Il catastrofico pareggio del Brasile


Fernando Rosso

La spaccatura politica si è trasformata in una frattura sociale che include una chiara divisione geografica. Le ragioni della stretta vittoria di Lula e delle difficoltà che vengono.

Lo scenario che hanno lasciato le elezioni in Brasile può essere interpretato da due differenti prospettive e ambedue contengono elementi di verità. Si può porre l’accento negli stretti limiti che condizionano il sonoro trionfo di Lula da Silva: ha vinto per meno di due punti di differenza; l’alleanza che lo ha portato nuovamente alla presidenza è così ampia che impone anche delle restrizioni ai piani di governo; il bolsonarismo è uscito rafforzato nel Congresso e in vari governatorati statali (niente meno che San Paolo, mentre i suoi alleati hanno trionfato a Río de Janeiro e Minas Gerais); la destra governerà 13 dei 27 stati e le condizioni dell’economia internazionale e locale sono molto più avverse di quelle che ha attraversato nei sui primi governi.

Nonostante ciò, tutte queste fragilità di Lula possono distorcere la reale forza del bolsonarismo. Jair Bolsonaro è stato il primo presidente della recente storia del Brasile che è andato alla sua rielezione e non è riuscito nella sua missione, nonostante contasse su tutti gli strumenti dello stato e sulle “scuse” di una pandemia e una guerra. Le più di mille denunce di lavoratori che affermavano che i loro padroni avevano fatto pressione su di loro affinché votassero per Bolsonaro non sono bastate. Nemmeno la campagna sporca né le tonnellate di fake news propalate dall’oleato apparato comunicativo del bolsonarismo nella giungla delle reti sociali.

Sebbene sia reale la crescita di quello che alcuni analisti hanno battezzato come un “conservadurismo popolare” composto da settori della classe medio bassa, con frazioni di classe lavoratrice, quello che da quattro anni si presentava in queste elezioni come un’ondata inarrestabile di fascistizzazione del Brasile ha subito un rovescio.

Anche Bolsonaro è stato vinto, nonostante che le centrali sindacali e i movimenti sociali (che rispondono alla direzione politica del PT) non abbiano affrontato seriamente nelle strade né il regime golpista guidato da Michel Temer né l’ultradestra mentre era al governo. La sua scommessa è stata la costituzione di alleanze superstrutturali con il centrodestra. Una strategia che -nei fatti- ha configurato un altro vantaggio per l’ex capitano. nel 2017 avvenne il maggiore sciopero nazionale contro le riforme del lavoro regressive promosse da Temer e la misura non ebbe continuità.

Lula ha davanti un compito molto difficile: la costruzione nel prossimo periodo di un consenso da una posizione di arbitro di una coalizione politico-sociale con molteplici tendenze centrifughe, una volta sconfitto il cuco (chi è abile ad ingannare, ndt) dell’ultradestra. Nonostante ciò, questo non può occultare le enormi difficoltà che ha affrontato il bolsonarismo nel costruire la propria egemonia che quattro anni fa molti impressionisti davano per scontata.

Fernando Henrique Cardoso fu l’ultimo presidente eletto al primo turno in tempi in cui il neoliberalismo godeva nel mondo di buona salute. Tanto Fernando Collor de Mello prima come Lula e Dilma Rousseff dopo hanno avuto bisogno del ballottaggio per giungere al Planalto. Nonostante ciò, fin dalla prima elezione di Lula, il candidato che trionfava, lo faceva in modo più o meno omogeneo in tutto il paese (conquistando per lo meno 24 dei 27 stati). A partire dal 2006 quando Lula ottenne la sua rielezione, lo scenario è cambiato.

Da un lato, le politiche sociali del lulismo (con un asse nel piano Borsa Famiglia) hanno permesso al PT di conquistare l’impoverito nordest brasiliano e di recuperarlo dalle mani di caudilli conservatori per trasformarlo nel suo centro di gravità politico ed elettorale. Secondo il politologo André Singer, Lula è riuscito a comprendere la presunta “psicologia” dei poveri brasiliani che si sintetizza in due aspirazioni: la speranza che lo stato possa mitigare la disuguaglianza e il timore di qualsiasi tipo di disordine (sia quello causato dall’inflazione, dai movimenti sociali o gli scioperi). Il programma di Lula -secondo Singer- è stato di lotta alla povertà e non necessariamente di distribuzione delle entrate: una diminuzione della povertà senza scontrarsi con il capitale. Ha funzionato per un decennio, combinato con una politica che ha facilitato l’accesso all’educazione universitaria di ampi settori della gioventù attraverso un’espansione delle università pubbliche.

Se i poveri del nordest divennero petisti, il “mensalão” (uno scandalo di corruzione per bustarelle a legislatori che nel 2005 coinvolse la direzione del partito e del governo) produsse il passaggio all’opposizione e all’ “antipetismo” delle classi medie e medio alte del sud e del sudest del paese inclusa la “zona nucleo” dei paesi con base sull’agronegozio. Una regione che al calore della primarizzazione che ha accompagnato il superciclo delle materie prime ha aumentato il proprio peso relativo nell’economia nazionale: alcuni studi indicano che la somma di beni e servizi generati dall’agronegozio ha già raggiunto il 30% del PIL brasiliano. Dei 50 maggiori finanziatori della campagna elettorale di Bolsonaro, 33 sono stati impresari dell’agro; nelle elezioni, l’ex capitano ha vinto in 77 su 100 paesi a base agraria.

Da quel momento il PT vince nella metà del paese mentre i suoi oppositori si sono rafforzati nell’altra metà. La spaccatura politica si è trasformata in una frattura sociale che include una chiara divisione geografica.

