“Lotte territoriali per le autonomie indigene in Abya Yala”, è il titolo del recente libro che condivide i dialoghi tra rappresentanti dei popoli indigeni e organizzazioni sociali con intellettuali e ricercatori/trici dell’America Latina. Coordinato da Luciana García Guerreiro e Fátima Monasterio Mercado, il prologo è di Raúl Zibechi.
Le autonomie camminano nei più diversi e remoti angoli dell’America Latina. Tra popoli originari, neri e meticci, nei campi e nelle città, tra contadini e lavoratori, per mano di donne e anziane che le sospingono a partire dalle più elementari necessità di preservare la vita, per continuare ad essere popoli. Cammina ciascuno con il proprio ritmo, con i propri passi, muovendo i piedi al ritmo dei propri sogni o delle proprie più urgenti necessità.
Guardando indietro, diciamo appena due o tre decenni fa, ci sembra incredibile come siano cresciuti i popoli, i quartieri, le comunità, nei loro autogoverni e autonomie territoriali. Agli albori del secolo, montate sul ciclo piquetero, ascoltiamo voci collettive che si proclamavano autonome da governi, chiese, partiti e sindacati, in sintonia con la parola dello zapatismo che, in quei medesimi anni, predisponeva la formazione dei suoi caracol e giunte di buon governo che hanno insegnato al mondo che potevano governarsi da sé stesse, nonostante il disprezzo e i crimini dei cattivi governi.
Nel Cauca colombiano decollavano in quei medesimi anni le prime Guardie Indigene, esperienza del Popolo Nasa che ancora non aveva richiamato i nostri cuori, ma che fin dal primo giorno mostravano come affrontare, con la dignità del bastone di comando e la volontà collettiva, tanto i militari come i paramilitari e i guerriglieri che volevano coinvolgerli in una guerra che non è stata mai di loro.
Ora non basta lo sguardo più ampio per abbracciare tutte le autonomie che ci sono: quelle che si ergono nelle selve, quelle che si inerpicano fino alle cime andine e fluiscono, come i fiumi avvincenti, verso le pianure di ambedue le coste del continente. Sono troppe per contarle. Molto diverse per ordinarle in poche variabili. Tante che ne rimane sempre qualcuna lasciata nell’oblio, così ingiusto, come la smemoratezza che ci impegnamo a combattere.
Non dedicherò questo spazio alle autonomie zapatiste. Queste che sono passate dai cinque caracol iniziali ai dodici, che sono diventati noti nell’agosto del 2019, e i 42 centri di resistenza nati al calore dell’attivismo delle donne, delle giovani e dei giovani zapatisti, come disse a suo tempo il sub Moisés. Con le loro decine di scuolette e sale di salute, erette e gestite dalle basi d’appoggio e dalle comunità, senza chiedere in prestito nulla a quelli in alto, rifiutando degnamente le politiche sociali con cui vogliono umiliarle. Con i loro tre livelli, locale o comunale, municipale e regionale.
La Guardia Indigena del Cauca della Colombia
Meno conosciuta, ma non meno importante, voglio portare il caso della Guardia Indigena del Consiglio Regionale Indigeno del Cauca (CRIC), nata nei remoti contrafforti delle Ande con nomi inusuali come Jambaló, agli inizi del millennio. Richiama l’attenzione la crescita delle guardie, questione su cui è necessario soffermarsi, perché autodifesa fa coppia con autogoverno e autonomia. Quello che difendono è la vita radicata in territori di dignità. È la persistenza dell’alterità quella che conduce i popoli verso l’autonomia: perché siamo differenti, abbiamo bisogno dell’autonomia; per difenderla, per governarla e continuare ad essere differenti.
Dalle 300 guardie iniziali passiamo a decine di migliaia in tutta la Colombia. Il numero è il meno. Durante i primi mesi della pandemia il CRIC ha mobilitato 7000 guardie in una “Minga verso l’Interno” che era necessario proteggere, con 70 punti di controllo, l’autonomia di 84 riserve e 115 consigli, per far funzionare la propria giustizia, le fiere di scambio e la medicina tradizionale dei savi thé walas. Guardie che hanno reso possibile l’armonizzazione del territorio e delle anime, con rituali intorno alle tulpas/focolari, ai piedi delle montagne o sulle sponde delle lagune sacre.
