Anche se le notizie messe in risalto dai media nel 2015 sono state la crisi brasiliana e i trionfi elettorali dell’opposizione in Venezuela e Argentina, è stato un anno in cui per molti latinoamericani la cosa più importante nella loro vita quotidiana è stata la resistenza al modello estrattivista e la difesa dei propri territori e modi di vita. Nell’anno che appena inizia tutto indica che la ripresa della conflittualità comunitaria e popolare sarà uno degli aspetti dominanti.
La crescita delle resistenze si verifica in tutti i paesi, tanto in quelli che hanno governi conservatori come progressisti, nelle regioni rurali come nelle città, tra contadini e lavoratori informali e formali. Le cause sono diverse, ma oltre alla già tradizionale resistenza all’attività mineraria a cielo aperto, alle monocolture e alle grandi opere infrastrutturali, appaiono i primi sintomi di una nuova crisi che sta già danneggiando coloro che vivono del proprio lavoro, attraverso l’aumento dei prezzi, la caduta dell’occupazione e dei salari e una maggiore precarietà lavorativa.
Ci sono vecchi conflitti che ora acquisiscono nuove caratteristiche. Alcune settimane fa alcune comunità mapuche vicine alla città di Freire, nell’Araucanía, hanno occupato per la seconda volta in un mese l’Aeroporto Internazionale di Quepe per protesta a causa dei danni ambientali, culturali e territoriali che l’aeroporto crea nel territorio ancestrale mapuche. Il 29 settembre la presidente Michelle Bachelet ha effettuato un viaggio quasi segreto nel sud del Cile, il primo del suo attuale mandato. Probabilmente la visita era per insediare un tavolo di lavoro con organizzazioni del popolo mapuche, ma le cose sono andate storte perché nessuno ha compreso le ragioni della segretezza e ha ricevuto dure critiche da varie organizzazioni, tra le quali l’Associazione dei Municipi con Sindaci Mapuche.
La cosa più importante in Ecuador è stata la sollevazione indigena e dei lavoratori urbani dello scorso agosto. Le mobilitazioni ci sono state per opporsi alla pretesa del governo di Rafael Correa di statalizzare l’educazione interculturale bilingue che era nelle mani delle organizzazioni indigene e per le riforme costituzionali che impediscono la sindacalizzazione degli operai delle imprese statali. L’intensità della sollevazione ha fatto cadere la popolarità di Correa, che a novembre ha annunciato che non si presenterà alla rielezione come aveva precedentemente deciso.
In Argentina i movimenti delle donne effettuano enormi mobilitazioni, le maggiori della loro storia. La convocazione “Nemmeno Una di Meno” contro la violenza maschilista a giugno ha riunito a Buenos Aires più di 300.000 persone e altre centinaia di migliaia in altre città argentine, che sono state le più numerose della regione. Il 30° Incontro Nazionale delle Donne effettuato ad ottobre a Mar del Plata ha riunito 65.000 donne, triplicando la presenza annuale a questo evento che viene realizzato dal ritorno della democrazia. Questa piena sta annunciando che nel prossimo ciclo di lotte ci sarà il protagonismo femminile, che dovrà trasformare i modi organizzativi e di azione del movimento popolare.
In Paraguay è esploso il movimento studentesco secondario e universitario per chiedere uno stanziamento per l’educazione e contro la corruzione. Il 18 settembre è avvenuta una enorme manifestazione di studenti che ha rotto la passività urbana di fronte al governo neoliberista e repressivo di Horacio Cartes. Tre giorni dopo hanno occupato l’Università Nazionale di Asunción denunciando l’uso che sta facendo il Partito Colorado al governo, dai tempi della dittatura di Stroessner (1954-1989, delle strutture universitarie e del denaro pubblico destinato all’educazione.
