Managua, dicembre 2018
Si tratta di una descrizione. Senza la pretesa di offrire una lettura della tragedia che avviene. Né di analizzare con precisione una crisi socio-politica con un imprevedibile finale.
Evidente. Non si vedono più blocchi (barricate). La ribellione popolare che scoppiò il 18 aprile e si prolungò per vari mesi, è stata schiacciata. Il saldo del massacro è inoccultabile: 325 morti (il regime ne “riconosce” 199), 2.000 feriti, 600 prigionieri politici, decine di scomparsi, 350 medici licenziati dagli ospedali pubblici. Più di 30.000 esiliati in Costa Rica. In campagna la “caccia” è stata selvaggia e varie zone rurali sono ancora tenute militarmente dall’Esercito e dalla Polizia.
Le organizzazioni sociali, (studenti, territoriali, e altre) hanno ripiegato. Molti dei loro precedenti dirigenti, così come quelli sorti durante l’insurrezione, sono stati assassinati o sono nelle carceri. Allo stesso tempo, centinaia di attivisti si tengono in clandestinità, rifugiati nei quartieri periferici, protetti da famiglie e amici, nascosti in diverse istituzioni della società civile.
L’argomento di una protesta di massa, civica, e soprattutto pacifica, per essere genuino, deve essere sostenuto da quelle/quelli impegnati con una incondizionata solidarietà.
Senza smettere di mettere in risalto l’altra faccia della formidabile lotta democratica: le migliaia di giovani, donne e abitanti che si sono mobilitati a Masaya, León, Estelí, Matagalpa e altrettanti luoghi. Con coraggio temerario. Erigendo barricate, organizzando picchetti di auto-difesa, usando mortai di fabbricazione casalinga, pietre, pali, sampietrini. Disposti a tutto, come nel municipio di Moninbó (Masaya). Ancora si possono vedere lì i segni della battaglia disuguale, in case, edifici e graffiti.
Contro questi “autoconvocati” il regime ha dispiegato una macchina criminale: franco tiratori parapolizieschi, armati di fucili tipo AK e Dragunov, Remington M24 e FN SPR, mitragliatrici RPK e PKM, e anche di lanciagranate portatili PG-7. Come dire, armi da guerra che in Nicaragua possiede solo l’Esercito (o si acquisiscono fuori dalle istituzioni armate ufficiali), come ha denunciato Amnesty International (AI) in un’indagine del suo gruppo per le “Situazioni di Crisi”.
Terminata la “operazione pulizia” (battezzata dalla dittatrice Rosario Murillo, “useremo ogni mezzo”), che Amnesty International ha provato con foto, video e testimonianze, (100% Noticias, 8-11-2018), il regime dittatoriale ha orchestrato una nuova metodologia autoritaria.
Dal 28 settembre, ha proibito i cortei e i blocchi stradali. Gli scioperi civici e gli scioperi del lavoro sono considerati azioni di “sabotaggio”, la più minima protesta è accusata di “terrorismo”. Le etichette di “traditori della patria” (incluso nella lista il generale Humberto Ortega, ex capo dell’Esercito Sandinista, fratello del dittatore) e di “golpisti al servizio dell’imperialismo” circolano nei discorsi ufficiali, nelle reti sociali e nei canali della TV fedeli al regime. Il “Potere Giudiziario” è uno strumento sinistro che risponde agli ordine della dittatura.
Non si percepiscono, a prima vista, controlli e posti di blocco della polizia vistosi. Né l’oppressivo clima del sistema totalitario delle dittature del Cono Sud degli anni 1970-1980.
A quei tempi, le organizzazioni di sinistra erano clandestine, senza mostrare la testa, e l’opposizione democratico-borghese sotto una totale proscrizione politica e mediatica. Nessuno spiraglio di legalità. Dalle catacombe, dalle prigioni e dall’esilio, così era la resistenza negli anni della “Dottrina della Sicurezza Nazionale” e del “Plan Cóndor”. Inimmaginabile qualsiasi reportage e articolo d’opinione sui mezzi di stampa di massa che giudicassero i regimi militari come dittature, o che alludessero alle loro innumerevoli atrocità.