Tra 5000 e 7000 guardie sono scese da Santander de Quilichao fino a Cali, attraversando canneti in terre usurpate che il processo di Liberazione della Madre Terra sta recuperando palmo a palmo, per partecipare alla rivolta insieme alle e ai giovani respinti dal neoliberalismo. Sono tornate alle loro frazioni con i loro zaini pieni di energia ribelle e hanno lasciato seminato il seme delle “guardie comunitarie urbane” che già hanno cominciato a far camminare la propria parola. Hanno mostrato alle gioventù urbane come si possono neutralizzare i maschi armati, con il coraggio che dà l’esperienza e il valore che apportano i popoli.
Le guardie colombiane si stanno espandendo in modo notevole. Tra i 115 popoli originari sono state formate tra le 40.000 e le 60.000 guardie, cifre che oscillano al calore della necessità perché, come dicono gli indigeni del Popolo Nasa, quando la situazione lo richiede “tutti siamo guardie”.
Nell’ultimo decennio, e questa è forse la cosa più notevole, l’esperienza della Guardia Indigena si è acclimatata tra altri popoli dando vita alla Guardia Cimarrona dei popoli neri per difendere i loro palenque e perfino la Guardia Contadina, recuperando la tradizione delle “guardie civiche” dell’Associazione Nazionale degli Utenti Contadini del decennio del 1970.
Governo Territoriale Autonomo della Nazione Wampis del Perù
Un altro passo e andiamo verso la giungla amazzonica, vicino alla frontiera tra il Perù e l’Ecuador, dove da cinque anni funziona il Governo Territoriale Autonomo della Nazione Wampis, che è la risposta delle comunità alle minacce rappresentate dalle mega opere, in particolare per i fiumi che sono la vita dei popoli amazzonici. Alcune settimane dopo le prime dichiarazioni di autonomia, dal 26 al 29 novembre 2015, circa 300 rappresentanti di 85 comunità si riunirono e concordarono la creazione del governo autonomo.
La dichiarazione è un fatto senza precedenti nella storia del movimento indigeno peruviano, essendo il risultato di quattro decenni di lotte di rivendicazione culturale e territoriale. Come recita lo statuto di autonomia, si decise di “governare il proprio territorio nell’interesse generale, proteggerlo da aggressioni esterne, mantenere un ambiente sano, reclamare i diritti collettivi quando è richiesto, così come definire le strutture di governo, la partecipazione e la rappresentanza esterna conformemente al diritto all’autonomia e al diritto consuetudinario della nazione wampis”.
Con gli anni, il passo fatto dai wampis avrà una profonda influenza nelle centinaia di popoli amazzonici che affrontano i medesimi problemi, gli estrattivismi, e condividono cosmovisioni simili. Per ora, altri tre popoli amazzonici del nord peruviano stanno dibattendo di prendere un cammino simile.
Autonomia per difendersi dall’attività mineraria e dall’agronegozio
L’Amazzonia legale brasiliana è testimone di un’ondata di processi autonomistici, come rivela l’indagine in corso del geografo Fabio Alkmin. Si tratta di quattordici popoli che transitano verso l’autonomia per difendersi dall’attività mineraria e dall’agronegozio. Si organizzano intorno ai protocolli autonomi di consultazione che portano avanti i popoli munduruku, ashaninka, wajapi, juruma, kayapó, waimiri, yanomami, panará, irantxe, mura y wapichana, tra gli altri, degli stati del Pará, Mato Grosso, Amazonas, Roraima, Amapá y Acre.
L’obiettivo è implementare il Trattato 169 dell’OIL che riconosce i diritti collettivi dei popoli, ma al di fuori dell’intervento e della regolamentazione degli Stati e perfino delle ONG che si presentano come “amiche” dei popoli ma vogliono soppiantarli.
