Praticamente è da due settimane che il popolo di Haiti è protagonista di un’insurrezione in grande scala. Sì, due settimane, per non dire due mesi, due anni o due secoli. Ma nonostante questo il mondo continua ad ignorare il coraggio di queste donne e uomini che come dice l’attivista haitiano Henry Boisrolin, “non hanno più nulla da perdere perché gli hanno tolto perfino la vita”.
Il silenzio su ciò che avviene ad Haiti è spaventoso, fa male alla coscienza e all’anima che giustamente questo popolo, che è stato protagonista della prima grande rivoluzione antischiavista e del grido di Indipendenza nel 1804, sia stato castigato in questo modo. Non solo per le consecutive invasioni degli Stati Uniti che hanno trasformato il paese in una colonia un’altra volta schiavizzata e di una povertà senza limiti, ma perché coloro che per anni hanno proclamato il loro desiderio di “aiutare” a lenire le necessità della popolazione, come è il caso delle truppe dell’ONU, arruolate nella Minustah, ed ora nella Minijusth, si sono trasformate anche in carcerieri, violentatori seriali di bambini e bambine, avvelenatori di fiumi, provocatori di epidemie di colera, voraci ladri che non hanno tralasciato nulla dal rubare e distruggere.
Né che dire della maggioranza dei presidenti sudditi di questi medesimi interessi promossi dagli invasori: Dartiguenave e Borno, semplici viceré di Washington durante l’occupazione yankee, Duvalier, l’assassino “presidente a vita”, padrone e signore dei feroci Tontons-Macoutes o “Volontari della Sicurezza Nazionale” che hanno lasciato un saldo di 30 mila assassinati; Aristide che cercò di rompere le catene e finì incatenato lui stesso alle pretese degli Stati Uniti, e gli ultimi della lista: Martelly, buffone, corrotto e repressore, e l’attuale, Jovenel Moise, capetto, avvinghiato ad una poltrona che non gli spetta più, e colpevole di atti di corruzione per essersi messo nelle proprie tasche, e in quelle dei suoi seguaci, parte del denaro (più di 4,2 miliardi di dollari) che così generosamente aveva inviato la Rivoluzione Bolivariana del Venezuela attraverso la Petrocaribe.
Attualmente l’economia haitiana è fallita, il salario minimo dei pochissimi che ancora hanno un lavoro è di 5 dollari quotidiani e il tasso di disoccupazione è circa del 70 per cento, la mancanza di abitazioni a seguito del terremoto e il furto sfacciato degli aiuti che per questo sono giunti, fa sì che gran parte della popolazione dorma ancora in tende improvvisate o direttamente all’aria aperta.
Nonostante ciò, la casta al governo resiste ad andarsene e ad evitare più dolore di quello provocato. Moise e un gabinetto imposto, e non dal voto popolare, giacché le ultime elezioni sono state scandalosamente fraudolente, sono circondati dall’insurrezione di quelli che Frantz Fanon chiamava i “condannati della terra”, ma non cedono proprio perché a nessuno al mondo sembra interessare Haiti.
Così come Washington allinea i suoi governi marionetta del Latinoamerica e il ministero delle colonie dell’OEA per attaccare e cercare di asfissiare l’eroico Venezuela rivoluzionario, così come ci sono centinaia di quotidiani, radio e catene televisive che a tutte le ore insultano il suo legittimo presidente Nicolás Maduro, questo volgare rumore disinformativo si trasforma in nulla al momento di parlare della tragedia del popolo haitiano.
Per tutto questo, è necessario che noi, attraverso la comunicazione popolare, cerchiamo di avvicinarci alla realtà di coloro che lottano per la propria libertà, non stiamo zitti, non nascondiamo, non equivochiamo le gesta coraggiose di cui oggi è protagonista Haiti. Lì, dove queste ultime due settimane centinaia di migliaia si sono lanciate nelle strade per non andarsene più, marciando e marchiando a fuoco (letteralmente parlando) le provocatrici istituzioni del potere, i lussuosi hotel dei corrotti.
Tutti gli angoli delle grandi città odorano dei pneumatici bruciati delle barricate, basta solo vedere i video artigianali che gli stessi protagonisti della sollevazione popolare filmano quotidianamente. Genti umili che si aiutano l’uno l’altro per soccorrere i feriti e sotterrare come si può i morti della repressione governativa, ma che nonostante tutto non abbandonano gli spazi di territorio già conquistati.
Giovani incappucciati, per non asfissiare per i gas, che lottano con le pietre contro i proiettili, ma che si rendono anche conto che molto presto questa disobbedienza pacifica dovrà fare un salto qualitativo se realmente si vuole mettere fine alla dittatura di coloro che li opprimono.
Tutte queste azioni, ora accompagnate da vari giorni di sciopero generale, che questo lunedì tornerà a paralizzare tutte le scuole del paese e sarà accompagnato da una misura simile in ciascuno degli istituti statali.
“Fuori Moise” è il grido di guerra su cui coincidono tutti i partiti di sinistra e le organizzazioni popolari, “Fuori il corrotto Moise” protetto da Trump e dall’Europa, ma questa stessa protesta significa anche un gigantesco “basta” alle bande parapoliziesche che stanno facendo massacri in vari punti del paese e che nella zona di Arbonite hanno ora obbligato più di duemila contadini a sfollare.
Così stanno realmente le cose ad Haiti o come dice molto bene il dirigente popolare Camille Chalmers: “La situazione è di assoluta ingovernabilità” e l’unico che non vuole rendersene conto è lo stesso Jovenel Moise.
Haiti, questo piccolo e ammirato cuore d’Africa nei Caraibi, dove una grande maggioranza, precisamente questi, che hanno fatto irruzione con forza per raccogliere l’eredità rivoluzionaria del liberatore Jean Jacques Dessalines, non sono disposti ad accettare pannicelli freddi né scorciatoie che finiscano con nuove frustrazioni. Da prender nota: sono popolo sollevato e vogliono governare.
17 giugno 2019
Resumen Latinoamericano
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Carlos Aznárez, “Haití: La épica de una gran insurrección popular” pubblicato il 17/06/2019 in Resumen Latinoamericano, su [http://www.resumenlatinoamericano.org/2019/06/17/haiti-la-epica-de-una-gran-insurreccion-popular-por-carlos-aznarez/] ultimo accesso 21-06-2019. |