Nel corridoio minerario peruviano. Quinoa di cento colori


Raúl Zibechi

Da Cusco e dall’Apurímac.

Per il potere economico e politico, il settore minerario è l’unica attività economica realizzabile nelle regioni andine. Il Perù è un paese minerario fin dalla conquista. Nonostante gli incolmabili danni che produce, i critici di solito sono accusati di essere dei “nemici dello sviluppo”, mentre le comunità che si oppongono alle mega miniere sono state accusate dalla giustizia mediante una nuova figura legale: “organizzazione criminale che estorce il governo centrale e l’impresa mineraria”. Un dialogo impossibile tra interessi antagonisti.

La luminosità del Cusco lacera la vista. Ma richiama anche l’attenzione, seduce lo sguardo che si va posando ingenuo sulle pietre incas, prima, e gira verso le montagne magiche, poco dopo. Le soavi valli cuschegne stanno dando accesso, strada in alto e in basso, a profonde gole tappezzate dalle più varie coltivazioni secondo i differenti piani ecologici che percorriamo. Le terre alte e fredde, a più di 3.500 metri, popolate da pastori di alpache, lama e pecore, dialogano e scambiano con le terre basse e calde, produttrici agropastorali e di frutti tropicali.

La spietata geografia delle Ande, in uno dei suoi nodi centrali, permette di contemplare, con un solo sguardo, dalla profondità della valle fino alle cime innevate. La regione dell’Apurímac è cruciale per quanto scoscesa ed estrema. L’arrivo ad Andahuaylas, la città più popolata con centomila abitanti, comporta di scendere quasi duemila metri in appena dieci chilometri di strada. Una caduta verticale, con mille difficoltà, dall’altipiano fino ad una valle calda e umida a poco più di duemila metri sul livello del mare. C’è un motivo per cui il geografo Antonio Raimondo comparò la regione con un foglio grinzoso.

Percorrendo la gola del fiume Apurímac, che nasce a cinquemila metri e sbocca nelle Amazzoni, ci inerpichiamo per pendii verticali cesellati da appezzamenti verdi e gialli, afferrati a terreni inclinati dove le famiglie comunere coltivano in condizioni spiegabili solo con l’ostinazione che richiede la sopravvivenza. Là in alto solo patate e fave sfidano il freddo e i venti forti; nelle zone temperate intermedie, le spighe di grano stanno mutando dal verde all’ocra annunciando l’imminente raccolto; più in basso, nel calore delle terre basse, il mais generoso e l’infinita varietà di frutti, manghi, granadille, avocadi e papaie.

In alcune curve del percorso, in genere vicino alle decine di casolari che costeggiamo, i maestosi pisonay si ergono frondosi, ostentando un arazzo di fiori colorati. In piccoli gruppi, emergendo all’improvviso, con una certa timidezza, isolotti di quinoa appaiono per la molteplicità di colori, dal verde marziale fino ad un verdastro che stride quando lo illumina il sole nelle alture, passando da violetti brillanti, rossi frenetici e gli ocra giallastri di molteplici varietà, così bene ritratti dal poeta nato ad Andahuaylas: “le centinaia di fiori della quinoa che ho seminato nelle cime fremono al sole nei colori”.

ABUSO MINERARIO. Il cosiddetto “corridoio minerario” attraversa tre regioni: Cusco, Apurímac e Arequipa. Sono 500 chilometri tra la miniera di rame Las Bambas, a quattro mila metri di altezza, fino al porto di Matarani nel Pacifico, da dove si esporta il minerale con destinazione il continente asiatico. La strada attraversa 215 centri popolati dove vivono 50 mila persone, è militarizzata perché qualsiasi alterazione del trasporto ha costi milionari per l’impresa.

L’Apurímac è il cuore del corridoio, la regione più povera del paese e quella che ha la maggior percentuale di lingua quechua. Contadini umili dalle mani rugose e dai piedi incalliti, ma non tanto poveri come le loro élite, che recentemente si sono accordate a creare delle università, nella capitale Abancay e ad Andahuaylas, la città più popolata, poco più di un decennio fa per calmare le donne del mercato che hanno fatto scoppiare le strade per chiedere educazione terziaria per i propri figli.

Tra febbraio e marzo la strada è stata bloccata per 68 giorni dai comuneri di Fuerabamba, la comunità più vicina ad una delle maggiori miniere del mondo, che produce 140 mila tonnellate quotidiane di rame. La miniera è a 75 chilometri a sud di Cusco e cominciò ad operare nel 2015, ma i primi passi per il suo insediamento avvennero un decennio prima per mano dell’impresa mineraria svizzera Xstrata Cooper, che nel 2014 la vendette alla statale cinese Minerals and Metals Group (MMG).

