Lautaro Rivara
È Haiti quella che, in pace e piena sovranità, tornerà a conquistare il buon governo che risolva i suoi stessi problemi.
Il giorno 7 febbraio si è consumato ad Haiti un autogolpe di cui è stato protagonista il presidente -oggi di fatto- Jovenel Moïse, dopo che era scaduto il periodo di cinque anni di governo che la Costituzione del paese fissa. Moïse corona così una lunga deriva autoritaria che lo ha messo a confronto e lo mette a confronto alla permanente mobilitazione delle classi popolari, all’opposizione politica e all’insieme dei poteri e delle istituzioni dello stato. In una recente intervista concessa da Moïse al quotidiano spagnolo El País, in certi interventi pubblici di membri del suo governo e per voce di alcuni commentatori della situazione haitiana, sono circolate una serie di tesi che equivocano fino a rendere incomprensibile l’attualità e la crisi in corso nel paese caraibico. Alcune risibili, altre creative anche se non rigorose, e la maggioranza appena il riciclaggio di vecchi pregiudizi razzisti, eurocentrici e coloniali. Nelle seguenti linee cercheremo di aggiustare i conti con alcune di queste idee.
1) La crisi politica ad Haiti è eterna, generalizzata e incomprensibile
La crisi ad Haiti non è né astratta né metafisica né eterna. Ha date, cause e responsabilità precise. In primo luogo la lunga storia di occupazioni, ingerenze e colpi di stato con un supporto internazionale, che fecero del paese una neocolonia francese appena pochi anni dopo che era stata portata a termine la Rivoluzione del 1804, e successivamente una neocolonia nordamericana dopo l’occupazione dei marine yankee tra gli anni 1915 e 1934. In linee generali i grandi giocatori di questa politica di ricolonizzazione e tutela sono stati la triade composta dagli Stati Uniti, Francia -che non ha mai abbandonato realmente l’isola- e Canada, forse il paese che pratica una politica imperialista più invisibile e subdola nel nostro continente, sempre a cavallo delle sue compagnie minerarie. Ma negli ultimi 50 anni hanno anche avuto una mediazione e un protagonismo rilevanti le organizzazioni multilaterali, come l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), le Nazioni Unite e gruppi d’interesse come il Core Group, formato dai paesi che si autodenominano “amici di Haiti”, la maggioranza europei, con interessi minerari, migratori, finanziari o geopolitici nel paese. Il culmine del cosiddetto “interventismo umanitario” nel post Guerra Fredda, o di ideologismi simili come la “responsabilità di proteggere” -R2P per il suo acronimo in inglese- o il “principio di non indifferenza”, sono stati plasmati, nel laboratorio haitiano, nelle innumerevoli missioni civili, poliziesche e militari che sono sbarcate nella costa occidentale dell’isola, dalla pioniera MICIVIH nell’anno 1993, fino alla tristemente celebre MINUSTAH durante il periodo 2004-2017. I lodevoli obiettivi dichiarati da queste missioni e organismi sono stati la pace, la stabilità, la governabilità, la giustizia, la ricostruzione e lo sviluppo. Nonostante ciò, Haiti, impedito nel portare avanti una politica elementarmente sovrana, negli ultimi quasi 30 anni è andato indietro in tutte queste voci e indicatori.
Coloro che dal nord globale si compiacciono di segnalare e misurare i deficit democratici dei paesi periferici con il bastone delle loro robuste democrazie liberali -senza che sia importante se in quelle ancora parassitano monarchi e presidenti che Haiti ha avuto negli ultimi anni, come inequivocabile sintomo di instabilità politica. Nonostante ciò, sogliono non menzionare che dall’anno 1957, tutti i governi di Haiti -con l’eccezione del primo governo del prete progressista Jean-Bertrand Aristide e più tardi quello del suo delfino René Préval- sono giunti al Palazzo Nazionale con la mediazione, l’intervento, il golpe o l’occupazione da parte delle successive amministrazioni nordamericane, siano state queste democratiche o repubblicane. La lunga lista di figure esecutive coperte dall’Occidente include un dittatore a vita, suo figlio adolescente, tiranni effimeri, un generale in congedo, un ex Ministro, un pastore evangelico, un contabile, un cantante di konpa, un impresario delle banane, ecc.
