Haiti: Il fallimento neocoloniale e “l’eterno castigo della sua dignità”


Gerardo Szalkowicz

La crisi di governabilità che vive Haiti dopo la ribellione paramilitare che ha liberato più di 3.600 prigionieri e ha espulso il primo ministro è un altro capitolo di una storia di colonialismo e dipendenza.

La cinematografica fuga di più di 3.600 prigionieri, una tempesta di attacchi armati e la successiva rinuncia del primo ministro, Ariel Henry, minacciato e bloccato a Porto Rico, hanno posto per alcuni giorni Haiti sotto il riflettore delle grandi compagnie mediatiche e messo a nudo la sua triste foto attuale: il piccolo paese caraibico, il più povero dell’emisfero occidentale -o piuttosto, il più impoverito- brilla virtualmente governato dal crimine organizzato. Come si è giunti a questo vuoto di potere istituzionale? In che modo si è sviluppata la paramilitarizzazione del suo territorio? Haiti è il grande laboratorio delle nuove strategie di dominio made in USA?

Il popolo haitiano riporta una storia di formidabili resistenze e tragedie indotte. Fu protagonista della prima rivoluzione nera, e divenne il primo paese indipendente delle Americhe e il primo al mondo che abolì la schiavitù. Per la propria libertà dovette pagare alla Francia per un secolo e mezzo un dantesco indennizzo. Nel 1915, i marine sbarcarono a Port-au-Prince e vi rimasero quasi 20 anni, fu l’occupazione più lunga della storia statunitense; seguì un lungo andazzo di sanguinose dittature e interventi stranieri, che creò un’élite fedele alla tutela delle potenze occidentali. Nulla di quanto avvenuto nell’ultimo secolo è uscito dal sentiero di Washington.

Haiti fu anche precursore nell’avere governi di estrema destra. La sua debolezza istituzionale aumentò nel 2001 con il fraudolento arrivo al potere dell’ultraconservatore PHTK, prima sotto la presidenza di Michel Martelly e dopo con l’impresario bananiero Jovenel Moïse. Il terremoto del 2010, che fece più di 200.000 morti e milioni di sfollati, aprì la strada “all’interventismo umanitario” delle ONG che incrementò la dipendenza straniera.

Mentre Henry era in Kenia per negoziare l’arrivo di una missione militare, un’alleanza di gruppi armati ha scatenato una feroce ondata di violenza: hanno bloccato l’aeroporto, hanno saccheggiato porti, hanno attaccato commissariati e sono riusciti a liberare 3.696 prigionieri

Dopo il rifiuto di Moïse di convocare elezioni, il Congresso dovette abbassare le tende nel 2020, accelerando una crisi politica che ebbe il suo climax con l’omicidio dello stesso Moïse nel luglio del 2021 da parte di paramilitari colombiani e statunitensi. Rimase al comando Ariel Henry, nominato primo ministro da Moïse giusto due giorni prima del suo assassinio, con il sostegno degli USA e dell’Europa. Ma anche Henry ha voluto rimanere al potere più del dovuto e ora è finito per cadere.

Per quest’ultimo capitolo è entrato in scena un nuovo fattore: le crescenti bande criminali come principale attore di potere. Mentre Henry era in Kenia per negoziare l’arrivo di una missione militare, hanno bloccato l’aeroporto, hanno saccheggiato porti, hanno attaccato commissariati e sono riusciti a liberare 3.696 prigionieri.  Hanno chiesto, inoltre, la rinuncia di Henry e hanno minacciato una guerra civile.

La Casa Bianca ha compreso che la situazione era insostenibile. Alcune ore dopo che il segretario di stato, Anthony Blinken, gli aveva richiesto “una transizione urgente”, Henry ha inviato da Porto Rico un video con la sua rinuncia. La decisione di sciogliergli la mano era stata presa in un incontro in Giamaica con i leader della Comunità dei Caraibi (Caricom), Francia, Canada e Nazioni Unite, in cui è stato anche deciso di formare un consiglio di transizione.

Il paese è rimasto praticamente paralizzato, con coprifuochi, ritirata di diplomatici stranieri, la sospensione di voli, la chiusura di scuole ed ospedali, gli edifici governativi assediati e una quotidianità attraversata dalla violenza e dal caos.

Un vero stato fallito, che non effettua elezioni dal 2016, senza Potere Legislativo, con il Potere Giudiziario sotto controllo, con attori esterni che decidono la condotta dell’Esecutivo e con le pandillas che dominano buona parte del territorio.

Cause dell’auge paramilitare

Il punto di vista generale su Haiti, molte volte segnato da pregiudizi razzisti e caricaturali, di solito invisibilizza la sua lunga tradizione di resistenza popolare. Nel 2018 avvenne una potente insurrezione che giunse a mobilitare circa due milioni di persone -su una popolazione di 11,5 milioni- contro la corsa del prezzo dei combustibili e altre misure imposte dal ricettario del FMI. La rivolta aveva un’impronta apertamente antineoliberale.