Quando l’impresa mineraria cinese comprò Las Bambas, decise di modificare il progetto che già aveva il permesso ambientale. La cosa più grave fu l’abbandono del mineraledotto destinato a trasportare il rame fino ad Espinar (Cusco), dove sarebbe stato lavorato, optando per il trasporto del minerale con i camion. È il principale motivo del conflitto, giacché tutti i giorni passano attraverso le comunità e i paesi 600 camion articolati che si spostano in convogli di 35 unità, sollevando inopportune nuvole di polvere.

I contadini si lamentano che le fattorie sono state invase dalla polvere, che non possono più portare fuori il proprio bestiame e che il rumore che fa “il verme di trailers” gli impedisce di conversare con i vicini. Ancor peggio perché la strada dell’impresa attraversa le loro terre, senza l’autorizzazione dei comuneri. Passano, inoltre, decine di cisterne con il combustibile, per cui la strada si è trasformata in un vero pericolo.

Il precedente presidente del Perù, Pedro Pablo Kuczynski, in prigione preventiva per lavaggio di denaro, occupava la presidenza del direttorio della Servosa, un’impresa che attualmente conta su 400 camion e ha il monopolio del trasporto del minerale di Las Bambas. L’economista, impresario e banchiere presidente, giocò forte a favore del progetto minerario, nascondendo i propri interessi nel trasporto del minerale. Nel 2015, il congressista Justiniano Apaza denunciò che Kuczynski riceveva dei finanziamenti dall’impresa mineraria e che la sua impresa ottenne “senza licitazione il cento per cento del trasporto del minerale in varie zone del sud del paese”. L’anno seguente fu eletto presidente senza che nessuno indagasse le denuncie.

COMUNERI SENZA COMUNITÀ. La logica del modello estrattivista è implacabile. Per rendere possibile lo sfruttamento di Las Bambas, le 450 famiglie della comunità Fuerabamba dovettero essere trasferite, perché vivevano giusto sopra una favolosa ricchezza che presuppose il maggiore investimento minerario del mondo, con 11 miliardi di dollari per mettere in moto la quinta miniera del mondo. Il nuovo insediamento fu edificato con abitazioni in “stile svizzero”, i comuneri furono compensati con elevate cifre e nel nuovo insediamento (a due chilometri dall’originale, a 3.800 metri di altitudine) furono costruiti un centro sanitario, istituti educativi e perfino un cimitero, completamente trasferito dal sito originale.

Ma non coltivano più la terra, si sentono “come colombe rinchiuse” nella nuova localizzazione e gli anziani non sanno che fare senza le loro pecore; deambulano senza una direzione tra le moderne abitazioni in fila che sembrano prigioni. Nonostante ciò, sopportano il dolore e l’abbandono in silenzio, perché in Perù uno degli epiteti più difficili da accettare è quello di “antiminerario”.

L’80 per cento della popolazione della regione mineraria è povera e la metà dei minori di cinque anni patisce una denutrizione cronica. La capitale del distretto dove è insediata Las Bambas, Challhuahuacho, a due chilometri dalla miniera, in pochi anni è cresciuta da due a 16 mila abitanti , un vero tsunami demografico con profonde conseguenze sociali. Secondo Ruth Vera di Diritti Umani Senza Frontiere, ora “abbondano i problemi di violenze carnali, violenze domestiche e delinquenza che sono state scatenate dalla presenza mineraria”.

La maggioranza dei maschi presta servizio in imprese che operano per la miniera e vanno nelle osterie e nei bar, fatto che scompiglia la vita familiare e comunitaria, in una società profondamente patriarcale dove la violenza ha un’ampia legittimità sociale.

L’altro problema è la repressione statale. Secondo l’ONG CooperAcción, le 50 mila persone che vivono vicino alla strada “hanno sospesi i propri diritti alla libertà e alla sicurezza personale, all’inviolabilità del domicilio e alla libertà di riunione e di transito nel territorio”, per l’applicazione di stati d’emergenza ogni volta che avviene qualche conflitto.

Il corridoio stradale si è trasformato in Perù in un pezzo strategico, giacché include cinque grandi unità minerarie in sfruttamento (tra loro Las Bambas) e unisce non meno di quattro importanti progetti di sfruttamento. In questo quadro, la Polizia Nazionale ha firmato, in segreto, 31 accordi con imprese minerarie per la protezione dei loro affari. I poliziotti si muovono su fuoristrada delle imprese e hanno le basi negli accampamenti delle imprese minerarie, fatto che li trasforma in una guardia privata delle imprese. Questi meccanismi permettono di parlare di un “governo minerario” nella regione, a cui partecipano stato e imprese.

