America Latina: Stato d’emergenza in tempi di coronavirus


Cecilia Osorio

La pandemia del covid-19 accende gli allarmi di un’America Latina che ancora si lecca le ferite della repressione che ha vissuto alla fine del 2019. Lo stato d’emergenza mette di nuovo i corpi di sicurezza a controllare le strade, mentre i Governi sperimentano tecnologie digitali che controllano la popolazione.

L’anno passato il continente ardeva. I movimenti di resistenza occupavano le strade mostrando la propria stanchezza di fronte agli impatti di politiche saccheggiatrici e Governi che non prestavano attenzione alle richieste di cambiamento da parte della popolazione. In paesi come Bolivia, Ecuador, Colombia o anche il Cile, che era presentato al mondo come esempio di stabilità economica, l’indignazione ha portato la maggioranza della popolazione a uscire a protestare. In questi giorni la risposta dei Governi è stata implacabile. Sono stati decretati coprifuochi che hanno posto i militari e i loro carri armati a reprimere insieme alle altre forze di sicurezza. Il risultato: centinaia di morti e alcune promesse di cambiamento di fronte alle proteste.

L’anno 2019 è terminato vedendo estinguersi nella mappa i fuochi di protesta con l’incognita di quello che riserverà il 2020. Quello che sicuramente nessuno ha previsto è stato uno scenario di pandemia mondiale, che mettesse i manifestanti in quarantena, con i corpi di sicurezza un’altra volta nelle strade, controllando ora il rispetto delle misure di isolamento sociale.

Da anni, l’America Latina attraversa processi di militarizzazione con le forze armate che svolgono compiti nell’area della sicurezza pubblica sotto l’idea di “nuove minacce”, come la lotta contro le reti del crimine organizzato. Secondo quanto segnala Lucía Dammert, sociologa cilena specializzata in sicurezza, crimine e governabilità in America Latina, il cambiamento si spiega perché “nella regione è sostanzialmente diminuita l’ipotesi di conflitto. Nonostante ciò, il bilancio dei militari si mantiene abbastanza alto nella maggioranza dei paesi”.

Anche i militari sono passati a integrare le missioni di pace delle Nazioni Unite e ad offrire aiuto di fronte a situazioni di catastrofi o disastri naturali. La crisi del coronavirus si inquadra in questo contesto, mostrando la difficoltà di incorporare corpi addestrati per agire nei campi di battaglia a realtà che hanno bisogno di un profilo umanitario. Per Dammert, non solo bisogna rivedere le risorse che sono destinate all’area della Difesa, tenendo conto che si tolgono ad altre aree strategiche, ma anche il tipo di formazione che ricevono queste forze affinché la loro partecipazione “non sia a detrimento dei processi democratici”.

Ma anche lo stato di panico ha dato carta bianca agli stati per implementare tecnologie di controllo e pedinamento, con applicazioni che geolocalizzano i telefonini, con la scusa di monitorare gli infettati dal covid-19. Sebbene questi sistemi da tempo siano applicati in altri paesi, in America Latina il loro uso generava ancora dibattito. “Quello che uno vede in Asia, questa gestione panoptica statale in termini di dati biometrici, dati di salute, è un cambiamento super significativo dove due o tre mesi fa probabilmente nessuno avrebbe permesso che il Governo avesse la capacità di proseguire. Questo si apre come una alternativa per il controllo della salute pubblica, ma in mani sbagliate è sempre molto pericoloso”, dice la specialista cilena.

Al Sur, consorzio di organizzazioni che lavorano per rafforzare i diritti umani nel contesto digitale, ha denunciato l’uso di tecnologie intrusive in Ecuador, Colombia, Cile, Paraguay e Uruguay. Nel comunicato, Al Sur mette in allerta sugli effetti che questo tipo di applicazioni può avere dentro uno stato di diritto: “Riconoscendo la gravità di questa crisi sanitaria e la possibilità legale dei Governi di prendere misure eccezionali con il fine di controllare la pandemia, è importante ricordare che queste devono essere portate a termine in stretta conformità con le norme dei diritti umani”.

