Raúl Zibechi e Berta Camprubí
Rompere l’accerchiamento tessendo con le uguali
“Guardia, Guardia. Forza, Forza”, ripetono in coro migliaia di giovani sollevando i loro bastoni di legno (di palma chonta), mostrando la decisone dei popoli originari, neri e contadini di difendere la vita e il territorio, durante la Minga che domenica notte è giunta a Bogotà. Sono 8 mila volontari che hanno percorso 450 chilometri da Cali fino alla capitale, con 500 veicoli, moltissime chivas (autobus aperti delle regioni rurali) e camminando in modo ordinato, fiancheggiati dalla Guardia Indigena.
È l’unica mobilitazione organizzata con obiettivi precisi, capace di mettere in movimento la società colombiana. Prova di questo è che tutti i media, anche quelli più di destra, stanno coprendo la Minga (riunione, lavoro comune, ndt), e che l’ultradestra del Centro Democratico, l’uribismo (seguaci dell’ex presidente Álvaro Uribe), ha presentato una denuncia perché, dicono, “la mobilitazione sta violando i protocolli di biosicurezza e mettendo a rischio la cittadinanza” (Infobae, 17 ottobre 2020).
La cosa certa è che l’arrivo a Bogotà di migliaia di indigeni, afro e contadini ha mobilitato buona parte della capitale, dove è stata ricevuta dai giovani che hanno conquistato le strade nel novembre passato, durante lo sciopero nazionale, e le hanno occupate nuovamente il 9 e il 10 settembre in risposta all’assassinio di un avvocato da parte della polizia. Le chivas multicolori circolavano traboccanti al suono di fischietti e tamburi.
Il municipio di Bogotà, di centro-sinistra e oppositore dell’uribismo, guidato dal Claudia López, ha predisposto il Palazo degli Sport affinché migliaia di marcianti potessero alloggiare in buone condizioni, qualcosa che hanno negato sindaci di destra quando è passata la Minga. Intanto, il presidente Iván Duque mantiene il suo rifiuto a dialogare direttamente.
Cercare il presidente o i popoli?
Il nome completo della mobilitazione è “Minga Sociale e Comunitaria per la Difesa della Vita, del Territorio, della Democrazia e della Pace”, e si svolge ogni volta che i popoli si sentono profondamente aggrediti. Ci sono state molte minghe dalla Costituzione del 1991 che ha incorporato i diritti collettivi dei popoli indigeni e afrodiscendenti. Perché nonostante il riconoscimento dei loro territori e di un approccio differente in termini di salute, di educazione o di giustizia proprie, i popoli originari hanno bisogno di garanzie, hanno bisogno di un certo livello di equilibrio e armonia territoriale per poter portare avanti questi diritti.
Queste grandi marce partono quasi sempre dal sud ovest del paese, soprattutto dalle 84 riserve degli 8 popoli indigeni del dipartimento del Cauca, motore ribelle e storico scenario di processi di trasformazione sociale in Colombia. L’epicentro della diversità delle comunità di solito si incontra a Santander de Quilichao (Cauca) o a Cali (Valle del Cauca), come è successo questa volta.
La legittimità sociale e politica delle mingas, formate intorno al soggetto collettivo indigeno, con una rilevante partecipazione del popolo nasa e del Consiglio Regionale Indigeno del Cauca (CRIC), è così ampia, che nessun governo le respinge frontalmente. Durante il percorso di quattro giorni, migliaia di persone l’hanno circondata d’affetto e solidarietà. Perfino una gruppo di Hare Christmas le ha consegnato alimenti e acqua al suo arrivo a Bogotà, mentre famiglie e venditori ambulanti le fornivano spontaneamente acqua e gassose.
Le mingas sogliono presentare richieste allo stato colombiano, che dalle riforme costituzionali del 1991 apporta ingenti risorse ai consigli indigeni. Nonostante ciò, la principale richiesta in questa occasione è per la vita, contro la repressione e i permanenti massacri che dissanguano la Colombia. “Facciamo un appello a sollevarci pacificamente, affinché smettiamo di essere calpestati, non ignorare più il popolo!”, gridava il portavoce del Consiglio Regionale Indigeno del Dipartimento del Caldas al suo arrivo a Plaza Bolívar, nella capitale.
