Nel Messico dell’ipocrita guerra al narcotraffico il valore della vita umana s’avvicina drammaticamente allo zero. Il 10 maggio, giorno della Festa della Mamma (in Messico), Miriam Elizabeth Rodríguez Martínez, una delle fondatrici ed esponente in vista della Collettivo dei Desaparecidos nello stato del Tamaulipas, è stata ammazzata dai sicari di un commando armato che, arrivati fuori da casa sua, hanno gridato il suo nome e poi hanno fatto fuoco.
Qual era la sua colpa? Fare l’attivista? Denunciare? Parlare troppo con la stampa? Avere avuto una figlia sequestrata, fatta sparire nel nulla e aver condotto da sola le indagini fino a ritrovarla, morta, per poi continuare comunque la lotta per la giustizia affianco ad altre madri come lei?
Probabilmente la sua colpa era solo quella di essere una vittima che aveva deciso di reagire, tra le migliaia che ogni anno si sommano al triste e scabroso conteggio della narcoguerra messicana. Il Tamaulipas è al primo posto in Messico per il numero di desaparecidos (oltre 5500), cioè di persone che vengono fatte sparire, con la partecipazione attiva o la complicità delle autorità statali, e di cui non si sa più nulla.
Il 10 maggio è una data simbolica ma non più perché è la Festa della Mamma, ma perché dal 2010 migliaia di madri del Messico e del Centroamerica sfilano in corteo a Città del Messico chiedendo verità e giustizia per i loro figli e le loro figlie desaparecidos e, dunque, è una giornata di lotta e protesta in cui, come dice l’hashtag di twitter #NadaQueCelebrar utilizzato per convocare alla partecipazione popolare, “non c’è niente da festeggiare”.
Proprio in una di queste manifestazioni è nata l’idea di creare un’esposizione artistica per far marciare per il mondo i passi, le orme e le scarpe di questi familiari, stampando sulle loro suole e su dei fogli di carta i loro messaggi di dolore e dignità. La mostra Orme della Memoria, Huellas de la memoria, che fino alla fine di giugno sarà in varie città italiane, racconta cosa significhi per queste persone la ricerca e il ritrovamento dei loro cari, vivi o morti.
Ecco alcuni dei loro messaggi, impressi sulle loro scarpe e oggi in cammino per l’Europa. “Io mi chiamo Lety Hidalgo e cerco mio figlio; Roy è stato fatto sparire l’11 gennaio 2011”. “Sono figlia di Rafael Ramírez Duarte, desaparecido politico dal giugno del 1977. Seguire le tue orme è voler toccare i tuoi piedi coi miei, come il gioco della tana dei conigli tiepida che c’hanno rubato, papà, Tania”.
“Melchor Flores Landa, cerco mio figlio, Juan Melchor Flores Hernández, vittima di sparizione forzata. I fatti sono avvenuti a Monterrey il 25 febbraio 2009. Melchor, detto Cow-boy Galattico; Figlio mio, ti cerco da 7 anni e non mi sono ancora stancato, continuerò a cercarti finché Dio me lo permetterà e le mi forze e il mio corpo resistano, ovunque tu sia ti mando tutto il mio amore di padre, ti amo e ho bisogno di te”.
Nel 2010 a San Fernando, la città in cui abitava Miriam e dove è nato il comitato di genitori e vittime delle sparizioni forzate da lei fondato, furono trovati i cadaveri di 72 migranti messicani, centroamericani e sudamericani, trucidati e gettati in una fossa comune dai membri dell’organizzazione criminale degli Zetas.
Qui molti casi di sparizioni, violenze e mattanze sono legati alla sanguinosa faida tra questi e il cartello del Golfo, l’altra organizzazione mafiosa che lotta per la supremazia nella regione nord-orientale del Messico. Lo Stato? Assente, se non connivente. Ciononostante i cittadini e le vittime si organizzano, anche a costo della vita.
Un altro caso drammatico e sconcertante, ancora irrisolto, è quello dei 43 studenti della scuola di Ayotzinapa che la polizia locale e il crimine organizzato hanno sequestrato sotto gli occhi dell’esercito e dei federali a Iguala, nel meridionale stato del Guerrero, nel settembre 2014.
E sono altri 31mila i desaparecidos nel Paese negli ultimi 10 anni. Sono numeri che ci rimandano alle dittature del Cono Sud negli settanta e ottanta o ai conflitti bellici attuali dell’area mediorientale, mentre invece si tratta del Messico, un Paese che formalmente non è in guerra, ma che vive un conflitto interno gravissimo in cui regnano impunità e corruzione.
La popolazione, e specialmente le persone più esposte come gli attivisti, i difensori dei diritti umani e i giornalisti, vivono tra due fuochi: le mafie e le bande delinquenziali, da una parte, e quella parte degli apparati statali che è connivente, indolente e, in certi casi, agisce come un vero e proprio cartello della delinquenza oppure si confonde con questi.
Si dice che Miriam abbia avuto un “privilegio” rispetto ad altre famiglie di desaparecidos: era riuscita, dopo due anni di ricerche, per lo meno a ritrovare il corpo della figlia, Karen Alejandra, che era scomparsa nel 2012, e a darle una degna sepoltura. Molti familiari di desaparecidos non cercano nemmeno più la verità su quanto è successo o una condanna per i responsabili, ma lottano per ritrovare almeno i resti dei loro cari. E le magliette che portano durante le ricerche o in manifestazione dicono “Figlio, finché non t’avrà interrato, continuerò a cercarti” e “Ti cercherò fino a ritrovarti”.