Non dimenticheremo

Prima che fosse registrato il primo caso di covid-19, il Cile si preparava a realizzare il plebiscito nazionale -previsto per il 26 aprile- con il quale sarebbe iniziato il processo per l’approvazione di una nuova Costituzione. Dopo settimane di proteste che iniziarono il 14 ottobre 2019, il Governo di Sebastián Piñera aprì a questa possibilità in risposta alle proteste. Nonostante ciò, lo stato d’emergenza ha spostato il referendum al 25 ottobre 2020, mentre i militari tornano in strada. Anche se per il momento sono i rappresentanti politici quelli che continuano ad essere al comando delle città.

Le immagini dei corpi di sicurezza che colpiscono con accanimento i manifestanti permane nella retina dei cileni e in migliaia di corpi segnati dalla repressione di questi giorni. Secondo il rapporto dell’Istituto Nazionale dei Diritti Umani, le manifestazioni conosciute come “Il Cile si è svegliato” hanno lasciato come saldo 26 morti e più di 3.000 feriti, molti di loro con perdite oculari a seguito degli spari di proiettili di gomma e di pallini. La Commissione Interamericana dei Diritti Umani ha denunciato anche casi di tortura da parte delle forze dello stato.

Con questo precedente, Dammert considera che il Governo stia approfittando della crisi sanitaria “per abbassare il profilo” dei comandi militari e dei carabinieri (la polizia). “Stanno utilizzando questa congiuntura per mostrarli, tra virgolette, al servizio del cittadino. Ma non è un lavaggio d’immagine che durerà per sempre; è qualcosa di abbastanza puntuale e temporaneo. Rapidamente l’istituzione poliziesca mostrerà l’altra sua faccia quando dovrà adottare compiti di controllo”, dichiara Dammert.

Anche nel caso dell’Ecuador, le proteste sociali, che avvennero nell’ottobre del 2019, terminarono con 11 morti e più di mille feriti, secondo dati della Difensoria del Popolo. Le manifestazioni si mitigarono dopo che la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE) giunse ad un accordo con il Governo di Lenin Moreno per abrogare il Decreto 883, che eliminava il sussidio alla benzina. Questa misura fu quella che fece sì che la popolazione uscisse a manifestare. Nonostante ciò, da tempo la CONAIE esprime il proprio rifiuto verso le politiche del Governo e chiede di ampliare le reti statali nelle zone più vulnerabili.

L’Ecuador è uno dei paesi con più casi di covid-19 in America Latina. La situazione più grave si registra a Guayaquil, dove gli ospedali e le imprese funebri sono collassate, e i feretri appaiono dispersi per la città. In questi giorni, la provincia di Guaya, dove si trova la località, è stata decretata “zona di sicurezza militarizzata”, fatto che implica uno stretto controllo della popolazione che abita nella zona.

Secondo Apawki Castro, dirigente della CONAIE, Guayaquil è un esempio delle città che si vendono al mondo come modello di sviluppo di successo, ma che in contesti di crisi mettono a nudo la negligenza dei Governi. “Il Partito Social Cristiano non ha messo gli occhi nei quartieri più emarginati della città. Per questo il coronavirus non può essere una giustificazione per controllare la popolazione con il piombo. Si devono dirigere le politiche pubbliche affinché il settore più povero possa essere in condizione di rimanere a casa”.

La CONAIE ha promosso una campagna di solidarietà campo-città affinché le popolazioni più lontane possano rifornirsi. Per questo hanno sollecitato il Governo di incaricare le forze armate di trasportare i prodotti. “Anche loro devono contribuire dal lato sociale. Quello che successe ad ottobre, che eravamo in strada, continuerà nella memoria collettiva dei popoli, che almeno loro ci aiutino a portare un carico o due carichi, se avverrà, perché in questo momento non stanno aiutando”, dichiara Castro.

Terra di nessuno 

In Brasile la crisi di coronavirus propone uno scenario surrealista, con un presidente che contravviene a tutte le misure sanitarie stabilite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In questi giorni, Bolsonaro parlava del covid-19 come di una “influenzuccia”, mentre percorreva le strade di Brasilia salutando con i baci i commercianti della zona. Sollecitava anche la popolazione a continuare ad andare nelle chiese, dichiarandole “servizi essenziali” in un territorio in cui i locali religiosi si moltiplicano ad ogni isolato.

