“I progressismi si adattano al sistema invece di affrontarlo”


Enric Llopis

Intervista al giornalista Raúl Zibechi, coautore di El Estado realmente existente (Ed. La Vorágine).

In un editoriale pubblicato il 1 febbraio nel giornale El País, la giornalista brasiliana Eliane Brum ha denunciato: “Il genocidio (del popolo indigeno) yanomami ha le tracce di Bolsonaro. Il risultato dei quattro anni di laboratorio dell’estrema destra in Brasile emerge sotto forma di corpi infantili”. Dall’altra parte, la Difensoria del Popolo del Perù ha riportato in un solo giorno -il passato 9 gennaio- la morte di 17 persone come conseguenza della repressione delle forze dell’ordine (principalmente nella città di Juliaca, dipartimento di Puno).

“Lo stato oggi non è la strada per elaborare cambiamenti”, afferma il giornalista Raúl Zibechi; il ricercatore uruguayano è autore, insieme al sociologo e analista politico Decio Machado, del libro El Estado realmente existente. Del Estado de bienestar al Estado para el despojo [Lo Stato realmente esistente. Dallo Stato del benessere allo Stato per il saccheggio], pubblicato da La Vorágine. Sui limiti dei governi progressisti, sottolinea l’autore anche di Tempi di collasso. I popoli in movimento: “Si può ridurre la povertà senza toccare le reti del capitale finanziario: il narco-paramilitarismo, i militari e le chiese pentecostali”. L’intervista a Zibechi si realizza attraverso la posta elettronica.

-Lo stato realmente esistente si conclude con il secondo ciclo progressista latinoamericano (governi di questa tendenza in Brasile, Argentina, Colombia, Cile o Messico); sono giunti al potere esecutivo “con una maggiore condizione di cedimenti e patti con l’establishment economico e militare di quella conosciuta e stabilita nel primo ciclo”. In che senso? Puoi menzionare qualche esempio?

-Con Decio Machado avevamo già scritto Cambiar el mundo desde arriba. Los límites del progresismo [Cambiare il mondo dall’alto. I limiti del progressismo], per mostrare che non ci sono stati cambiamenti strutturali in questo primo ciclo, e che al contrario si è registrato un approfondimento del capitalismo. Ora vogliamo insistere sul fatto che gli stati sono cambiati, che non sono strumenti neutrali (mai lo sono stati), ma sono stati sequestrati dall’uno per cento per difendere i propri privilegi.

La situazione internazionale, inoltre, è cambiata. Sono passati Trump e Bolsonaro, ci sono guerre, dallo Yemen fino all’Ucraina, dall’Eurasia fino all’Africa. E in America Latina abbiamo le guerre di saccheggio, nell’Amazzonia e in tutto il Sudamerica, in Messico e in Centroamerica. Il capitale ha dichiarato guerra ai popoli per sfollarli e poter convertire i beni comuni in merci: oro, ferro, rame, terre rare; petrolio e gas; soia e palma da olio, e acqua, molta acqua.

Da ultimo, i militari e lo stato nel suo insieme stanno blindando gli interessi e i progetti concreti delle grandi compagnie. In Colombia, Petro chiama il Comando Sud per difendere l’Amazzonia e Lula la consegna ai militari affinché lo lascino governare, perché continuano ad essere bolsonaristi, questo non cambia da un giorno all’altro. E qui appaiono le debolezze dei progressismi: si adattano al sistema invece di affrontarlo.

-Giudichi lo stato realmente esistente come “una grande trappola”. Si potrebbe dedurre da questa affermazione una certa equidistanza di fronte a casi come quello del Perù, tra il presidente e insegnante rurale indigeno (incarcerato) Pedro Castillo e l’attuale Governo (golpista) di Dina Boluarte (69 morti in due mesi, come conseguenza della repressione delle proteste)?

-Mai nulla è uguale. Dietro Dina Boluarte ci sono le forze armate, la classe imprenditoriale legale e illegale, gli Stati Uniti e la destra peruviana. Hanno imposto una dittatura istituzionale, appoggiata dal Congresso che è stato eletto “democraticamente”, dal potere giudiziario e dalle diverse istituzioni di uno stato coloniale.

Ma Pedro Castillo non ha mai fatto quello che promise di fare nella sua campagna elettorale, al contrario negoziò con l’emergente nuovo capitale illegale (oro, droghe, traffico di persone), e dette le spalle alle basi che lo elessero.

La domanda è: Avrebbe potuto fare un’altra cosa nel Perù patriarcale-coloniale di cui fa parte? Se avesse tentato cambiamenti di fondo, uno solo, il parlamento lo avrebbe cacciato in una questione di pochi minuti. Per questo diciamo che lo stato oggi non è la strada per elaborare cambiamenti.

-Nel testo si evidenzia che “l’apparato statale è stato sequestrato dal capitale finanziario comandato dall’1%, che utilizza senza il minimo rossore il narcotraffico e il paramilitarismo per distruggere i movimenti antisistema”; questa affermazione è incompatibile con l’obiettivo manifestato da Lula da Silva nel discorso di investitura: riscattare dalla fame 33 milioni di persone?

-Per quanto curioso sembri, si può ridurre la povertà senza toccare le reti del capitale finanziario: il narco-paramilitarismo, i militari e le chiese pentecostali. Tutto il Piano Borsa Famiglia nelle sue due prime presidenze, coinvolgeva appena lo 0,5% del bilancio dello stato, e in molti casi ci furono alimenti donati da imprese interessate a diffondere alimenti con organismi geneticamente modificati, e dalla cooperazione internazionale.