Haiti non è uno “stato fallito”, né uno “stato fragile”, né una “entità caotica ingovernabile”, né la sua popolazione ha una propensione naturale e genetica al caos, l’instabilità e il malgoverno. Al contrario, un inusitato entusiasmo democratico e una vera alluvione di voti ha portato al potere il primo presidente progressista della regione, ancor prima che cominciasse la cosiddetta “primavera latinoamericana”. In quelle elezioni chiave dell’anno 1990, il 75% dell’elettorato -in elezioni non obbligatorie- dettero ad Aristide una sonora vittoria con il 67,39% dei voti. Anche dopo il golpe che lo tirò via dal potere -con la diretta partecipazione degli Stati Uniti- in nuove elezioni realizzate nell’anno 2000, il popolo haitiano tornò a farsi bello del suo impegno democratico con una partecipazione di circa il 50%, eleggendo di nuovo Aristide con un pesante 91,7% dei voti dichiarati validi. Nel 2004 Aristide tornò ad essere abbattuto, questa volta per l’azione di una Forza Multinazionale Provvisoria composta da truppe degli Stati Uniti, Francia e Canada. Come dire che la dimensione politica della crisi haitiana è incomprensibile senza le permanenti intromissioni estere nel suo sistema democratico.
2) Si aspettano cambiamenti sostanziali nella politica dell’amministrazione Biden
Tanto le amministrazioni repubblicane come quelle democratiche hanno continuato nel paese, senza distinzioni, le seguenti strategie: distruggere la sua economia agricola e agroindustriale, così come privatizzare le sue scarse imprese nazionali; liberalizzare il commercio e le finanze; applicare le ricette neoliberali come l’eliminazione dei sussidi perseguita dal Fondo Monetario Internazionale; fare del paese un nodo periferico nelle catene globali del valore, in particolare nei settori tessili ed elettronici; promuovere, appoggiare e finanziare colpi di stato; organizzare e promuovere missioni internazionali d’occupazione; infiltrare mercenari e paramilitari, ecc. Probabilmente e paradossalmente, forse nessun presidente nordamericano aveva fatto un tale danno al paese come il più carismatico e progressista Bill Clinton, co-presidente della Commissione ad Interim per la Ricostruzione di Haiti (CIRH) che trasferì verso il settore privato buona parte del denaro inviato nel paese per la cooperazione internazionale dopo il devastante terremoto del 12 gennaio 2010. E principale responsabile, secondo la sua stessa autocritica, della distruzione dell’economia risicola del paese, che portò alla rovina agricola e indusse all’esodo centinaia di migliaia di contadine e contadini, dopo diventati balseros (profughi che attraversavano il mare su zattere, ndt).
Come in tanti altri aspetti e in relazione a tanti altri paesi, quello che possiamo constatare sotto lo splendido governo democratico è un cambiamento di metodi, ma non di strategie, nel tentativo di ridurre i costi di alcune alleanze così rilevanti come indifendibili. La cessazione della vendita di armi all’Arabia Saudita per rallentare la sua offensiva nello Yemen, definizione dell’Honduras di Juan Orlando Hernández come un “narco-stato” da parte degli stessi funzionari dell’establishment e alcuni limiti e condizionamenti “democratici” imposti al governo di Jovenel Moïse devono leggersi sulla medesima linea. Ad Haiti, in particolare, è stato ingiunto al governo del PHTK di tornare ad un certo ordine costituzionale. Per questo è stato convocato un lungo calendario elettorale, anche se a carico di un Consiglio Elettorale Provvisorio – in realtà permanentemente provvisorio- nominato unilateralmente dall’esecutivo; è stato manifestato un certo disagio per la chiusura del Parlamento a gennaio 2020; è stato chiesto che siano messi in libertà alcuni dei giudici del Tribunale di Cassazione accusati di sedizione; ed è stata segnalata come contraria alle libertà civili e ai diritti umani la creazione di un’opaca Agenzia Nazionale di Intelligence, così come decreti in materia di sicurezza e “antiterrorismo”. E anche, nel quadro della Legge Magnistky, sono stati sanzionati all’inizio dell’anno due funzionari del governo e un capo criminale alleato del governo per la loro partecipazione al Massacro di La Saline commesso nell’anno 2018. Julie Chung, sottosegretaria aggiunta dell’Ufficio degli Affari per l’Emisfero Occidentale del Dipartimento di Stato, ha alzato il tono delle dichiarazioni, contrariando il sostegno incondizionato a Moïse da parte di altri funzionari: “Sono allarmata per le recenti azioni autoritarie e antidemocratiche, dalla cessazione e la nomina dei giudici della Corte di Cassazione fino agli attacchi contro i giornalisti”. Ha anche aggiunto che il suo paese “non rimarrà silenzioso quando sono attaccate istituzioni democratiche e la società civile”, e che condannano “tutti i tentativi di scalzare la democrazia attraverso la violenza, la soppressione delle libertà civili e l’intimidazione”.