Nonostante questa posizione negazionista, i governatori e i sindaci hanno disposto misure di isolamento sociale con le forze di sicurezza al comando, fatto che in un paese con un alto tasso di esecuzioni extragiudiziarie non dà nessuna tranquillità. Secondo le ultime cifre del Forum Brasiliano di Sicurezza Pubblica, nel 2018, morirono 17 persone al giorno per mano dei poliziotti. Per Alexandre Fuccille, professore di relazioni internazionali dell’Università Statale Paulista ed ex presidente dell’Associazione Brasiliana di Studi di Difesa, sebbene la crisi possa aggravare la situazione, “la repressione non cambierà, specialmente contro i settori più esclusi: quelli delle periferie dove prevale la popolazione razzializzata”.

Ma il braccio forte dello stato, così come quello delle altre politiche governative, appena giunge nelle favelas di Río de Janeiro. Lì è territorio delle milizie (paramilitari) e delle organizzazioni legate al narcotraffico. Sono questi gruppi quelli che decretano il coprifuoco, mentre la popolazione senza accesso all’acqua potabile e in condizioni di affollamento è carne da cannone della pandemia. Fuccille spiega che le milizie, che hanno più peso dei narco, “sono mafie composte da ex poliziotti e gente legata ai corpi di sicurezza. Non credo che siano preoccupati in termini di isolamento della popolazione, ma di continuare a fare i propri affari”.

Una situazione di caos alla quale si aggiungono le dichiarazioni del comandante dell’Esercito, Edson Pujol, che ha detto che in caso di sommosse sociali questa forza non dubiterebbe ad agire come il “braccio forte e la mano amica”, motto dell’Esercito brasiliano. Negli ultimi giorni è anche corsa voce che i militari erano disposti ad abbattere Bolsonaro, una possibilità che viene trattata da quando è diventato presidente. Nonostante ciò, per Fucille “questa è più finzione che realtà, e per il momento i militari si mantengono fermi nel loro appoggio al presidente.

Ma Bolsonaro non è stato l’unico presidente che ha sottovalutato gli effetti della pandemia. Anche il presidente del Messico, Andrés Manuel Lopéz Obrador, ha dovuto far marcia indietro rispetto alla propria posizione iniziale e annunciare misure di isolamento, in una società che da anni conta su governi che, senza che abbia importanza la loro provenienza ideologica, fanno appello alla militarizzazione dei corpi repressivi. Anche in Colombia, paese che riporta gravi problemi di violenza, il presidente Ivan Duque ha annunciato che sarebbero state inasprite “le sanzioni per coloro che non rispettino gli ordini di isolamento”.

Nessuno si salva

Nel frattempo in El Salvador, il presidente Nayib Bukele, ha ricevuto l’applauso internazionale, dopo aver decretato la sospensione del pagamento dei servizi di base e la consegna di un buono per i settori più colpiti. Tra le misure ha anche autorizzato l’imposizione del coprifuoco fino a quando durerà la pandemia. Vale ricordare che due mesi fa la comunità internazionale aveva ammonito il presidente per il suo profilo autoritario, dopo che aveva fatto irruzione nel Congresso con le Forze Armate per chiedere all’opposizione l’approvazione di un prestito.

Anche in Argentina l’atteggiamento del presidente Alberto Fernández è elogiato, mentre circolano caricature con la sua immagine. Dall’inizio della pandemia il mandatario si è fatto carico di trasmettere i messaggi alla popolazione, rispondendo anche agli utenti nelle reti sociali, con un tono paternalistico che passa dalla pedagogia alla minaccia. “Vi avviso che dove li troviamo, li arresteremo e gli toglieremo le auto perché sono degli incoscienti. Perché se non entra la ragione, entrerà con la forza”, ha detto in una delle sue prime apparizioni. Nel paese circolano pattuglie con i megafoni che ripetono questo messaggio di tolleranza zero.

Fernández è assurto al potere in mezzo ad una forte crisi economica scatenata dalle politiche dell’ex presidente Mauricio Macri, che ha lasciato il 40% della popolazione in una situazione di povertà. Il mandatario ha promesso di generare dei cambiamenti strutturali che trarranno il paese fuori da questa situazione, ma anche di lasciare indietro le misure repressive che l’amministrazione dell’ex ministra della Sicurezza, Patricia Bullrich, aveva implementato. Ai tempi di Macri, il paese ha raggiunto la cifra record di una morte ogni 19 ore per casi di grilletto facile o torture nei luoghi di detenzione.