La mobilitazione ha provocato la caduta di vari decani e il rettore non solo ha rinunciato, ma è stato processato, ma sono stati anche denunciati dei dirigenti studenteschi corrotti che ricevevano denaro dal potere. In questo nuovo clima il 21 e il 22 dicembre è stato effettuato uno sciopero generale convocato dalla Plenaria delle Centrali Sindacali, al quale hanno partecipato vecchi movimenti come quelli contadini e dei lavoratori, e i nuovi come quelli degli studenti e degli abitanti dei Bañados, periferia urbana sul fiume Paraguay, che si sono convertiti in un riferimento delle lotte sociali, dove si distinguono raccoglitori informali di immondizia, donne che allevano animali domestici e i settori più poveri della città.
In Bolivia, che è uno dei paesi più attivi della regione, c’è stata, di fronte alla caduta dei prezzi internazionali delle commodities, una lunga lotta dei comitati civici di Potosí per chiedere una uscita dal modello estrattivista.
In Uruguay è avvenuta la più grande manifestazione popolare in un decennio contro il decreto di Tabaré Vázquez sulla “essenzialità” dei servizi educativi, che implica sanzioni per i docenti in sciopero che chiedevano maggiori stanziamenti per l’educazione. Il rifiuto di una misura propria di una dittatura è stato così forte che l’Esecutivo ha dovuto fare marcia indietro.
In Perù la resistenza al modello estrattivista si è focalizzata nel sud del paese, ma già si vive una situazione che si può definire di “guerra mineraria”, dove centinaia di comunità stanno mostrando la propria determinazione a impedire che si continui ad espandere la distruzione per trasformare rocce in mercanzie (GARA, 4 ottobre 2015).
In Brasile assistiamo ad un importante movimento studentesco che rifiuta la riorganizzazione degli istituti secondari decisa dal governatore neoliberista di San Paolo, Geraldo Alckmin, che consisteva nel raggruppare gli studenti, chiudere 93 centri e nel trasferire 311.000 alunni che vivono nella periferia in istituti di altri quartieri. Migliaia di giovani hanno occupato 196 centri di studio e sono scesi nelle strade, costringendo il governatore a sospendere la riforma che voleva risparmiare risorse pubbliche.
L’importanza di questo movimento è che mostra che l’energia delle Giornate di Giugno del 2013 (in milioni a manifestare per un mese in 350 città) è lontana dall’essersi esaurita. Riappare nei luoghi più impensati: nelle favelas, dove si creano collettivi sociali e culturali per resistere all’occupazione militare-poliziesca; tra le proli più povere di lavoratori formali, come il vittorioso sciopero dei raccoglitori di rifiuti a Rio de Janeiro durante il Carnevale del 2015.
Alla fine, la solidarietà con i familiari dei 43 scomparsi di Ayotzinapa ha percorso lungo tutto l’anno il Messico, l’America Latina e buona parte del mondo. È ancora presto per sapere se la guerra contro quelli in basso sita cambiando il suo cammino grazie alla resistenza di centinaia di migliaia di messicani. Per il momento, sappiamo che la brutale repressione che è già costata più di centomila morti e trentamila scomparsi, non è stata capace di frenare le resistenze come lo dimostrano i più di 300 conflitti ambientali solo in Messico.
Siamo di fronte ad una svolta della recente storia dell’America Latina, e probabilmente del mondo. Nel riassestamento in corso, le elite programmano le più grandi stragi dei settori popolari per continuare a stare in alto, senza perdere nessuno dei propri privilegi. Non è possibile sapere se ci riusciranno. Ma quello che sappiamo, con totale certezza, è che avranno di fronte milioni disposti a non lasciarsi rubare la vita né i beni comuni. Forse è il primo passo per disegnare un mondo come quello che sogniamo, sulla base del Buen Vivir, in armonia con la natura e con gli altri esseri.
Gennaio 2016
Resumen Latinoamericano
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Raúl Zibechi, “2015-2016: La centralidad del conflicto social” pubblicato il 00-01-2016 in Resumen Latinoamericano, su [http://www.resumenlatinoamericano.org/2016/01/10/2015-2016-la-centralidad-del-conflicto-social/] ultimo accesso 12-01-2016. |