Non stanno implementando un modello generale, formale e astratto di autonomia, ma fissano le consultazioni sui meccanismi tradizionali, fatto che equivale ad adattare il già celebre “comandare obbedendo” alla realtà di ogni popolo. Per questo, come segnala questo libro, dobbiamo parlare di “autonomie”, al plurale, perché ogni popolo, ma anche ogni quartiere, ogni settore sociale (perché l’autonomia inizia ad estendersi al di là delle frontiere etniche), implementa l’auto-governo autonomistico secondo i propri modi e maniere.
In principio le autonomie erano destinate ad essere le forme con cui i popoli originari si relazionano con gli stati-nazione. Nonostante ciò, qualcosa si sta muovendo, come sempre, dalle periferie verso il centro. Viste dai popoli, le autonomie che nascono come forme difensive per continuare ad essere, per assicurare la vita delle comunità indigene, incominciano ad andare più in là, mostrando che possono essere non solo modi di resistenza ma progetti politici di trasformazione del mondo o, se si preferisce, i mondi altri realmente esistenti.
Detto in un altro modo, le autonomie che sono nate per regolare la relazione tra popoli indigeni e stati si stanno trasformando in alternativa di vita e riferimenti politici in un periodo di caos sistemico e crisi di civiltà. Si può menzionare l’esperienza zapatista come una di quelle con più successo al momento di costruire il nuovo, senza dimenticare che i popoli del Cauca colombiano insegnano a contadini e neri, a settori popolari urbani e a giovani respinti dal neoliberalismo, che non hanno altra strada che organizzarsi, creare altri mondi per sopravvivere e difenderli come fanno le guardie.
Non siamo di fronte ad un nuovo progetto politico che sostituisce l’operaismo, ma di fronte a processi reali che mostrano qualcosa di più profondo: la creazione di mondi nuovi non passa per l’accettazione e la convalida delle istituzioni statali, ma per la capacità di dispiegare le potenze autonomiste che si annidano in tutti i popoli e settori sociali.
È pura necessità di fronte alla “quarta guerra mondiale” o accumulazione per saccheggio/furto/distruzione, che è il modo con cui il capitalismo opera in questo periodo di decadenza. Non siamo di fronte a un’opzione ideologica, ma di fronte alla lettura di una realtà che ogni volta di più i settori sociali stanno transitando in America Latina.
In questo senso, le autonomie non possono essere intese come un luogo a cui si giunge, una architettura istituzionale definitiva e stabile, ma come parte di un lungo processo di auto-organizzazione collettiva comunitaria, che ha un inizio ma non ha fine perché è sempre incompleta.
Se lo stato non deve essere un corsetto per le lotte dei popoli, come precisa Silvia Rivera Cusicanqui, nemmeno possono esserlo le teorie della rivoluzione che hanno segnato il nord in altri periodi, ma che stanno venendo sfidate dall’aggressività del capitale e superate dalle resistenze e dalle creazioni dei popoli.
Stare attenti ad ogni passo alla costruzione di autonomie e autogoverni, è molto più importante che focalizzare l’attenzione su partiti e movimenti burocratizzati. Con quelle stiamo apprendendo; accompagnarle senza giudicare è una sfida di umiltà e può essere un punto fisso politico teorico per ricostruire il pensiero critico e le pratiche emancipatorie.
*Il presente materiale è il terzo libro del Gruppo di Lavoro del Clacso “Popoli indigeni e processi autonomistici”. È stato pubblicato da Editorial El Colectivo.
Foto in alto: Olmo Calvo / Subcoop
24 giugno 2022
Agencia Tierra Viva
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Raúl Zibechi, “Las autonomías indígenas se están convirtiendo en alternativas de vida y en referencias políticas”, pubblicato il 24-06-2022 in Agencia Tierra Viva, su [https://agenciatierraviva.com.ar/las-autonomias-indigenas-se-estan-convirtiendo-en-alternativas-de-vida-y-en-referencias-politicas/] ultimo accesso 30-06-2022. |