Le strategie non sono per sempre


Raúl Zibechi

Ora che l’immediato panorama è oscuro. Ora che non possiamo più sperare nulla se non dalle nostre stesse lotte, può essere un buon momento per fare una pausa e riflettere sui cammini che stiamo percorrendo negli ultimi decenni.

In Brasile ha trionfato Jair Bolsonaro. A questo si aggiunge la vittoria di Mauricio Macri i Argentina, dell’uribista Iván Duque in Colombia e la svolta di destra di Lenín Moreno in Ecuador.

Nel suo insieme, la mappa politica ha sterzato fortemente verso posizioni antioperaie, antifemministe, contro i popoli originari e neri. L’avanzata del razzismo, il machismo e la violenza antipopolare sono giunti per rimanere per un bel tempo.

Anche se cambieranno alcuni governi, quei comportamenti hanno attecchito nelle nostre società, incluso nel seno di alcune organizzazioni popolari.

Siamo di fronte ad un cambiamento di opinione della società, al quale si aggiungono i cambiamenti negativi di governi.

Per questo credo che sia un buon momento per la riflessione, senza smettere di approfondire le resistenze, di migliorare le organizzazioni e affrontare le sfide più urgenti.

Durante la prima metà del XX secolo i sindacati di massa erano il nucleo, come funzioni primarie, delle organizzazioni popolari quando cominciò l’industrializzazione in alcuni paesi.

In ogni caso, i sindacati erano il centro delle resistenze e del cambiamento sociale. Erano il fulcro di accumulazione di forze, della conquista e della difesa dei diritti.

Nell’ambito politico, l’azione collettiva aspirava a instaurare una società più giusta attraverso vari meccanismi, a volte contraddittori ma sempre complementari.

Dove si è potuto, le sinistre e i nazionalismi popolari si sono presentati alle elezioni. Ma la partecipazione elettorale non era un fine a sé stesso, ma una parte di una strategia molto più comprensiva che andava sempre oltre l’alveo elettorale.

Tempi di rivoluzioni

Ci furono sollevazioni di massa e insurrezione, come il celebre Bogotazo del 1948 di fronte all’assassinio di Jorge Eliécer Gaitán in Colombia.

O la sollevazione operaia del 17 ottobre del 1945 a Buenos Aires, che ruppe il potere dell’oligarchia e impose un governo popolare.

In altri paesi, come Brasile, Cile e Perù, i movimenti e le sinistre occuparono dallo spazio legale elettorale fino alle strade e i campi con diverse azioni, sempre dirette ad un medesimo fine: imporre la forza di quelli in basso.

Ci furono anche rivoluzioni. Nel 1911 in Messico e nel 1952 in Bolivia, che segnarono a fuoco la storia di ambedue i paesi, al di là delle successive derive di ciascun processo.

Con la rivoluzione cubana cambiarono gli assi. Una parte sostanziale del campo popolare si rovesciò in tutti i paesi del continente nella lotta armata.

Nel medesimo periodo, la seconda metà del XX secolo, ci furono anche insurrezioni (14 sollevazioni operaie solo in Argentina tra il 1969 e il 1973), oltre alla storica Assemblea Popolare nel 1971 in Bolivia e i potenti Cordoni Industriali nel Cile di Allende, forme di potere popolare dal basso.

Tutte le forme di lotta erano combinate: quella elettorale, l’insurrezionale e la guerrigliera.

L’imbuto elettorale

Con il neoliberalismo, dopo le dittature del Cono Sud, le cose cambiarono in modo drastico.

Le guerriglie centroamericane e colombiana abbandonarono le armi per addentrarsi in discutibili ma necessari processi di pace.

Nei 90, le sinistre smisero di prepararsi a guidare insurrezioni (come quelle che ci furono in Ecuador, Bolivia, Venezuela, Paraguay, Perù e Argentina che abbatteremo una lunga decina di governi), per focalizzarsi sul terreno elettorale.