Per ora, il tracciato di queste coordinate è un esplicito appello a “curare le forme”, fatto che stabilisce una serie di condizionamenti alla lettera di immunità che Donald Trump aveva concesso a Moïse quando questi compì il suo giro contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela nel gennaio dell’anno 2019. Differita e pubblicizzata più del dovuto nonostante il cerchio mediatico la fase insurrezionale aperta nel luglio dell’anno 2018, l’appello del Dipartimento di Stato è una normalizzazione rapida e forzata, anche se è a scapito di elezioni condizionate e fraudolente. Politiche di basso costo e alto impatto: questa sembra essere la formula globalista e multiculturale per recuperare fiducia e margini di manovra nella geopolitica latinoamericana, caraibica e mondiale.
3) Esiste un conflitto di interpretazioni costituzionali
Se una tale controversia è esistita effettivamente, già è stata risolta dal potere giudiziario, il potere incaricato di interpretare le leggi in qualsiasi Repubblica che si apprezzi. Ad Haiti, come in qualsiasi altro paese sovrano -o almeno che non sia una colonia formale- ci sono tribunali competenti incaricati di risolvere le controversie costituzionali. Il giorno 7 febbraio il Consiglio Superiore del Potere Giudiziario (CSPJ) ha sentenziato sulla data del termine del governo di Jovenel Moïse, stabilendo una posizione ferma tra l’interpretazione dello stesso governo e dei suoi alleati occidentali, e l’interpretazione che hanno fatto, tra gli altri attori: il Parlamento, i sindacati e le centrali sindacali del paese, le camere imprenditoriali, la Conferenza Episcopale e i settori evangelici, la Federazione dei Collegi degli Avvocati, numerosi gruppi della diaspora, le organizzazioni femministe e delle donne, i movimenti sociali rurali e urbani e un lungo eccetera. Il CSPJ ha fatto un’interpretazione restrittiva dell’Articolo 134, comma 2, della Costituzione del 1987, stabilendo che la presidenza di Moïse è terminata il 7 febbraio, a cinque anni dalla realizzazione delle elezioni che nel 2016 lo portarono al potere, essendo contro il diritto l’estensione del suo mandato per il ritardo nel suo insediamento formale. Il paradossale è che questa medesima interpretazione restrittiva della Magna Carta è quella che lo stesso Moïse utilizzò per chiudere il Parlamento nel gennaio del 2020, quando due terzi dei deputati e l’insieme dei senatori videro il loro mandato terminato, senza possibilità di rinnovarlo, di fronte all’incapacità del governo nell’organizzare le elezioni legislative previste per l’anno 2019.
Allora, quello che definisce la crisi politica di Haiti non è uno scontro tra poteri -come propone Moïse- o una crisi costituzionale. Quello che si verifica è l’estensione illegale di un mandato presidenziale che è terminato. Questo, sommato agli attentati contro gli altri poteri dello stato da parte dell’esecutivo, confermano il consolidamento di un regime di fatto, sovralegale e anticostituzionale in tutta la regola, che governa per decreto, manca di un bilancio pubblico, incarcera e nomina magistrati contrariamente al diritto, persegue politicamente i propri oppositori e ora propone una riforma costituzionale sbrigativa che ratifichi, non lo stato di diritto, ma lo stato di forze esistente nel paese.