Miriam, comunque, era andata oltre, anche dopo aver trovato il corpo di sua figlia. Era diventata un’attivista per i diritti umani e aveva costruito una rete nazionale dei familiari che cercano i loro cari scomparsi. Era stata capace di far aprire l’indagine che condusse all’arresto della banda dei responsabili del femminicidio della figlia. Sapeva di essere sotto tiro, era stata minacciata più volte e aveva pure sventato il sequestro di suo marito, ma il pericolo era aumentato dopo che uno degli assassini era fuggito di prigione il marzo scorso, Miriam aveva quindi chiesto alle autorità una protezione che non è mai arrivata.
L’impiego delle forze armate con funzioni di polizia ha condotto alla militarizzazione del paese e all’aumento esponenziale delle violazioni ai diritti umani, tra cui spiccano le sparizioni forzate, la tortura e le esecuzioni extragiudiziarie come strategie di controllo di massa, e in 10 anni di “lotta” ai cartelli della droga i morti per omicidio arrivano alla cifra di 200mila e i desaparecidos sono oltre 31mila secondo i numeri ufficiali.
Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di vittime innocenti, di gente comune coinvolta in un conflitto armato non riconosciuto ufficialmente, e non di “criminali cattivi” in guerra contro “i buoni” difensori della legge, come invece il governo e la procura cercano di far credere all’opinione pubblica nazionale e ai media internazionali.
Le droghe, chiaramente, continuano a fluire massicciamente verso gli Stati Uniti, principale mercato di consumo del mondo, ed anche a restare in Messico, dove l’erosione dei legami sociali e comunitari sta portando a una catastrofe umanitaria e quindi il richiamo dei gruppi criminali, in cerca di manovalanza, di nuovi consumatori o di entrambe le cose, diventa preponderante.
I familiari organizzati in movimenti per le ricerche e per obbligare le autorità a seguire i casi e a riparare il danno sono sotto attacco. La comunità internazionale ha un ruolo importante nel denunciare, mantenere viva l’attenzione e la pressione sul governo messicano e non far dimenticare i casi di coloro che hanno pagato con la vita la loro attività sul campo (di battaglia, letteralmente).
Il Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità, nato nel 2011 proprio come conseguenza della “narcoguerra” imposta dall’allora presidente Felipe Calderón e continuata dall’attuale, Enrique Peña Nieto, ha stilato una lista, che riporto di seguito, per conservare la memoria delle 17 persone che sono state uccise per avere “osato” cercare la verità.
Nello stato del Tamaulipas Miriam Elizabeth Rodríguez Martínez viene uccisa da dei sicari in casa sua. Aveva ritrovato il corpo della figlia, Karen Alejandra, desaparecida e aveva fatto incarcerare i responsabili.
In Chihuahua la famiglia Reyes Salazar è stata distrutta, tra il 2008 e il 2011 cinque di loro sono stati uccisi: Josefina, Rubén, Elías, María Magdalena Reyes e María Luisa Ornelas cercavano giustizia per il figlio di Josefina.
A Ciudad Juárez Maricela Escobedo è stata ammazzata il 16 de dicembre del 2010 davanti al palazzo del governo e chiedeva giustizia per la sparizione e l’assassinio di sua figlia.
Nello stato di Sonora Nepomuceno Moreno Núñez, ucci’so il 28 novembre 2011, cercava suo figlio di 17 anni, che era sparito un anno prima.
Heriberto López Gastelum, assassinato il 30 de novembre 2016, cercava suo figlio scomparso alcuni mesi prima.
In Sinaloa Sandra Luz Hernández, assassinata il 12 maggio 2014 con 15 spari, cercava suo figlio Edgar Guadalupe Hernández, scomparso nel 2012.
Luis Abraham Cabada Hernández, ucciso il 19 dicembre 2015. Cercava suo fratello e due cugini.
In Guerrero Norma Angelica Bruno è stata uccisa il 13 febbraio 2015 e cerca sua cugina desaparecida.
Miguel Ángel Jiménez Blanco, ucciso l’8 agosto 2015, era il leader delle ricerche dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa.
Bernardo Carreto González, asesinado el 22 de diciembre de 2015, exigía la presentación con vida de sus tres hijos.
Nello Stato del Messico (intorno alla capitale) Cornelia San Juan Guevara, ammazzata il 15 gennaio 2016 cercava suo figlio desaparecido dal 2012.
In Veracruz José Jesus Jiménez Gaona, ucciso il 22 giugno 2016, cercava sua figlia desaparecida di 23 anni.
In Jalisco Gerardo Corona Piceno, ucciso il 19 aprile del 2017, cercava suo fratello scomparso nel 2012.
15 maggio 2017
L’America Latina
Fabrizio Lorusso, “La Strage Silenziosa dei Genitori dei Desaparecidos in Messico” pubblicato il 15-05-2017 in L’America Latina, su [https://lamericalatina.net/2017/05/15/la-strage-silenziosa-dei-genitori-dei-desaparecidos-in-messico/] ultimo accesso 24-05-2017. |