Nel conflitto minerario intorno a Las Bambas, risaltano due questioni. Da un lato, 500 comuneri hanno dei processi aperti per aver partecipato a proteste contro l’impresa mineraria. Tre contadini purgheranno più tempo in prigione per aver bloccato la strada, che l’ex presidente per essersi rubato milioni. Ma la repressione è appena una faccia del conflitto. Le conseguenze più profonde della presenza mineraria possono riassumersi nello smembramento delle comunità per la disarticolazione del tessuto comunitario che queste attività provocano.

L’UTOPIA DI CONTINUARE AD ESISTERE. L’Apurímac è la regione dove nacquero Micaela Bastidas (moglie di Tupac Amaru) e José María Arguedas, due grandi della lotta sociale e delle lettere di questo continente. In quasi tutte le piazze di Abancay, la terra natale di Micaela, c’è qualche statua bianca che la ricorda, con le sue trecce lunghe e una mano alzata al cielo. La tomba di Arguedas è stata eretta in una piazza in cui si riuniscono, fin dai tempi remoti, i contadini che giungono al mercato di Andahuaylas, dove nacque un secolo fa.

Il martirio di Bastidas dovrebbe essere stato motivo di qualche compassione per gli eredi della conquista. Fu portata insieme ai suoi figli, Hipólito di 18 anni e Fernando di 10, e a suo marito, nella Plaza de Armas di Cusco, dopo essere stati torturati, per essere  giustiziati uno alla volta. Micaela fu obbligata a presenziare alla morte del suo figlio maggiore, al quale prima tagliarono la lingua per aver parlato male degli spagnoli. La strangolarono in pubblico, la garrotarono e la finirono a calci.

Sarebbe eccessivo dire che l’episodio è solo storia, alla luce dei racconti dell’antropologa quechua Gavina Córdova, nata ad Ayacucho e residente ad Andahuaylas. L’attività mineraria a cielo aperto attualizza il fatto coloniale o, per citare il più importante sociologo latinoamericano, Aníbal Quijano, rafforza la “colonialità del potere”, che è rimasta intatta nonostante la scomparsa della colonia. Lo ius primae noctis continua a funzionare nella sierra, sia come abuso sessuale o, meglio, adattato alle nuove relazioni lavorative, che permettono ai padroni di non pagare il salario (sic) durante i primi mesi di “prova” dei nuovi lavoratori.

Ma il colonialismo ha una faccia ancor più fetida: quella che mostrano le stesse organizzazioni sociali e politiche che resistono all’attività mineraria, ma anche i partiti di sinistra. Il giornalista Jaime Borda, presidente di Diritti Umani Senza Frontiere, afferma che “dal 2006 fino al 2014 la maggioranza dei dirigenti comunali hanno terminato male il proprio mandato, con accuse di aver approfittato dell’incarico, di cattiva gestione economica e di negoziare solo a favore dei propri familiari”. Le imprese minerarie operano con abbondanti risorse affinché le comunità eleggano persone vicine ai loro interessi, fatto che fa sì che gli incarichi di direzione siano ferocemente contesi.

In molti casi, afferma il giornalista, “la comunità non reagisce più come un gruppo coerente, ma come una somma di individui che vegliano ciascuno sui propri interessi”. Da parte sua, Córdova evidenzia che i terreni comunali stanno venendo parcellizzati e sono titolati come proprietà privata, perché per l’impresa mineraria è più facile negoziare con le famiglie che con la comunità.

La simbiosi tra modernità e attività mineraria, tra sviluppo e colonialità del potere, sta provocando maggiori danni di quelli già abbondanti snocciolati dalla Colonia e dalla Repubblica durante cinque secoli. Poco più di mezzo secolo dopo aver scritto “Appello ad alcuni dottori”, uno straziante poema di Arguedas con il quale denunciava la discriminazione della cultura quechua, la “quinoa di cento colori” che amava e celebrava, si è convertita in mercanzia altamente apprezzata nei ristoranti dei paesi centrali, ma si è convertita in un lusso irraggiungibile per le famiglie comunere.

“Semino quinoa di cento colori, di cento specie, di seme potente. I cento colori sono anche la mia anima, i miei infallibili occhi”, verseggia il poeta. Arguedas non visse per vedere la distruzione dei suoi sogni rigeneratori, preferì andarsene di sua volontà, prima di contemplare impotente la distruzione del mondo che amava.

Foto: Diario Correo

18 maggio 2019

Desinformémonos

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Raúl ZibechiEn el corredor minero peruano. Quinua de cien colores” pubblicato il 18/05/2019 in Desinformémonos, su [https://desinformemonos.org/en-el-corredor-minero-peruano-quinua-de-cien-colores/?fbclid=IwAR0GNjN-dm0nSqp8m7R_NZgrCCJ5ta_SnXrMtgbeWJUFzUhd5BGGCWfg89Q] ultimo accesso 28-05-2019.

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