In questo “pareggio catastrofico” acutizzato dalla combinazione di crisi sociale, economica e politica che ha avuto la sua espressione nelle massicce mobilitazioni del giugno 2013, Bolsonaro emerse come un “Bonaparte” non necessariamente desiderato dall’operazione giudiziaria conosciuta come Lava Jato e il golpe istituzionale contro Dilma, anche se dopo sostenuto dalle classi dominanti. Ha radicalizzato questo blocco sociale, ha aggregato l’attivazione politica delle forze militari e di sicurezza, una certa connessione con il nuovo precariato o l’universo di coloro che impoveriti lavorano per conto proprio. Una frazione della classe lavoratrice lasciata dal neoliberalismo all’intemperie.

Egemonia invertita

Nel contesto delle elezioni che portarono Lula alla sua prima rielezione, il sociologo brasiliano Francisco de Oliveira collaudò un concetto per spiegare una nuova egemonia che stava sorgendo nella politica del paese continente. Definì come “egemonia invertita” la politica che permise la continuità del PT: non erano più i dominati quelli che consentivano il loro proprio sfruttamento, ma i dominanti quelli che accettavano di essere diretti politicamente da un partito e una direzione di un’altra classe, a condizione che la “direzione morale” non mettesse mai in discussione la logica degli affari. Si trattava di un’egemonia di “neoliberalismo inclusivo” esercitata da un partito dei lavoratori, per questa stessa ragione una “egemonia invertita”. In realtà, nella più classica tradizione gramsciana il fenomeno risponde a quello che il comunista sardo definì come trasformismo: l’incorporazione (o cooptazione) di dirigenti delle classi subalterne da parte del blocco di classi dominanti per una politica di contenzione (ed eventualmente riforme) che contiene tutto un meccanismo di “passivazione”.

Verso il 2013 perde efficacia questo meccanismo di regolazione delle tensioni sociali del paese dopo un decennio nel quale il lulismo articolò moderati miglioramenti per quelli in basso sostenendo i privilegi di sempre per quelli in alto. La combinazione tra le giornate di giugno 2013 -il ciclo di massicce mobilitazioni più importante nella storia del paese-, nuovi scandali di corruzione e il rallentamento economico che sfociò in una recessione a partire dal 2015, segnarono l’esaurimento del meccanismo della “egemonia invertita”. Le classi dominanti vollero mettere la “egemonia sul diritto” e imporre la direzione politica di qualche dirigente dei partiti tradizionali della destra. Con la destituzione di Dilma Rousseff riuscirono a favorire l’ascesa di Geraldo Alckmin (oggi vicepresidente eletto di Lula) al potere. Bolsonaro fu la conseguenza di alcuni errori di calcolo in questa operazione.

Il blocco sociale che ha sostenuto il bolsonarismo non poteva egemonizzare la base sociale che appoggia il lulismo -il suo programma economico era la negazione stessa di questi settori- e, viceversa, l’eterogeneo blocco che appoggia il presidente eletto non può offrire una guida unificata al nucleo dell’antipetismo, oggi concentrato e capitalizzato da Bolsonaro.

Fondamentalmente, perché per rispettare l’implicito contratto elettorale tra Lula e le sue basi d’appoggio (rovesciare non solo l’eredità bolsonarista, ma anche “correggere” il governo di Dilma) dovrebbe colpire gli interessi di questo blocco, orientamento che Lula non può prendere senza che sia bloccato da un Congresso ostile o senza che si rompa la sua coalizione. Il successo della “egemonia rovesciata” presupponeva l’attenuazione di un fattore che oggi è molto potente: la crisi (nazionale e internazionale). La stessa che ha fatto fracassare precipitosamente il tentativo di “egemonia sul diritto” e all’errore di calcolo che finì nei quattro funesti anni del Frankenstein bolsonarista al potere.

I momenti in cui ha luogo questo tipo di catastrofico pareggio sono propizi per l’irruzione di guide messianiche in coloro che hanno aspettative smisurate. Ad un certo momento, il giudice Sergio Moro e il Potere Giudiziario hanno voluto occupare questo posto. Jair Bolsonaro e Lula da Silva sono figure molto differenti: l’ex dirigente metallurgico è una personalità politica straordinaria nella storia del Brasile per diverse ragioni, mentre il mediocre rappresentante dell’ultradestra è stato l’emersione di un processo di decomposizione politica coniato dalle forze più reazionarie e oscure del paese. Nonostante ciò, ambedue condividono le aspirazioni generate intorno alle loro figure: l’anelito di poter risolvere contraddizioni sociali, politiche, economiche e storiche solo con la forza delle loro personalità.

In un saggio intitolato Il ruolo dell’individuo nella storia, il fondatore del marxismo russo, Georgij Plechanov, rifletté sulla spinosa questione e scrisse: “Grazie alle particolarità della loro intelligenza e del loro carattere, le personalità influenti possono far variare l’aspetto individuale degli avvenimenti e alcune delle loro conseguenze particolari, ma non possono far variare il loro orientamento generale, che è determinato da altre forze”. È valso per Bolsonaro , vale per Lula e, soprattutto, è valido per il Brasile che dovrà trovare le forze sociali che gli permettano di uscire dal labirinto.

fonte: elDiarioAR

11/11/2022

La Haine

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Fernando RossoEl empate catastrófico de Brasilpubblicato il 11-11-2022 in La Hainesu [https://www.lahaine.org/mundo.php/el-empate-catastrofico-de-brasil] ultimo accesso 02-12-2022.

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