4) Il governo di Moïse subì un tentativo di colpo di stato quando un giudice si “autoproclamò” presidente
Semplicemente è tanto impossibile affermare questo come esattamente il contrario. Ad oggi il governo di Moïse non ha presentato nessuna prova che sostenga la denuncia di un tentativo di omicidio contro di lui, fatto che portò all’incarceramento di Ivickel Dabrésil, giudice della Corte di cassazione, Marie Louise Gauthier, ispettrice generale della Polizia Nazionale e di altri 20 persone. A titolo di prova probatoria furono presentati ai media nazionali e internazionali due fucili automatici, due fucili calibro 12, un machete, del denaro e alcuni telefoni, fatto che denoterebbe una capacità finanziaria e operativa sospettosamente precaria da parte degli insubordinati, quando non una grossolana operazione da parte di un governo che cerca di vittimizzassi. Non è stato nemmeno spiegato perché nella Repubblica Dominicana fu arrestato Ralph Youry Chevry, ex sindaco di Port-au-Prince e conosciuta figura dell’opposizione, che denunciò che se fosse stato deportato nel suo paese avrebbe potuto essere assassinato.
Rispetto all’accusa di golpismo contro un settore dell’opposizione, un tale golpe non potrebbe esistere legalmente. Piuttosto potrebbe essere letto come un processo di insubordinazione civile, giacché la rottura dell’ordine costituzionale fu a carico del presidente di fatto Jovenel Moïse. Il contrario sarebbe sostenere, ridicolamente, che il movimento democratico haitiano del decennio degli ’80 fu golpista abbattendo la dittatura a vita di Jean-Claude Duvalier. Al contrario, quello che vediamo ad Haiti è l’inizio di uno schema di doppio comando, mentre il governo di Moïse si afferra al potere e mantiene il controllo delle deboli leve dello stato haitiano -in particolare delle sue forze repressive-, e settori enormemente maggioritari della società civile e l’opposizione politica hanno deciso di nominare un presidente provvisorio -il magistrato Joseph Mécène Jean Louis- in vista di comandare quella che chiamano una “transizione di rottura” e di convocare a medio termine elezioni trasparenti e democratiche. In mezzo, il governo di fatto e un settore dell’opposizione più conservatrice gareggiano per il favore dell’onnipotente ambasciata nordamericana, come lo evidenzia la comunicazione di Patrick Leahy, presidente pro-tempore del Senato, al Segretario di Stato Antony Blinken, sollecitando il suo appoggio per la transizione.
Certamente, dietro l’elezione di Mécène Jean Louis c’è una lotta di potere tra differenti settori di opposizione, che vanno dai movimenti sociali fino ai partiti conservatori e vecchi membri della casta politica. Lotta nella quale indubbiamente il concorrente più avvantaggiato sarebbe la formazione di centro-destra del Settore Democratico e Popolare che è diretta dall’avvocato André Michel, anche se questa è lontana dall’aver un determinante controllo delle manifestazioni di strada che nell’immediato futuro potrebbero cambiare la correlazione di forze. Le proposte sovraniste e antineoliberali che enfatizzano l’elemento di rottura prima dell’elemento di transizione, sono a carico dei movimenti della CLOC-La Vía Campesina e dell’Articolazione dei Movimenti Sociali verso l’ALBA, che insieme ad altre organizzazioni e partiti hanno costruito un polo d’opposizione più radicale chiamato Forum Patriottico Popolare. Nonostante quello che Mécène Jean Louis rappresenta in questo delicato equilibrio di forze e al di là della sua reale capacità di agenzia, quello che diventa chiaro è che è inopportuno giudicarlo come una sorte di presidente “autoproclamato”, tracciando confuse e inappropriate analogie con il caso di Juan Guaidó in Venezuela. Questo per almeno tre fatti fondamentali: perché il consenso sociale e le forze progressiste qui non sono dalla parte governativa, ma di coloro che chiedono l’uscita di Moïse; perché il magistrato non fu autoproclamato in modo sedizioso di fronte ad un governo democraticamente costituito, ma eletto dall’opposizione sociale e politica per riempire il vuoto legale di fronte alla consumazione di un auto-golpe; e fondamentalmente perché la politica nordamericana, l’autentico ago della bilancia nel paese, si inclina almeno per il momento per la continuità del governo del PHTK e non per la costruzione di un governo di transizione, né molto meno per uno di rottura che minacci il suo dominio sulla geopolitica della Conca dei Caraibi.