A questo punto vedo due problemi, derivati dal puntare tutto sulla strategia elettorale, come unica opzione immaginabile.

Il primo è che la diversità di forme di lotta è stata uniformata dalla questione elettorale, che indebolisce il campo popolare.

Abbiamo sempre pensato -e io continuo a pensare- che andare alle elezioni sia come giocare sul terreno del nemico di classe. Che non vuol dire che non si debba farlo. Ma non dobbiamo giocare solo in quello spazio, disarmando i poteri popolari.

Il secondo è che le associazioni padronali e le élite stanno svuotando le democrazie, lasciando in piedi solo un guscio elettorale.

Il panorama sarebbe questo: possiamo votare ogni vari anni, eleggere presidenti, deputati e sindaci. Ma non possiamo scegliere il modello economico, sociale e lavorativo che vogliamo.

Quello è fuori dalla discussione. Per questo dico che abbiamo elezioni ma non abbiamo una vera democrazia.

A questo punto vedo che è necessario fare la pausa del dibattito.

Loro stanno lasciando da parte anche le libertà democratiche. È quello che si propone Bolsonaro quando dice che va a “mettere fine all’attivismo”, o quando Patricia Bullrich, la ministra argentina delle Sicurezza, afferma che c’è “connivenza tra i movimenti sociali e il narco”, dando così carta bianca alla repressione.

Siamo di fronte ad una svolta della storia che ci impone di valutare quello che abbiamo appreso e quello che stiamo facendo, per affrontare le insufficienze e vedere dove andare.

Limitarci solo al terreno elettorale è come subordinarci alla borghesia e all’impero, legati mani e piedi alla sua agenda.

Allora?

Le strategie non si inventano. Si sistematizzano e generalizzano, che ora è abbastanza.

Nella storia delle lotte di classe, le strategie le definiva un piccolo circolo di maschi, bianchi istruiti in comitati centrali o direzioni di partiti di sinistra e nazionalisti.

Quello non tornerà a succedere, perché si trattava di una logica patriarcale che i movimenti delle donne si stanno incaricando di demolire.

Credo che abbiamo due cammini per avanzare. Uno è ricordare quello che ha fatto il vecchio movimento operaio e l’altro quello che stanno facendo i popoli originari e neri.

Il primo consiste nel recuperare, non imitare, quel ricco universo proletario che contava su sindacati, atenei, cooperative, teatro popolare, università popolari e biblioteche, in un ampio ventaglio di iniziative che includevano la difesa del lavoro, l’organizzazione del tempo libero e del consumo, la formazione e il divertimento.

Tutto quello al di fuori dai modi dello stato e del mercato. La classe poteva fare tutta la sua vita, meno l’orario di lavoro, in spazi auto-controllati.

Il secondo è osservare quello che stanno facendo i popoli. Nelle comunità indigene e nei palenques/quilombos (luoghi di difficile accesso dove si rifugiavano gli schiavi neri fuggitivi, ndt) troviamo tutto il precedente, più spazi di sanità e di produzione di alimenti e di riproduzione della vita.

In Argentina ci sono 400 fabbriche recuperate, in Colombia 12 mila acquedotti comunitari e in Brasile 25 milioni di ettari recuperati con una riforma agraria dal basso.

Ciò che propongo è pensare la transizione al mondo di domani da quegli spazi, non dallo stato.

Ciò che sogno è che quel nostro mondo cresca e che mettiamo in quella crescita il meglio delle nostre forze.

Se oltre a tutto questo, andiamo alle elezioni e le vinciamo, ancor meglio.

Ma senza smontare questo nostro mondo.

29-10-2018

Rel UITA

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Raúl Zibechi, Las estrategias no son para siempre” pubblicato il 29/10/2018 in Rel UITA, su [http://www.rel-uita.org/sociedad/las-estrategias-no-son-para-siempre/] ultimo accesso 05-11-2018.

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