane. Il problema più grave, che spesso impedisce la comprensione del dispositivo, è che le maglie della dominazione sono ora tessute con gli stessi fili che hanno sorretto la resistenza: i movimenti coniati come organizzazioni.

4) L’ultimo punto, il più complesso e polemico, è quello che proviene dall’analisi che fa De Oliveira: la politica è sostituita dall’amministrazione, il conflitto dal consenso, diminuisce la partecipazione democratica ma aumenta l’autonomia del capitale. “Il lulismo è una regressione politica, l’avanguardia dell’arretratezza e l’arretratezza dell’avanguardia” (De Oliveira, 2009). Escludendo un’altra volta i casi della Bolivia e del Venezuela, è urgente chiarire di cosa si tratta, da uno sguardo di lunga durata e dalla tensione per l’emancipazione sociale,  questo insieme di processi che abbiamo chiamato “governi progressisti”. Se guardiamo la realtà dal punto di vista delle urgenze dei più poveri e dalle relazioni interstatali, con speciale attenzione alla relazione con gli Stati Uniti, non c’è dubbio che questi governi sono un passo in avanti. Ma se li osserviamo in prospettiva, posando lo sguardo sulla continuità di un modello che privatizza i beni comuni e polarizza le società aumentando l’esclusione, il risultato appare molto meno chiaro.

Ancor peggio se prestiamo attenzione alla perdita di potere degli oppressi, che in questi anni hanno visto evaporare la forza delle proprie organizzazioni e sono sempre più dipendenti per la sopravvivenza dagli aiuti statali, poiché i loro territori – rurali ed urbani – sono stati occupati dal capitale finanziario nelle diverse forme che assume di speculazione immobiliare, appropriazione e distruzione della natura. All’orizzonte ancora non appaiono segni di ripresa del conflitto come segnale del fatto che quelli abbasso stiano recuperando la propria capacità di agire politicamente.

Bibliografía

Arroyo, Daniel (2009): Políticas sociales. Ideas para un debate necesario, Buenos Aires, La Crujía.

Clemente, Adriana y Mónica Girolami (2006): Territorio, emergencia e intervención social, Buenos Aires, Espacio.

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24 / 12 / 2011

* Pubblicato su “Otra Economìa”

tratto da UniNomade

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da
Raúl Zibechi, “Políticas sociales, gobiernos progresistas y movimientos antisistémicos” traducido para Otra Economìa por S., pubblicato il 24-12-2011 su [http://uninomade.org/politicas-sociales-gobiernos-progresistas-y-movimientos-antisistemicos/], ultimo accesso 31-01-2012.

 

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