Con le elezioni dello scorso 15 ottobre dei governatori dei 23 Stati che compongono il Venezuela, il processo bolivariano segna un altro punto a suo favore, vincendo in 18 e perdendo solo in 5 (Zulia, Anzoategui, Tachira, Merida e Nueva Esparta). Con una storica partecipazione al voto amministrativo di circa il 61% degli elettori, i candidati del Gran Polo Patriottico (PSUV, PCV, ed altri) si impongono con il 54%, contro il 45 % dell’opposizione della MUD. Dopo mesi di violenza organizzata dai settori più oltranzisti dell’opposizione (con il tragico saldo di più di 100 morti), e dopo l’elezione dell’Assemblea Nazionale Costituente che aveva riportato la calma nel Paese, il Venezuela dà al mondo un’altra lezione di democrazia e di difesa della propria sovranità. La vittoria delle forze che appoggiano il processo bolivariano, nonostante i tanti problemi causati dalla campagna di ingerenza da parte di Washington, è una chiara dimostrazione della solidità delle idee chaviste, dell’appoggio popolare al processo di trasformazione e del fatto che nella sua stragrande maggioranza il popolo venezuelano vuole decidere il proprio destino in forma democratica e pacifica, in base alle regole istituzionali che si è dato.
Vengono così smentite le previsioni della destra internazionale, della ex-socialdemocrazia (compreso il PD italiano), del partito dei grandi media che decretavano la fine del “chavismo” ormai in minoranza tra la popolazione “stremata dalla mancanza di cibo e medicine” che si sarebbe ribellata alla “dittatura di Maduro”. La stessa strana “dittatura” che celebra in pace le elezioni numero 22 in meno di 19 anni, tutte vinte dalle forze a favore del processo, con l’eccezione di 2: la prima, nel 2006, riguardava il referendum per l’approvazione della riforma costituzionale, mentre nel secondo caso si trattava delle elezioni al parlamento del 2015.
Ma sarebbe un errore credere che la vittoria rappresenta un “assegno in bianco” per il governo. Molti sono i problemi da risolvere: la “guerra economica esterna”, un’inflazione galoppante, la corruzione, e la necessità di cambiare il modello di sviluppo ancora troppo dipendente dal petrolio, etc. I nodi sono venuti al pettine da tempo e non sempre la risposta è stata all’altezza.
A proposito dei grandi media internazionali, di fronte al risultato elettorale, la loro strategia è stata quella di minimizzare, di censurare del tutto o di pubblicare “fake news”, pure e semplici menzogne. A casa nostra, “La Repubblica” si distingue per la sua sfacciataggine e cerca di vendere “lucciole per lanterne”, con la foto di dirigenti bolivariani spacciati per persone passate all’opposizione. In pochi casi si cerca di fare da megafono a settori totalmente minoritari dell’opposizione che gridano ai “brogli”, senza uno straccio di prova.
Nonostante la vittoria schiacciante c’è da sottolineare però un dato preoccupante, dato che l’opposizione vince in diversi Stati al confine con la Colombia. Come si sa, in questi anni sono stati al centro delle manovre di destabilizzazione, di omicidi selettivi dei dirigenti sociali, dell’infiltrazione dello squadrismo paramilitare colombiano, della crescita di un’economia criminale a partire dal contrabbando e dal narcotraffico. Uno scenario che, lungi dal pacificarsi, rischia di complicarsi, soprattutto in presenza delle pressioni esterne di Washington.
Infatti, alla vigilia delle elezioni, dopo solo 15 giorni dalla nascita dell’Assemblea Nazionale Costituente (boicottata dall’opposizione), Trump ha minacciato militarmente Caracas con un “intervento umanitario” e il tema Venezuela ha avuto una forte accelerazione nella politica estera statunitense.
E nei giorni seguenti, da Washington sono arrivati segnali chiari che non si trattava di una boutade del Presidente, ma di una precisa direttiva per accelerare i preparativi e concretizzare questa opzione.
È il Pentagono che rivendica il ruolo di protagonista per imporre al Venezuela “aiuti umanitari”, sia per le risorse di bilancio che il Congresso dedica espressamente a questa possibilità, sia per il suo carattere militare. In questo quadro, c’è da sottolineare le prossime manovre militari del Comando Sud statunitense, insieme a Brasile, Colombia e Perù nella località brasiliana di Tabatinga, alla convergenza delle frontiere amazzoniche dei tre Paesi. L’obiettivo specifico dell’operazione AMAZONLOG17 è appunto l’“aiuto umanitario” ad un Paese terzo. Da tempo la Colombia di Santos è candidata a ricevere i rifugiati venezuelani che l’intervento “umanitario” potrebbe avere come risultato, sul modello di Libia e Siria.
E a Washington, in perfetta sincronia, il deputato del Partito Democratico, Eliot L. Engels, presentava in Commissione Esteri della Camera la legge extraterritoriale di “Assistenza Umanitaria e Difesa della governabilità democratica in Venezuela”. Parallelamente il Segretario Generale della Organizzazione degli Stati Americani (OEA), il burattino Luis Almagro, metteva in scena il riconoscimento dello “Stato parallelo” venezuelano, cercando di dare legittimità alla pagliacciata del Tribunale Supremo di Giustizia (TSJ) in esilio. Non contento di ciò, Almagro fustigava l’opposizione venezuelana, rea di aver partecipato alle elezioni, avallando la “dittatura di Maduro”. Dichiarazioni che hanno provocato la reazione stizzita di Ramos Allup, uno dei leader oppositori.
Mentre Washington e la destra affinano la strategia per far cadere il governo Maduro, il processo bolivariano è obbligato a dare un “golpe de timón” come lo aveva definito Chavez. Unità interna, difesa del processo e riconversione del modello produttivo sembrano le priorità di questa fase.
22 ottobre 2017
Il blog di Marco Consolo
Marco Consolo, “Un Presidente Maduro”, pubblicato il 22-10-2017 in Il blog di Marco Consolo, su [http://marcoconsolo.altervista.org/un-presidente-maduro/] ultimo accesso 23-10-2017 |