La settimana passata ho firmato una dichiarazione sulla situazione venezuelana insieme a diversi colleghi e compagni. http://llamadointernacionalvenezuela.blogspot.mx/2017/05/llamado-internacional-urgente-detener_30.html
Ho firmato perché condivido il senso e l’intenzione di fondo del comunicato, ma ho esplicitamente segnalato che mi pareva che, sebbene contenesse gli elementi indispensabili caratterizzanti, avesse uno squilibrio in termini di spazio che veniva dedicato alla critica del governo e dell’opposizione e che questo poteva essere interpretato come un atteggiamento condiscendente verso quest’ultima, il cui profilo di classe è lontano dalla posizione di sinistra che il comunicato cerca di sostenere.
La proposta profonda del documento è contenuta nel seguente passaggio:
“L’appoggio incondizionato di certi attivisti e intellettuali non rivela solo una cecità ideologica, ma è pregiudiziale, contribuisce deplorevolmente al consolidamento di un regime autoritario. L’identificazione del cambiamento, anche della critica del capitalismo, non può provenire attraverso progetti antidemocratici, i quali possono terminare con il giustificare un intervento esterno, ‘in nome della democrazia’. Dalla nostra ottica, la difesa contro ogni ingerenza straniera deve basarsi in più democrazia, non in più autoritarismo. Dall’altro lato, come intellettuali di sinistra, nemmeno ignoriamo la realtà geopolitica regionale e globale. Diventa chiaro che ci siano settori estremisti dell’opposizione (la quale è molto ampia ed eterogenea), che cercano anche una via d’uscita violenta. Per questi si tratta di sterminare, una volta per tutte, l’immaginario popolare associato a idee così ‘pericolose’ come l’organizzazione popolare, la democrazia partecipativa, la profonda trasformazione della società a favore del mondo subalterno. Questi gruppi più estremisti della destra hanno contato, per lo meno dal colpo di stato dell’anno 2002, sull’appoggio politico e finanziario del Dipartimento di Stato nordamericano. Come cittadini dell’America Latina e di altre regioni del mondo, sosteniamo un doppio impegno. Da un lato, un impegno verso la democrazia, questo è, verso una democrazia partecipativa, che implica elezioni periodiche, cittadini nelle strade e aumento di arene pubbliche per prendere le decisioni collettivamente e comunitariamente; così come verso una democrazia ugualitaria, fatto che comporta l’ampliamento della frontiera dei diritti, inseguendo una società più giusta. D’altra parte, abbiamo un impegno verso i diritti umani, che colloca la base minima e innegoziabile del mutuo rispetto, che impedisce la tortura, la morte dell’oppositore, la risoluzione dei nostri conflitti attraverso la violenza”.
L’appello al dialogo che seguiva non implicava ignorare le peculiarità di ciascuna delle parti ma, secondo il mio intendimento, uscire dallo scenario di guerra civile per riconfigurare le forme della lotta di classe al di là dell’attuale polarizzazione tra governo e opposizione, dove il chavismo assume il monopolio della sinistra e il sentire delle classi subalterne venezuelane e l’opposizione delle destre e degli interessi delle classi dominanti. In effetti, serviva che fossero segnalati chiaramente i profili di classe delle forze in conflitto e gli orizzonti politici che nell’attuale congiuntura sono rimasti chiusi.
Così come è necessario riconoscere le reali frontiere della disputa, è evidente che la crisi e l’involuzione della rivoluzione bolivariana è dolorosa perché comporta una sconfitta per tutte -e sottolineo tutte- le sinistre latinoamericane. Un poco come in occasione della caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, -anche se il chavismo non è stato un totalitarismo, né la sua portata internazionale, nemmeno regionale, è comparabile- quando perfino le sinistre che si opponevano apertamente ai regimi del socialismo reale furono pregiudicate dalla svolta a destra che seguì al crollo. L’elezione del 98 di Hugo Chávez inaugurò un ciclo la cui fine potrebbe rimanere suggellata con la caduta di Maduro, nonostante che persistano governi progressisti in Bolivia, Ecuador e Uruguay e che potrebbero tornare in Brasile e Argentina. Il ciclo ha avuto una modificazione significativa da vari anni, nel momento in cui ha smesso di avere il percorso trasformatore che voleva avere, e il suo punto di rottura è stato l’offensiva di destra attualmente in corso.
D’altra parte, queste considerazioni amare sulla portata storica del ciclo progressista non possono comportare un allineamento acritico di tutte le sinistre sotto l’ombrello dei governi progressisti ancora esistenti. Esiste non solo un diritto ma un dovere di critica, una critica che può esprimersi all’interno del movimento bolivariano -fino a dove è possibile- ma anche fuori, in un dibattito franco e aperto tra sinistre, in particolare quelle di orientamento socialista e anticapitalista, rispettando e valorizzando -anche sotto assedio imperialista- l’irriducibile pluralità che c’è intorno alla fessura libertaria-democratica e al rispetto dell’autonomia delle organizzazioni e dei movimenti sociali.
Bisogna riconoscere che, in una situazione così delicata, il tono e l’enfasi del documento non hanno prodotto l’effetto desiderato ed è stato discusso anche da importanti settori di intellettuali e militanti di sinistra, molti dei quali con una posizione critica vicina a quella che difendo.
Allo stesso tempo, altrettante discussioni virulente e squalificanti da parte dell’altra frangia di intellettuali e militanti che fa appello allo scontro -che, insisto, in Venezuela è più guerra civile che lotta di classe- e che denuncia i firmatari del manifesto come complici delle destre e dell’impero, sono allarmanti, e mettono in rilievo la persistenza di vecchie culture di sinistra autoritarie e dogmatiche. Ci negano la qualità di sinistra, mettono in discussione il nostro lavoro intellettuale o, in alternativa, ci accusano di essere semplicemente degli intellettuali lontani dalle masse. Nonostante le aggressioni verbali -che deplorevolmente corrispondono ad una degenerazione del dibattito che c’è stato nel contesto della fine del ciclo progressista, quando intellettuali e militanti del progressismo latinoamericano hanno perso la serenità dell’epoca dorata- non mi pento di aver sottoscritto la dichiarazione perché credo che lì si plasmi qualcosa di fondamentale e irrinunciabile e perché considero che la critica è un dovere rivoluzionario e un esercizio che prefigura la società che vogliamo costruire. Così come ci rinfacciano di aver criticato, altri si prederanno la responsabilità di essere stati zitti.
4 giugno 2017
Desinformémonos
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Massimo Modonesi, “Venezuela: entre guerra civil y lucha de clases” pubblicato il 04-06-2017 in Desinformémonos, su [https://desinformemonos.org/rebelion-negra-popular-buenaventura/] ultimo accesso 14-06-2017. |