Il problema di Lula torna ad essere lo stesso, come se la storia si fosse fermata al 2003: presentare la lotta alla fame come una misura anti-neoliberale. Nulla di tutto questo. È necessario combattere la fame, ma non seguendo le ricette della Banca Mondiale che è stata l’inventrice della proposta con politiche sociali focalizzate, ma con cambi strutturali.

Questi cambi devono frenare l’avanzata dell’agronegozio, dell’attività mineraria, della distruzione della vita, dell’Amazzonia e di altre zone intermedie. Ma questo non lo può fare lo stato, ma i contadini, gli indigeni, i popoli neri e meticci, quelli che veramente vogliono e possono farlo. Durante il governo di Bolsonaro la principale resistenza è provenuta dagli indigeni, che sono il 2% della popolazione, non dalle organizzazioni statocentriche come i sindacati.

-Utilizzi nel libro l’espressione “Stati per il saccheggio”. Si potrebbe applicare a progetti di infrastrutture come il Treno Maya, promosso dal presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, e alle resistenze del movimento zapatista?

-Totalmente. Il saccheggio in Messico sono queste opere che menzioni, ma anche i 300 mila morti e i 100 mila scomparsi. Perché per saccheggiare, per rubare, è necessario attaccare i popoli e le persone che vivono i territori che il capitale desidera riconvertire a suo beneficio.

La cosa interessante è che oggi in Messico la resistenza gira non solo intorno allo zapatismo, ma ad un Congresso Nazionale Indigeno ogni volta di più protagonista e ad una moltitudine di collettivi rurali e urbani, indigeni e non indigeni, che sono molto attivi, con molta chiarezza su quello che sta succedendo che non è se non la massiccia e forte militarizzazione del paese ad opera del governo di López Obrador.

-Credi che siano possibili cambiamenti o diminuire, durante la presidenza di Gabriel Boric, la violenza dello stato del Cile contro la popolazione indigena mapuche? In questo caso si può applicare il concetto di “neoliberalismo estrattivista”?

-Tutto il contrario. Boric ha militarizzato il Wall Mapu con maggiore intensità di qualsiasi precedente governo dal 1990. Uno poteva pensare che un governo di sinistra avrebbe diminuito la militarizzazione e aperto spazi di negoziazione, ma è tutto il contrario. Tanto in Cile come in Argentina, ambedue governi progressisti, l’offensiva anti mapuche è molto forte.

Ci sono due ragioni. Una, che la destra e gran parte della società, influenzate dalla classe imprenditoriale forestale, una delle più potenti in Cile, ha preso il popolo mapuche in ostaggio, perché la sua lotta è frontale contro le piantagioni di pini che li soffocano.

La seconda è la potenza del popolo mapuche, che dal 2019 ha realizzato 500 recuperi di terre, in piena pandemia. La cosa più grave per il potere, è l’effetto “contagio” delle occupazioni mapuche sugli abitanti e contadini non mapuche che stanno recuperando terre che gli furono rubate dalle imprese forestali durante la dittatura di Pinochet.

Boric, il Fronte Ampio e il Partito Comunista hanno preso le parti degli imprenditori di fronte al popolo mapuche e ai contadini. Questo è molto grave, ma il risultato è evidente: il loro governo ha appena il 28% di sostegno, a meno di un anno dall’essersi insediato. Il peggiore svolgimento che si ricordi.

-L’attuale presidente del Salvador, Nayib Bukele, di destra, ha inaugurato un macrocarcere allo scopo di rinchiudere giovani delinquenti (la maggiore prigione dell’America Latina, secondo fonti governative). Come si inserisce questo grande carcere penale nella caratterizzazione dello stato che si fa nel libro?

-Il caso di Bukele è patetico perché viene dalla sinistra, dal Fronte Farabundo Martí (FMLN), partito per il quale fu sindaco di San Salvador quando aveva appena 34 anni. Ora è un presidente molto controverso, conservatore, militarista e opportunista. Si vanta di aver costruito la prigione più grande del continente in un paese con il più alto tasso di prigionieri del mondo.

Dal punto di vista concettuale, forse siamo di fronte alla deriva verso uno Stato Penitenziario, caratterizzato dalla sistematica violazione dei diritti umani che, in fondo è l’altra faccia del modello estrattivo che depreda la natura e le persone.

-Da ultimo, che referenti attuali metteresti in rilievo, nel campo popolare latinoamericano, di movimenti dal basso che presuppongano un’alternativa ai partiti/governi progressisti?

-I popoli originari, al primo e più rilevante posto, in tutti gli angoli di questo continente. Ma ogni volta di più i contadini e i popoli neri, perché tutti loro sono quelli che stanno subendo di più le conseguenze del neoliberalismo. Diciamo che sono al fronte dove compaiono le scavatrici, la guerra chimica del glifosato e le bande armate di narco e paramilitari.

Colpisce la moltiplicazione delle autodifese: guardie indigene, cimarrone (discendenti di schiavi fuggiti, ndt) e contadine in Colombia; ronde contadine e guardiani delle lagune in Perù; polizie comunitarie e l’EZLN in Messico; comunità mapuche che si fanno carico dell’autodifesa, così come popoli amazzonici in Brasile e Perù.

Queste pratiche, al di là delle loro diversità, ci stanno parlando di popoli in movimento che non accettano più la tutela né l’intermediazione degli stati e che, anche giungendo ad accordi puntuali con loro, non si fidano e decidono di esercitare i loro propri poteri e le loro autonomie.

11/02/2023

Rebelión

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Enric LlopisLos progresismos se adaptan al sistema en vez de enfrentarlopubblicato il 11-02-2023 in Rebeliónsu [https://rebelion.org/los-progresismos-se-adaptan-al-sistema-en-vez-de-enfrentarlo/] ultimo accesso 14-02-2023.

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