5) La violenza nel paese è cieca, spontanea e generalizzata
Andando contro quanto suggerisce il senso comune, i livelli di violenza cittadina ad Haiti sono relativamente bassi, almeno comparati con quelli dei Caraibi e dell’America Latina. Soprattutto se presupponiamo lo straordinario brodo di coltura che generano estese condizioni di povertà, disoccupazione, marginalità, fame e disuguaglianza. Per cause che differenti intellettuali del paese hanno portato alla luce con le loro indagini, la società haitiana è una comunità umana particolarmente omogenea e integrata in termini sociali, linguistici e culturali, nella quale si distinguono elementi importanti come l’estesa esistenza di una cultura popolare molto ricca, di una lingua nazionale e popolare singolare come il creolo haitiano, o di forme di organizzazione socio-territoriale proprie della vita contadina. Questo non significa, certamente, che ad Haiti non esista la violenza. Al contrario, quello che osserviamo nel paese sono alti indici di violenza politica organizzata. Ci riferiamo con questo al fatto che gli attori della violenza più flagrante nel paese -notoriamente gruppi criminali, bande armate, paramilitari- sono attori organicamente legati al potere politico, allo stato e ai poteri internazionali. La maggioranza di questi gruppi sono stati creati e finanziati da senatori, ministri e presidenti, quando non direttamente promossi dalle potenze imperialiste.
Per questo è impossibile intendere l’attuale ondata di sequestri che colpisce il paese, l’attuazione di successivi massacri nelle comunità rurali o nei quartieri popolari della capitale –Carrefour Feuilles, La Saline, Bel Air, la lista è estesa sotto il governo Moïse- senza comprendere le sue ragioni e i suoi obiettivi politici. Principalmente si tratta di smobilitare la popolazione che nel luglio del 2018 occupò in modo massiccio le strade del paese, generando un’insurrezione sociale di una tale dimensione e radicalità che risulta, ad oggi, impossibile da gestire e reprimere da parte delle deboli forze di sicurezza dello stato haitiano. Le sue Forze Armate, dissolte da Aristide nel 1996 e ricostruite nominalmente nel 2017, non sono realmente operative. La Polizia Nazionale, principale corpo di sicurezza, conta su una quantità insufficiente di agenti senza avere la capacità logistica del caso. Da parte sua l’ONU ha ritirato i suoi ultimi effettivi di polizia e militari con la partenza della MINUJUSTH nell’anno 2019. La domanda, sotto voce, dell’establishment locale e internazionale è come reprimere e smobilitare le classi popolari che hanno portato alla stessa interruzione del ciclo di accumulazione del capitale in numerose occasioni, portando alla paralisi del commercio, alla cessazione delle importazioni, minacciando il flusso delle rimesse, e producendo un focolaio di pericolosa instabilità geopolitica ad appena poche miglia da Cuba, Venezuela, Canale di Panama e coste della Florida. Questo contraddice quanto affermato dallo stesso Moïse nella sua intervista a El País, e ripetuto dai suoi alleati, quando fa riferimento all’esistenza di “piccole bande dell’opposizione mobilitate”. Basti menzionare che il “pacchetto” del FMI e il suo decreto di eliminazione dei sussidi ai combustibili, generò nel luglio del 2018 una mobilitazione stimata in due milioni di persone -in un paese di 11- cifra siderale e senza precedenti in termini storici se la paragoniamo alla dimensione di paesi come il Brasile o gli Stati Uniti.
Venendo considerata molto costosa in termini politici e finanziari una nuova missione d’occupazione -anche se non mancano mai lobbisti di questa causa-, che ha lasciato dietro di sé il pesante fardello dei numerosi crimini e scandali della MINUSTAH -violenza sessuale generalizzata, massacri, l’introduzione di un’epidemia di colera, ecc.- e considerando molto deficitario il modo di agire della Polizia Nazionale, l’ultima scommessa, da parte dell’amministrazione Trump in avanti, è sembrata essere la “via Libia”, o per usare riferimenti più vicini, elementi combinati del modello colombiano, honduregno e salvadoregno e pratiche proprie della Guerra Ibrida applicata con sistematicità contro il Venezuela. Chiaro che qui nessuno si propone di attaccare completamente le fondamenta sociali ed economiche del profondo malessere sociale che ha portato l’immensa maggioranza della popolazione haitiana sulla medesima soglia di riproduzione della vita, catapultandola di volta in volta nelle strade del paese. L’unica risposta sembra essere la distruzione completa del robusto tessuto sociale haitiano che sostiene e riproduce le sue forze organizzate e la sua capacità di mobilitazione politica, in mezzo alle condizioni materiali più avverse di tutto l’emisfero.