Per questa ragione, tra le tante altre (storiche, politiche, economiche, sociali), le analogie sono inutili. Anche se il regime Ortega-Murillo ha instaurato uno stato di polizia, sistematico, che utilizza metodi di “repressione pinochetista”.
In Nicaragua, dopo il massacro, la repressione è diventata più “selettiva”, anche se non meno brutale. Cerca di decapitare prima di tutto le organizzazioni e le dirigenze sociali attive -alcune con regolare esposizione pubblica- che generano coscienza e denuncia. Sono i principali ostacoli alla continuità repressiva e all’impunità del terrorismo di stato.
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A partire dal 12 dicembre, l’accanimento repressivo ha puntato contro i due fuochi principali e più visibili della resistenza: le organizzazioni dei diritti umani e i pochi media e programmi giornalistici indipendenti (100% Noticias, Confidencial, Esta Semana, La Prensa). Ritiro delle personalità giuridiche, assalto a locali, saccheggi di attrezzature, furto di assegni e di denaro destinati al funzionamento e al pagamento di affitti e salari.
L’immagine di Vilma Núñez, 80 anni, presidente del Centro Nicaraguense dei Diritti Umani (Cenidh), che giovedì 13 dicembre affronta un plotone di polizia, è un simbolo dell’indomabile coraggio civico. Alcune delle ONG più perseguitate sono guidate da donne.
L’Unità Nazionale Azzurra e Bianca formata (il 4 ottobre 2018) da universitari e contadini, attivisti sociali, dirigenti politici, collettivi femministi, impresari, e l’Alleanza Civica per la Giustizia e la Democrazia, è svanita.
Le richieste di un’immediata rinuncia di Ortega-Murillo (domanda centrale tra aprile-settembre), e l’anticipazione immediata delle elezioni, hanno perso forza per non dire che si sono diluite. L’agenda di richieste è centrata sulla cessazione delle persecuzioni: la libertà dei prigionieri politici, lo smantellamento dei paramilitari, la fine della censura sulla stampa.
Nel frattempo, tornano ad installarsi con più forza le proposte di un “dialogo nazionale” per “ristabilire le istituzioni”. La Chiesa Cattolica e il Cosep (Consiglio Superiore dell’Impresa Privata), insistono nuovamente su questa strategia.
Per il Cosep (riunito in assemblea generale mercoledì 12 dicembre), la priorità è che “si cerchi con urgenza una soluzione negoziata alla crisi sociopolitica del paese affinché non aumenti il problema economico che colpisce la popolazione” (La Prensa, 13-12-2018). Timidamente, si menziona l’anticipazione delle elezioni. Soprattutto per tenere in considerazione le istruzioni degli Stati Uniti che, a partire dal Nica-Act, hanno deciso di allineare l’insieme degli impresari su una posizione di dura opposizione al regime.
Da parte loro, i padroni dell’Unione dei Produttori del Nicaragua (Upanic) denunciano le “espropriazioni” che effettuano i gruppi di “occupaterre”, che hanno invaso circa 5.400 manzanas (7.780 ettari) occupando, da aprile, proprietà di 65 imprenditori. Gli “occupaterre”, sostenitori del regime, occupano queste proprietà, con la promessa che il governo “legalizzerebbe i loro lotti”.
Non è nell’agenda la realizzazione di Scioperi Civici Nazionali, nemmeno manifestazioni di massa, a meno che il regime li autorizzi.
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L’esplosione sociale è stata la più radicale espressione di stanchezza e rifiuto. Mostrando la completa perdita di legittimità politica del regime, tanto come la sua variopinta e divisa base sociale. La ribellione popolare ha svelato la natura del governo Ortega-Murillo. Uno dei nove comandanti che diressero la rivoluzione sandinista, Luis Carrión, dà una definizione: si tratta di un regime gangsteristico. Repressivo, clientelare, mafioso. Con reazioni “schizofreniche”. Che difende il proprio territorio di affari sparando e ricattando apertamente. I suoi sostenitori ricevono sia minacce come benefici pratici ed economici.