Durante questo anno, nel Cauca ci sono stati nove massacri con 36 vittime, cifra che aumenta a 67 in tutto il paese. “Il governo colombiano sta attentando alla sopravvivenza dei popoli indigeni del Putumayo con l’implementazione delle politiche estrattiviste”, affermava il portavoce dei popoli indigeni del Putumayo. “Abbiamo un governo che non governa, abbiamo un governo che ci massacra, ci fa sparire”, affermava la portavoce dell’organizzazione di Città in Movimento.
I territori indigeni, neri e contadini sono ambiti dalle grandi multinazionali minerarie e dal narcotraffico, che cercano di sbarazzarsi delle popolazioni per prendersi le terre per sfruttare le risorse. Questa è la causa ultima della violenza, la medesima che ha provocato una guerra di cinque decenni che gli Accordi di Pace tra il governo e le FARC non sono riusciti a fermare.
La risposta indigena è stata negoziare affinché lo stato aumenti le risorse che passa, che in questa occasione il governo di Duque (erede di Uribe), promette saranno fino a 10 miliardi di pesos solo per gli indigeni (circa 2.600 milioni di dollari). Di fronte a simile legittimità sociale della Minga, il governo una volta di più dice di essere disposto al dialogo, ma tutti i governi dicono la stessa cosa e dopo non rispettano quanto firmato.
A questo punto, la mobilitazione indigena oscilla tra due variabili: esigere un dibattito politico con il governo che ponga il diritto alla vita e ad un territorio in pace o stabilire un dialogo con i popoli e i settori sociali, in particolare urbani, per tessere una rete di alleanze contro il modello neoliberale estrattivo. Non sono contraddittorie, possono anche essere complementari, ma il dibattito si centra sulle priorità.
Ma in questa occasione è differente, l’unica richiesta è per la vita. La dirigente Blanca Andrade del programma Donne del CRIC, riassume il dibattito a modo suo: “Usciremo perché c’è molta violenza, molta indegnità, la gente non può più circolare tranquilla nelle comunità. Noi popoli abbiamo dignità e non possono passare su quanto è nostro. Uno vede come uccidono contadini, settori urbani e non succede nulla. Non c’è una giustizia che faccia rispettare i diritti dei popoli e i settori sociali, e dobbiamo uscire a dirlo”.
Denuncia il terrorismo del governo e afferma che “questo governo è stato il più terrorista e sta violando il patto di pace, ma chiama terroristi noi popoli”. E qui viene il punto: “Noi vogliamo vederlo per dirgli questo. Non per quanto riguarda l’economico, perché lavoriamo per risolverlo. Non viviamo del denaro che ci danno ma della tranquillità della vita. Per me non è importante andare a Bogotà, è uno schermo e là non serve andare. Accompagnare gli altri settori e riunirci con loro è più importante che vedere il presidente. Quando vogliamo parlare con il governo lì si ingarbuglia (mescola) l’autonomia”.
Un autorità maschile della riserva di Corinto, aggiunge: “La Minga va a Bogotà perché il governo non vuole dialogare. Ma la cosa fondamentale non è incontrarci con il governo ma con i settori sociali, è una direzione politica perché ci stanno uccidendo”.
La potenza delle comunità
Mobilitare tra le otto e le diecimila persone per cinque giorni, tra l’attesa iniziale di Iván Duque a Cali, il percorso fino alla capitale e dopo l’accampamento di fronte allo sciopero generale di mercoledì 21, dove si aspetta una mobilitazione di massa e massiccia, richiede una forza di base che nessun settore della società è capace di mostrare. La forza indigena si concentra nei contrafforti andini del Cauca, nelle loro favolose valli dove le comunità mantengono con incredibile tenacia la differenza delle proprie culture e cosmovisioni.