Per questo il governo ha tessuto una stabile alleanza con una sorta di coalizione di gruppi delinquenziali chiamata il “G9”, la quale co-governa oggi come oggi il territorio haitiano, in certe regioni anche con un dominio più sostanziale dello stesso stato. Non basta più la panoplia di fondazioni, agenzie di cooperazione, ONG coloniali e chiese neopentacostali nordamericane che hanno cercato di cooptare e smobilitare i movimenti rurali e urbani, diffondendo teorie coloniali, teologie mercantili e concezioni pseudo sviluppiste, e rivaleggiando per quella che considerano una clientela prigioniera. Il potere duro ma invisibile si esercita promuovendo il narcotraffico, il crimine organizzato e il paramilitarismo. Basta ricordare i comprovati casi di infiltrazione di paramilitari -nordamericani, haitiani, serbi, russi, ma tutti loro contrattisti o ex militari delle Forze armate degli Stati Uniti- che furono arrestati nell’Aeroporto Internazionale Toussaint Louverture carichi di un armamento di grande potere e di avanzati equipaggiamenti di telecomunicazioni. È anche impossibile comprendere la sorprendente facilità con cui circolano armi in un paese che appena 30 anni fa era praticamente e miracolosamente libero di quelle, se non è per le risorse immesse dall’estero, o dallo stesso traffico generato dai caschi azzurri durante gli anni d’oro della MINUSTAH. La violenza, allora, non è cieca, spontanea e generalizzata: è organizzata, diretta e nitidamente politica.
6) L’oligarchia vuole prendere il potere
Nell’intervista già menzionata, Moïse ha affermato che dietro all’opposizione al suo governo ci sarebbe la “oligarchia che vuole prendere il potere”. In primo luogo, bisogna segnalare che l’oligarchia in Haiti non è mai salita al potere, e non c’è mai stato nulla di simile ad una borghesia liberale, progressista e industriosa, al di là del trasferimento del potere dalla tradizionale borghesia mulatta ad una borghesia nera portato a termine dalla dittatura di François Duvalier. In particolare, quella che uno scrittore haitiano ha eloquentemente chiamato una “ripugnante élite”, è composta da una classe oligarchica, ma soprattutto da una borghesia importatrice che si riproduce parassitariamente attraverso il controllo delle dogane del paese. Una borghesia che non produce nulla, tutto consuma e appena abita nel suo stesso paese. Inoltre, il fatto ridicolo è che Moïse denuncia l’oligarchia di volersi appropriare del potere, è come se Guillermo Lasso accusi i banchieri di voler governare l’Ecuador -di nuovo-, o che Álvaro Uribe faccia identiche accuse ai narcotrafficanti colombiani. Lo stesso Moïse è un tipico impresario bananiere catapultato nella politica dal tetto del suo capitale accumulato nel settore agricolo e agroindustriale, con imprese dimostrativamente fraudolente come AGRITRANS, partecipanti a differenti appropriazioni indebite dell’erario pubblico.
Senza dubbio non tutti gli interessati alla partenza di Moïse sono contadini, emigranti, classi medie o poveri urbani. È chiaro che c’è anche un settore della classe dominate haitiana che opera per allontanarlo, ma in questo caso si tratta dei settori, in senso stretto, meno oligarchici. In particolare il governo ha cercato di costruire una tardiva e poco convincente epica popolare attraverso il suo scontro con Dimitri Vorbe, in particolare, e con le compagnie elettriche come Sogener, in generale. Di fatto, la principale proposta della campagna elettorale di Moïse è stata di portare la corrente elettrica in tutte le case “24 su 24”, dato che il servizio elettrico raggiunge appena il 40 per cento della popolazione, e considerando che nella capitale il suo servizio è anche deficitario e intermittente. Nonostante le lotte per il controllo dell’impresa elettrica nazionale (EDH), sarebbe candido pretendere che le altre fazioni della classe dominante haitiana non operino contro un governo che è incapace di offrire le più minime garanzie di stabilità per il processo di accumulazione, così come il tracciare teorie cospiratorie che vogliono attribuire ad uno o due operatori una crisi organica di egemonia che si esprime in tutti gli ordini e si consolida, principalmente, nell’incessante mobilitazione delle classi popolari e nel permanente deterioramento delle loro condizioni di vita.