Il nucleo esecutore di questa base sociale è limitato, afferma il sociologo Oscar René Vargas. “Diciamo che sono circa mille, 1.500 che sono disposti ad uccidere per mantenere Ortega al potere. Ha il vantaggio di avere l’immunità e di poter fare atrocità, ti rubano, ti assalgono, ti tolgono i cellulari, si rubano le auto. Non stanno in giro per una questione ideologica. Sono dei fanatici. (Intervista nella rivista Domingo, La Prensa, 16-12-2018)
Dall’altro lato, i “militanti sandinisti” e gli impiegati pubblici, usati come forza da lavoro. Sono i “rotonderos”, che devono fare presenza tutti i giorni nelle 12 Rotonde di Managua, costruite per facilitare la circolazione ed evitare i “pegones” (rallentamenti, ndt) nel traffico automobilistico.
Con loro il governo ha voluto riprendere le strade conquistate dall’opposizione a partire da aprile. E, di passaggio, mostrare il sostegno “spontaneo” verso il FSLN (Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale) contro “i vandali golpisti”. Obbligati a sventolare bandiere rossonere e azzurre e bianche, devono stare sotto tende precarie nei punti di concentrazione. Nei primi mesi dell’insurrezione, partivano da lì anche le “camminate” a sostegno di Ortega-Murillo.
Come moneta di pagamento, trasporto e cibo: La popolazione li ha battezzati con il soprannome di “sapos” (rospi, esseri immondi, e spioni, ndt). Ripudiati perfino dai loro amici, compagni di lavoro e vicini, sono andati scoraggiandosi. La truppa civile di scontro è stata rimpiazzata. Nella sua maggioranza, i rotonderos di oggi sono impiegati pubblici che rispettano il proprio orario di lavoro nelle Rotonde. Molti dicono “siamo anche delle vittime”. Ci sono funzionari dell’Istituto Nicaraguense della Previdenza Sociale (Inss) e del Ministero dell’Educazione (Mined) ma anche di altre ripartizioni dello stato.
Gli ordini provengono da “coordinatori”, membri della JS (Gioventù Sandinista) che agiscono come tali in tutti i ministeri. Subordinati completamente ai Capi. “Sono ben pagati”, dice Octavio, venditore in un locale di giochi, vicino ad una delle Rotonde. Lo conferma Patricia, professoressa, costretta alla “fedeltà sandinista”, che rivela, tra sussurri, la paga dei “coordinatori”: 22.000 córdobas mensili (circa 750 dollari).
Il direttore giuridico del Centro Nicaraguense dei Diritti Umani (Cenidh), Gonzalo Carrión, afferma che il controllo assoluto del regime e gli ordini di partito agli impiegati pubblici “hanno rovinato la funzione pubblica, perché viene imposta la lealtà al partito al di sopra del servizio ai cittadini”.
La “partecipazione” cala. Il numero di rotonderos non supera la ventina di persone nella maggioranza di ciascuna delle 12 Rotonde, sparse per la capitale. Anche se il regime si fa in quattro per dimostrare il contrario: altoparlanti diffondono canzoni rivoluzionarie e parole d’ordine allusive al FSLN. A pochi metri da ogni Rotonda, si trovano pattuglie della polizia orteghista, che stazionano insieme agli autobus russi che trasportano i “segretari politici”, incaricati del reclutamento nei quartieri popolari di nuovi rotonderos.
Alla fine, la classe lavoratrice delle zone franche, occupata in maggioranza nel settore della maquila (stabilimenti di assemblaggio, ndt). Attraverso la dittatrice Rosario Murillo, il regime ha annunciato un “aggiustamento dell’8,5% per i salari della zona franca”. Il salario minimo dei lavoratori della zona franca passerà da 5.460 córdobas (circa 169 dollari) a 5.910 córdobas (183 dollari).
Il Nicaragua conta su 52 parchi industriali e 226 imprese utenti in più di due milioni di metri quadrati, che generano 124.334 posti di lavoro diretti e 350 mila posti indiretti nel settore delle maquilas, secondo dati ufficiali citati dall’agenzia Efe (14-12-2018). Negli anni recenti le imprese insediate hanno diversificato la propria produzione, non producono più solo prodotti tessili, ma si fabbricano anche articoli più elaborati e operano imprese di call center. Gran parte degli investimenti stranieri “produttivi” si trovano in queste zone franche. Nel 2019, un’impresa tessile cinese comincerà a funzionare nel settore di Mateare (strada nuova verso León), con un investimento di 200 milioni di dollari e una promessa di 1.000 posti di lavoro nuovi.