Sarebbe ingiusto dire che gli indigeni caucani riproducono la propria cultura, senza aggiungere altro. La stanno anche modificando, con un esercizio spirituale e collettivo di attualizzazione. Il ruolo delle donne, per esempio, non è più lo stesso di cinque decenni addietro, quando fu fondato il CRIC. Loro hanno incarichi nelle comunità e nelle riserve, nei mezzi di comunicazione, nella Guardia Indigena e in tutti gli spazi, anche se con minore intensità nelle cupole che, zero novità, tendono ad essere maschili.
Anche il modo di eleggere le autorità, sta mutando. Dalla modalità “elettorale”, in sintonia con la cultura politica egemonica, stanno passando a modi più comunitari di elezione, legati alle proprie cosmovisioni, che implica eleggere per la qualità dei valori e delle condotte, più che per la facilità di parola della persona.
La forza delle comunità può misurarsi in due direzioni. La prima, più diretta, come sostegno della vita materiale, della quotidianità, nella quale la diversità di coltivazioni, i mercati del baratto, i rituali di armonizzazione, la medicina e la stessa giustizia, sono alcune delle sue manifestazioni più potenti. Durante la pandemia hanno moltiplicato le forme tradizionali di scambio, come il baratto senza denaro ma anche senza equivalenze (un chilo per un chilo), ma in base alle necessità di ogni famiglia.
Queste pratiche non capitaliste sostengono un’autonomia reale, potente nelle basi territoriali e più sfumata nella misura in cui si “sale” nella struttura. A mio modo di vedere, la Guardia Indigena è la chiave di volta dell’autonomia del movimento, in generale, ed esprime la potenza delle sue comunità, in particolare.
Ma c’è una seconda dimensione di questa forza collettiva. È relativa alla capacità di influenzare altri e altre che non sono indigeni, come succede ora nella Minga. La cultura della resistenza, non è più la stessa del 1971, anno di fondazione del CRIC. Cinque decenni sono un tempo sufficiente per valutare l’influenza dei popoli originari nella cultura politica di quelli in basso. Le loro esperienze si espandono orizzontalmente, come macchie d’olio.
Tra i 102 popoli originari della Colombia, riuniti nell’ONIC (Organizzazione Nazionale Indigena della Colombia), già sono 70 mila le guardie organizzate. Sono state create anche le Guardias Cimarronas (Guardie di Schiavi datisi alla macchia, ndt) tra i popoli neri, la prima nel 2009 a Palenque, e le Guardie Contadine stanno facendo i loro primi passi dal 2014, recuperando le “guardie civiche” della lotta per la riforma agraria del 1974.
Dal 2018, si realizzano incontri interetnici e interculturali tra le guardie, indigena, contadina e cimarrona. Tra le sfide che si propongono questi incontri, figurano l’articolazione zonale, regionale e nazionale delle guardie, la formazione politica e operativa, con l’obiettivo di rafforzare il controllo territoriale per difendere l’autonomia.
Nel Cauca, culla e nucleo del movimento resistente, il Processo della Liberazione della Madre Terra è probabilmente la punta di lancia dell’azione diretta collettiva. Negli ultimi cinque anni hanno recuperato dodici proprietà terriere dell’agronegozio della canna, circa quattromila ettari, la cui “liberazione” è costata vite e carcere, ma marchia a fuoco gli obiettivi del movimento.
Per ora, nonostante tutte le difficoltà esterne e le tensioni interne, i popoli indigeni, neri e contadini della Colombia possono festeggiare: Bogotà li ha ricevuti a braccia aperte, dialogano con la popolazione e confluiscono con le centrali sindacali in una enorme giornata di lotta. Hanno rotto l’accerchiamento militare, paramilitare e mediatico, che non è poco in tempi di guerra contro i popoli.
20 ottobre 2020
Desinformémonos
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Raúl Zibechi y Berta Camprubí, “Minga indígena, negra y campesina” pubblicato il 20/10/2020 in Desinformémonos, su [https://desinformemonos.org/minga-indigena-negra-y-campesina/] ultimo accesso 23-10-2020. |