7) Haiti, incapace di risolvere i suoi propri problemi, ha bisogno dell’aiuto e della cooperazione internazionale
Questa affermazione è una sentenza a doppio filo. Qualcosa di simile afferma il recente editoriale del The New York Times che si intitola precisamente “Haiti ha bisogno di aiuto”, dove si pensa ad “una soluzione” in cui “i poteri esterni -una combinazione di Stati Uniti, OEA, ONU e Unione Europea-” incidano in qualche modo -ancor più conosciuto- sul paese. Ma un paese sovrano non è un bambino, per aver bisogno di un accompagnamento e di tutele. Ancor meno, se si tratta di un paese che abolì la schiavitù in modo pioniere, che creò una filosofia umanista che avrebbe eclissato quella delle medesime rivoluzioni borghesi, che consumò la prima rivoluzione sociale dell’emisfero e che costruì la prima repubblica indipendente al sud del Río Bravo. Ma, inoltre, è impossibile isolare come se fosse un ceppo virale gli invocati “problemi di Haiti”, senza inquadrarli nella geopolitica regionale e globale e nella lunga storia di ingerenze che abbiamo già sviluppato. Per fare un esempio recente e pratico: siamo convinti che nessun governo avrebbe sopportato un solo giorno la mobilitazione attiva e radicale di un quinto della propria popolazione senza il sostegno politico, finanziario, diplomatico ed eventualmente militare degli Stati Uniti e delle organizzazioni multilaterali. Nessun governo, di qualsiasi segno, avrebbe potuto evitare il tremito di una coalizione dell’opposizione che include praticamente tutti i settori sociali e tutte le forze politiche del paese. Anche oggi, Moïse terminerebbe il suo mandato immediatamente non contando sulla promessa degli Stati Uniti di un salvacondotto, denaro e un visto per lui e tutta la sua famiglia una volta portata a termine la sua uscita dal potere, dato che il destino abituale che il paese ha dato a presidenti ancor meno impopolari è il linciaggio in una piazza pubblica. Nemmeno le elezioni e la riforma costituzionale proposta -ultimo tentativo di recuperare un po’ di legittimità- potrebbero concretizzarsi, come è evidente, senza il sostegno finanziario, logistico e tecnico di questi medesimi paesi e organismi che da anni controllano il sistema elettorale haitiano.
Allora, il “problema Moïse”, così come il problema delle politiche neoliberali e i loro effetti devastanti nel paese più impoverito del continente -politiche che non sono cadute dal cielo ma che sono state imposte impietosamente dal FMI e dal Dipartimento di Stato-, non sono soltanto problemi di Haiti. Sono piuttosto problemi di geopolitica regionale che si esprimono fortuitamente in quel castigato ma orgoglioso paese.
Ma ancor più possiamo recuperare questa settima ed ultima tesi in un senso benintenzionato e propositivo. L’aiuto e la cooperazione di cui ha bisogno Haiti è quella di tutti i governi popolari, settori democratici, forze progressiste e di sinistra, organizzazioni dei diritti umani, organizzazioni di integrazione autonoma e militanti imperialisti della regione e del mondo che vogliono far fronte alla demolitrice ingerenza di quella che è stata chiamata la “comunità internazionale”, formata in realtà da un minuscolo gruppo di paesi ricchi e potenti. Una vecchia parola d’ordine, coniata durante i tempi della MINUSTAH, sembra ancora affermare tutta la sua eloquente validità: “È ora di lasciare in pace Haiti”. È Haiti quella che, in pace e piena sovranità, tornerà a conquistare il buon governo che risolva i suoi stessi problemi.
22/02/2021
ALAI
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Lautaro Rivara, “Siete tesis equivocadas sobre la situación en Haití” pubblicato il 22/02/2021 in ALAI, su [https://www.alainet.org/es/articulo/211053] ultimo accesso 23-03-2021. |