Negli stabilimenti di assemblaggio, come nel settore pubblico, predomina la CST (Centrale Sandinista dei Lavoratori), sindacato collaterale al regime, che segue il modello cubano del Partito-Stato.
Durante i primi mesi dell’insurrezione e soprattutto in occasione degli scioperi civici nazionali convocati dall’opposizione democratica, i lavoratori che avevano aderito alle proteste e alle misure dello sciopero, furono espulsi dai propri lavori e perseguitati come “agenti dei golpisti”.
In tal senso, la decisione di attivare l’aumento salariale (sottoscritto tra il governo, i padroni e i sindacati del settore, a giugno del 2017) manifesta l’intenzione del regime di favorire le classi operaie che si mantengono fedeli, e che compensano la perdita di sostegno sociale nell’insieme della società.
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Lo “stato d’emergenza” presenta un ingannevole “normalizzazione” della vita quotidiana. Soprattutto durante il giorno (ieri sera verso le ore 18.00) dove prevale un clima di calma. “La situazione è po’ più calma”, dice Javier, un tassista. Il movimento nei grandi spazi commerciali ha il ritmo delle festività natalizie.
Il Mercato Centrale Roberto Huembes, impressiona. Situato nel V Distretto di Managua, abbraccia 130 mila metri quadrati, 4.500 “commercianti”: vestiario, artigianato, liquori, verdure, frutta, “cibo di strada” per il giorno. Circa 10 mila persone lo visitano quotidianamente. Al lato, il terminal degli autobus interurbani. Il banco degli opuscoli turistici lo descrive come il luogo “più sicuro dove andare a fare acquisti”.
Nel suo perimetro, decine di parcheggiatori: poveri, dall’aspetto famelico. C’è una quantità di persone mutilate, mancano gambe, braccia, mani. Sono i “piccoli invalidi”, vecchi miliziani della Contra nella guerra degli anni 1980, promossa e finanziata dall’amministrazione di Ronald Reagan; pensionati miseramente dopo gli accordi, tra Ortega e i capi controrivoluzionari, che furono alla base del suo primo “governo di riconciliazione nazionale”. Ottengono una entrata supplementare, riscuotendo circa 20 córdobas (70 centesimi di dollaro) per ogni parcheggio.
I contrasti della “normalizzazione” si accumulano. In ogni caso, mostrano gli effetti della crisi economica e l’aumento dell’insicurezza. Le farmacie hanno modificato l’orario di consegna dei medicinali. La maggioranza dei ristoranti e pizzerie chiudono prima delle ore 21.00. Al calar della notte, Managua si spegne. Si respira desolazione.
Il paesaggio si ripete nel Porto Salvador Allende, situato sul Molo di Managua, di fronte al lago di Xolotlán, al nord della capitale. Secondo dati ufficiali, il Porto riceve almeno 3.000 visitatori al giorno e nei fine settimana la quantità di turisti, nella loro maggioranza nazionali, giunge fino ai 10.000. Ovviamente falso, fa parte della campagna di simulazione del regime. Così come un annuncio televisivo nel programma della dittatrice Rosario Murillo sul presunto arrivo di due navi da crociera con 1.600 turisti, per visitare il famoso mercato dell’artigianato di Masaya. Le immagini delle navi che si vedono sono vecchie o truccate.
Venerdì 14 dicembre, a metà pomeriggio, il Molo è quasi vuoto. All’entrata dei locali, decine di camerieri attendono l’arrivo di qualche cliente e i tassisti, che si tengono fuori del Porto, aspettano un eventuale passeggero. Il prezzo del viaggio si contratta, è la norma.
La paura della delinquenza, la persecuzione della polizia e i soprusi degli “incappucciati” (che possono essere una miscela di bande lumpen e squadroni parapolizieschi), aggiunto al sospetto di persecuzione, si vede riflesso in bar, viali, parchi, destinazioni turistiche, centri commerciali e rotonde. Le bande di mariachi ripongono le loro chitarre, passeggiano per ristoranti e hotel con tariffe ribassate per eventi di fine anno.