La tremenda effervescenza sociale non poteva essere contenuta da una classica repressione, giacché la polizia contava appena su 7.000 effettivi e le Forze Armate erano state disciolte nel 1995. Finiva, inoltre, di ritirarsi l’ultima missione militare dell’ONU, che aveva occupato il paese tra il 2004 e il 2017 con truppe di una ventina di paesi. La cosiddetta Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite in Haiti (Minustah) aveva lasciato uno stuolo di denunce di crimini, almeno duemila stupri e fu anche la responsabile dell’introduzione del colera che uccise più di 30.000 persone.

“Le bande sono sempre esistite, ma a partire da questo ciclo di mobilitazioni hanno cominciato a crescere e a moltiplicarsi, con l’arrivo di ex marine, miliziani, contrattasti e armi provenienti dagli Stati Uniti”, racconta a El Salto Henry Boisrolin, coordinatore del Comitato Democratico Haitiano.

Secondo un rapporto dell’Ufficio dell’ONU contro la Droga e il Delitto pubblicato nel 2023, circa l’80% dell’armamento di questi gruppi armati proviene dalla Florida.

In solo cinque anni, Haiti è passato dall’avere una criminalità relativamente bassa a contare su federazioni di bande con un enorme finanziamento e armate fino ai denti. Le cifre di assassinii, sequestri, furti e stupri vanno crescendo anno dopo anno: nel 2023 si sono registrati 4.789 omicidi, 119% in più del 2022.

Il terrore inoculato dalle bande, che controllano almeno il 60% del territorio metropolitano della capitale, provoca un costante esodo. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha registrato almeno 362.000 persone che nell’ultimo anno sono dovute fuggire dalle proprie case; le ed i profughi più fortunati sono riusciti ad emigrare all’estero, quelli meno si trovano in precari accampamenti di rifugiati.

Il modello di paramilitarizzazione e il controllo territoriale da parte di poteri non statali, non è nuovo: in America Latina ha lunghi precedenti in paesi come Messico, El Salvador o Colombia

La spiegazione di fondo che Boisrolin condivide è contundente: “Stiamo vivendo un caos pianificato per disarticolare la protesta sociale e il tessuto comunitario. Il popolo sta subendo l’azione di questi squadroni della morte, che sono strumenti dell’élite haitiana e della comunità internazionale, principalmente degli USA, per piegare il movimento popolare, seminare il terrore ed evitare un’altra sollevazione”.

Il modello di paramilitarizzazione, la terziarizzazione del controllo territoriale con gestori di poteri non statali, non è nuovo: in America Latina ha lunghi precedenti in paesi come Messico, El Salvador o Colombia, e oggi si espande in silenzio in tutta la regione con l’esempio più crudo dell’Ecuador.

La particolarità di Haiti è che stia per sfuggire dal controllo dei suoi creatori. Lì appare la controversa figura di Jimmy Chérizier, alias Barbecue, un ex poliziotto divenuto oggi il principale portavoce dell’alleanza delle pandillas, che alcuni tentano di coprire con un’aura quasi rivoluzionaria e altri descrivono come appena un mercenario con vocazione politica. Sia come sia, Barbecue ha anticipato che non riconosceranno “nessun governo di transizione”.

L’altra singolarità, la più determinante, è che il fenomeno paramilitare in Haiti si integra con uno stato totalmente fallito e dipendente. Con le parole di Boisrolin, “questo malgoverno esprime la decomposizione del sistema neocoloniale”.

Intervento capitolo mille

Di fronte alle poche voci della “comunità internazionale” che chiedono una via d’uscita riguardo il rispetto della sovranità haitiana, e l’indebolimento del movimento popolare provocato dal dispiegamento paramilitare, si fa strada un nuovo intervento coloniale. 

L’amministrazione Biden vuole mantenere il controllo di questa enclave geostrategica nel mar dei Caraibi -vicina a Cuba e Venezuela- ma terziarizzando la guida dell’operazione, per non pagare i costi politici tradotti in un eventuale voto di rifiuto della diaspora haitiana nelle elezioni di novembre.

Un nuovo intervento implicherebbe tornare ad imporre con la forza la medesima ricetta che di volta in volta ha fallito, che non solo è stata la soluzione ma che sembrerebbe essere lo stesso problema. Boisrolin conclude: “Da 30 anni mandano missioni e hanno peggiorato le cose. Hanno stuprato, hanno massacrato, hanno manipolato elezioni, ci hanno portato il colera. Ci hanno trasformato in un paese invivibile. Per questo crediamo che l’unica via d’uscita è recuperare la nostra sovranità e il nostro diritto all’autodeterminazione, come dire, trovare una risposta haitiana che rompa con questo sistema neocoloniale”.

Una volta di più acquistano validità le parole di Eduardo Galeano quando descriveva Haiti come “un paese gettato nella discarica per un eterno castigo della sua dignità”.

Foto: Migranti haitiani in un accampamento nella Repubblica Dominicana. (María Ángeles Muñoz)

27 marzo 2024

El Salto

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Gerardo Szalkowicz, Haití: el fracaso neocolonial y el eterno castigo de su dignidad, pubblicato il 27-03-2024 in El Saltosu [https://www.elsaltodiario.com/america-latina/haiti-fracaso-neocolonial-eterno-castigo-dignidad] ultimo accesso 02-04-2024.

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