In questi tre mesi, il Governo ha abrogato alcuni protocolli che autorizzavano questi eccessi, così come la nuova ministra della Sicurezza, Sabrina Frederic, ha chiesto alle forze di sicurezza di agire con proporzionalità nel contesto della crisi sanitaria. Nonostante ciò, per María del Carmen Verdú, portavoce del Coordinamento contro la Repressione della Polizia e Istituzionale (Correpi), da un giorno all’altro non si cambia una pratica che è politica di stato, e ancor meno “se a tutti i permessi che avevano per arrestare arbitrariamente ora gli aggiungi che ti possono fermare per il solo atto di camminare in strada. Le persone sono già predisposte”.

Secondo i rapporti che diffonde il Correpi, più di 43.000 persone sono state arrestate dalle forze di sicurezza, la maggioranza nei quartieri popolari. Sebbene, come è successo nel resto della regione, i primi contagiati appartenessero a settori danarosi -e che in molti casi, legati alle loro vacanze, hanno ignorato le misure di isolamento-, la repressione avviene nelle zone più povere. “Un ragazzo che era un raccoglitore di cartoni era uscito per andare a vedere della gente che gli regalava il pane del giorno prima per alimentare i cavalli. E mentre tornava, un poliziotto gli dice che lo avevano voluto assaltare e lo uccide. È rimasto morto sulla busta di pane. Un ragazzo con due figlioletti”, racconta la Verdú.

Senza informazioni 

In Venezuela, l’emergenza sanitaria colpisce forte in un contesto di scarsità nella quale vive giornalmente la popolazione, con uno stato d’allarme che questa settimana è stato esteso per altri 30 giorni. Secondo quanto segnala Verónica Zubillaga, professoressa dell’Università Simón Bolívar e membro fondatore della Rete di Attivismo e Ricerca per la Convivenza, in questi giorni si allontana la voce protagonista di un comitato di esperti medici ed epidemiologici. In cambio, “c’è molta presenza militare, con poca diffusione di informazioni e pedagogia cittadina”.

Nel processo chavista i militari hanno acquisito un grande protagonismo. La realtà si è aggravata a partire dal 2015 durante il Governo di Nicolás Maduro, con la militarizzazione della sicurezza cittadina che si è espressa in massicce operazioni poliziesche nei quartieri poveri, come quella chiamata Operazione di Liberazione del Popolo, e dopo con il corpo di Forza di Azione Speciale della polizia (FAES).

In questo senso, Zubillaga, considera che le lascia “un profondo sapore amaro quello che rimane da sperimentare in un futuro vicino”. Nel rapporto di marzo del 2019 commissionato dalle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Michelle Bachelet, si chiedeva la dissoluzione della FAES e l’indagine sulle esecuzioni extragiudiziarie perpetrate durante le operazioni di sicurezza.

La crisi del coronavirus ha anche messo in pausa paesi che avevano promesso di dare il via a processi elettorali. Il Governo ad interim della Bolivia ha annunciato il rinvio delle elezioni presidenziali che erano stabilite per maggio, mentre il direttore per le Americhe di Human Right Watch, José Miguel Vivanco, denuncia che le autorità violano il diritto alla libertà d’espressione, “approfittando delle pandemia per arrogarsi il potere di sanzionare penalmente coloro che pubblichino informazioni che le autorità considerano “scorrette”.

Il virus ha ottenuto quello che alcuni mesi fa sembrava impossibile, mantenere la popolazione reclusa nelle proprie case, accettando la perdita di libertà che lo stato d’emergenza impone. Nonostante le denunce di arbitrarietà, i Governi latinoamericani ribadiscono che il riflettore è  posto nel contenere i contagi, mentre fanno fronte alla pandemia con sistemi sanitari precarizzati. Ma giungerà il momento in cui la popolazione tornerà alla “normalità”, con l’aggravante che sarà in contesti sociali più impoveriti a seguito del blocco economico. Lì si vedranno gli effetti dell’estensione dello stato d’emergenza in tempi di coronavirus.

18 aprile 2020

El Salto

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Cecilia OsorioAmérica Latina: estados de excepción en tiempos de coronavirus” pubblicato il 18/04/2020 in El Salto, su [https://www.elsaltodiario.com/coronavirus/america-latina-estado-excepcion-tiempos-brasil-bolivia-argentina-chile-bolsonaro-militarizacion] ultimo accesso 29-04-2020.

, , ,

I commenti sono stati disattivati.