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L’estrema povertà è visibile, diverse stime la situano al di sopra del 40%. I quartieri popolari sembrano giganteschi insediamenti regolarizzati, ancora non forniti di servizi fondamentali (acqua, elettricità, fognature), il tetto delle abitazioni di lamiera galvanizzata nella loro maggioranza, stretti passaggi, discariche che si accumulano. Il trasporto pubblico continua ad essere sussidiato, 2,50 córdobas il prezzo di un biglietto urbano. Anche se il regime incomincia a razionare la vendita di combustibile. Conseguenza della fine del petrolio a buon mercato inviato dal regime amico di Nicolás Maduro.
Secondo José Adán Aguerri, presidente del Cosep, la crisi sociopolitica provoca la perdita e la sospensione di circa 400.000 posti di lavoro. Da marzo ad ottobre si sono perduti 142.760 posti formali, indicano le statistiche del Mercato del Lavoro pubblicate dalla Banca Centrale del Nicaragua (BCN). Il 43% dei posti perduti tra marzo e settembre, appartengono alle costruzioni e al commercio. Nell’industria manifatturiera ( 162.444 lavoratori/tri) si sono persi 11.806 posti. (La Prensa, 13-12-2018)
La precarietà lavorativa e salariale, un’altra norma. La “informalità” supera di molto il 50%. Il salario si aggira sui 300 dollari, anche se nelle imprese di sicurezza, negozi e supermercati, è ancor meno. Non viene pagato l’orario notturno, le ore extra sono semplici, e in molti settori gli impresari fanno firmare due cartellini ai propri impiegati/e, uno per le 8 ore e un’altro per le 4 restanti, per evadere il tributo delle imposte sociali. Così sta avvenendo nei 13 anni continui di orteghismo.
Giusto il contrario dell’immagine ufficiale. La propaganda inonda viali, parchi, edifici, piazze. “Un popolo felice” che vive una rivoluzione “cristiana, socialista, solidale”. Nello stesso momento in cui i gangster si trincerano negli organismi pubblici, nella Polizia, e negli squadroni parapolizieschi. In questo paese “allegro e lavoratore”, i suoi massimi Capi, per precauzione, quasi non escono dal bunker di El Carmen, residenza presidenziale.
Quasi tutti i pronostici annunciano una caduta del PIL, tra il 4 ed l’8%. Il credito al consumo è caduto del 10%. Gli investimenti in abitazioni cadranno perfino del 70% dicono le “imprese di urbanizzazione”. Il turismo, base della “crescita economica”, insieme alle esportazioni agricole, ai sigari avana e le merci prodotte nelle zone franche, è collassato. Si stima che quest’anno si percepiranno dal turismo US$ 500 mila in meno, in confronto al 2017.
Nel frattempo, il regime ha annunciato “riaggiustamenti di bilancio”. Come dire, meno denaro per l’insegnamento (soprattutto universitario, punto centrale decisivo dell’organizzazione e della ribellione sociale), e per quegli ospedali pubblici dipartimentali, dove la resistenza, come a León, è stata più forte.
Nonostante ciò, la polizia orteghista riceverà più denaro. Nonostante che il Bilancio Generale della Repubblica 2019 si sia contratto per fare fronte alla caduta nella riscossione di imposte, donazioni e prestiti internazionali, la Polizia riceverà più risorse per la “protezione delle personalità”, ossia, per la protezione diretta del clan Ortega-Murillo: spenderà 263 milioni di córdobas, 51.7 milioni più di quest’anno, che equivale ad un aumento del 24,4% rispetto al 2018. (La Prensa, 15-12-2018)
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Difficile un pronostico. La maggioranza delle espressioni dell’opposizione e degli analisti, parlano della “agonia del regime”, descrivono le brutali reazioni di Ortega come quelle di una “bestia ferita e messa alle strette”. I dirigenti storici del FSLN che si mantengono fedeli sono scarsi. Bayardo Arce come discreto “consigliere” presidenziale, anche se al principio della ribellione cercò di prendere le distanze dalla bestialità repressiva. Eden Pastora che giustifica la “legalità” del regime in un’intervista in spagnolo alla CNN. Circolano voci di una lotta di fazioni all’interno della cupola del FSLN.
L’unica cosa certa e visibile è che la dittatura non è riuscita a “normalizzare” la situazione. La crisi di regime di dominazione si mantiene in tutti i suoi termini. Anche se ha schivato i pronostici della sua “imminente” caduta.
I sostegni internazionali al regime sono, prima di tutto retorici, e in alcuni casi patetici: i paesi dell’Alba (Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America), e le infami organizzazioni del Forum di San Paolo. Attori che non possono offrire risorse per il problema più urgente e cruciale: la crisi economica. Soltanto la generosa amicizia con Taiwan, che apporta un aumento delle “donazioni”, informa il reportage intitolato “Taiwan: alleato od ostaggio” (Revista Domingo, La Prensa, 16-12-2018). Della “alleanza strategica” con la Russia nessuno presenta dati precisi, anche se si vedono molti “turisti” e “uomini d’affari” russi nei grandi hotel e nei locali dove si fanno acquisti.
Non si percepiscono espressioni politiche organizzate di sinistra (non c’erano nemmeno prima del 18 aprile). E i vari referenti che provengono dal “sandinismo rivoluzionario”, nemmeno coincidono su un’alternativa indipendente dalle forze padronali e religiose oggi all’opposizione, le quali per anni hanno mantenuto un patto di “governabilità” con il regime. Alcuni di questi referenti di sinistra, non scartano l’opzione del “dialogo” e del negoziato con il regime, per non rompere la “concertazione democratica”.
Nel frattempo, la scommessa su una “soluzione transitoria”, che includeva i militari (o una frazione di loro) e contava su seguaci all’opposizione, è andata perdendo spazio. Molto di più quando le sanzioni del Nica Act possono giungere a congelare il denaro dell’Istituto di Previdenza Sociale Militare (IPSM) che, oltre a costituire nel paese un emporio economico (centinaia di milioni di dollari investiti in numerosi rami economici), ha le sue riserve depositate in fondi pensione statunitensi e buoni del Tesoro, secondo quanto ne danno conto i rapporti pubblicati su El Nuevo Diario e Nicaragua Investiga.
Non si tratta solo di denaro. Le sanzioni possono includere richieste di estradizione per presunti legami con il narcotraffico e per responsabilità nel massacro perpetrato dal regime gangsteristico di Ortega-Murillo.
In realtà, come afferma Marcela, sociologa dell’UCA (Università Centroamericana), i militari hanno perso legittimità. “L’imperturbabilità dell’Esercito è solo apparente. Perché senza intervenire direttamente nella crisi, per il solo fatto di stare in silenzio di fronte alla repressione e al genocidio, li trasforma in complici silenziosi del regime”.
In Nicaragua le mediazioni smorzatrici sono deboli. I partiti di destra sono dei simulacri, come il Liberale Conservatore che ancora partecipa all’Assemblea Nazionale (parlamento) dominata da 65 legislatori del FSLN. L’alternativa che rappresentava il MRS (Movimento Rinnovatore Sandinista) creato il 21 maggio 1995 da fondatori, ex comandanti guerriglieri e governanti del FSLN che hanno rotto con la direzione orteghista, ha avuto successive scissioni prima di essere reso illegale tempo addietro dal regime. I suoi ex quadri dirigenti si esprimono contro il regime in modo individuale, come membri di diverse ONG, o con l’autorità intellettuale che gli dà la propria professione, come è il caso dello scrittore ed ex vicepresidente di Ortega nel primo governo sandinista, Sergio Ramírez.
Rimane la potente Chiesa Cattolica, alleata strategica del regime nei due precedenti governi, oggi allontanata dal circolo del potere e danneggiata dall’avanzata delle chiese evangeliche che stravincono gli orari televisivi ceduti dal regime e che beneficiano di concessioni economiche.
In questo quadro, il massiccio odio contro il regime continua ad accumularsi. Lo stato di disobbedienza civile, in ritirata per il momento, è latente. E bene, può tornare a manifestarsi sotto forma di una nuova esplosione sociale, in un paese dove la “memoria rivoluzionaria” sembra trasmettersi da una generazione all’altra.
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Poscritto. Montevideo, 30-12-2018
Il rapporto del GIEI (Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti) è demolitore. Il regime Ortega-Murillo ha commesso innumerevoli crimini di lesa umanità. Accusa i responsabili, esige giustizia e reclama riparazione per le vittime. Il massacro è certificato.
Tanto che il Segretario Generale dell’OEA, Luis Almagro (ex ambasciatore uruguayano in Cina durante il primo governo di Tabaré Vázquez, dopo ambasciatore in Sudafrica e cancelliere durante il governo di José Mujica) ha raccomandato, alla riunione del Consiglio Permanente (27-12-2018), di attivare il meccanismo della Carta Democratica per la sospensione del Nicaragua come stato membro, facendo appello al precedente dell’Honduras, quando il colpo di stato abbatté Manuel Zelaya.
Un discorso inedito per l’ambito e l’occasione, come se parlasse un dirigente di sinistra. Ha ricordato i precedenti del personaggio in questione, “uno degli ultimi rivoluzionari vivi”. Dietro la facciata, minaccia di sanzioni e di più isolamento internazionale. Il governo “del presidente Ortega” è entrato in una “logica di dittatura”. E “non vogliamo un Ortega dittatore”. Cessazione della repressione, libertà dei prigionieri politici, fine della censura della stampa, ritorno allo stato di diritto, riforma del sistema politico-elettorale. E ritorno al tavolo di dialogo nazionale”.
Richieste pesanti per il regime. Che hanno stimolato l’opposizione, che le prende come un “balsamo democratico”. Anche sapendo che il processo nell’OEA sarà complesso, pieno di trappole diplomatiche e accordi nella cosiddetta “comunità internazionale”. E che, la linea espressa da Almagro per il Nicaragua non implica, come per il Venezuela, una strategia di “cambiamento di regime” senza ritorni. Come dire, l’abbattimento, in qualsiasi modo, del governo istituito.
Nonostante il chiacchiericcio accusatorio, non sono state chiuse tutte le porte al regime criminale. “Si facciano carico della responsabilità”, ha dichiarato il Segretario Generale al governo di Ortega (in nessun momento ha menzionato la dittatrice Rosario Murillo). E questo include la possibilità di tornare a negoziare e/o a patteggiare una “soluzione della crisi”.
In ogni caso, l’ipotesi più probabile, contemplata da analisti e militanti conoscitori della situazione politica ed economica del paese e dei movimenti popolari, è una combinazione di fattori e di attori: da un lato, la pressione internazionale guidata dagli Stati Uniti e dall’OEA. Dall’altro lato, un nuovo gioco negoziatore tra la dittatura e l’opposizione che raffreddi la decomposizione del regime e ristabilisca le “regole del gioco” di un preteso “ristabilimento istituzionale”.
In questo contesto, le speculazioni si moltiplicano. Per esempio, che già sarebbero in corso negoziati. Nessuna delle fonti specifica tra chi e quale la loro portata. Anche se si ripete da parte di alcuni media e settori dell’opposizione, che la dittatura “ha i giorni contati”.
Per il momento, un portavoce dell’Articolazione dei Movimenti Sociali ha affermato che, dopo aver conosciuto il rapporto del GIEI, l’opzione di un nuovo dialogo con il regime “è inattuabile”. Vogliono partecipare alla presa delle decisioni, e l’unico fatto valido, accettabile, è l’uscita di Ortega-Murillo.
Un obiettivo che si scontra con due dilemmi simultanei. Uno: le relazioni di forze, politiche e sociali, all’interno del paese, sono molto più sfavorevoli che nei primi mesi di insurrezione popolare. Due: la “rivoluzione pacifica” ha come nemico una macchina da guerra.
5-1-2019
Correspondencia de Prensa
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Ernesto Herrera, “Nicaragua – La “normalización” de un régimen gangsteril” pubblicato il 05/01/2019 in Correspondencia de Prensa, su [https://correspondenciadeprensa.com/2019/01/05/nicaragua-la-normalizacion-de-un-regimen-gansteril-ernesto-herrera/] ultimo accesso 18-01-2019. |