Un’analisi del movimento sociale argentino Non Una di Meno (Ni Una Menos), dal punto di vista della femminista boliviana María Galindo, che da anni tesse legami di ribellione con organizzazioni, quartieri e donne del nostro paese (Argentina). Cosa rappresenta questo movimento nel contesto della lotta mondiale delle donne, cosa contribuisce alla depatriarcalizzazione che è in marcia nell’America Latina e perché non può essere esportata. Un testo per sollevare il dibattito.
Vogliamo tutto il paradiso
María Galindo, Mujeres Creando,
dalla Bolivia e con amore
Dal dolore del femminicidio e contro la violenza maschilista in Argentina è sorto il Non Una di Meno. I cortei -dalla prima convocazione- sono stati qualcosa di nuovo per i femminismi latinoamericani. Uno scenario di massa, senza direzione, senza uniformità, senza mediatrici, senza monopolio della parola.
Tutte sanno cosa dire perché parlano di sé stesse, per cui non solo i corpi sono il massimo simbolo di queste nuove forme di lotta; ma le bocche, molte bocche, bocche voraci e che parlano troppo nello stesso tempo in cui stanno rompendo un silenzio troppo lungo.
Tutte sanno che ciò che devono dire, non lo può dire nessuno a nome loro, perché è la storia propria di Carmen, di Juana, di Julia. Non c’è tesi accademica incapace di dirlo né così chiaramente, né così direttamente, né così profondamente, né così immediatamente: il discorso del Non Una di Meno è un discorso, spontaneo costruito dalla vita quotidiana e anche questo è meraviglioso.
Il Non Una di Meno non è un movimento, ma una mobilitazione.
Non ha delle padrone, né delle artefici.
Non è nemmeno un fungo spontaneo, ma è la somma di decine e centinaia di sforzi i cui spigoli non sono nemmeno uniformi.
Il Non Una di Meno è tutte le generazioni e tutte le appartenenze sociali.
È una ribellione, una ribellione di cui sono protagoniste le donne dal basso e per questo ha molta forza.
Chi convoca il Non Una di Meno?
Lo convoca la storia, lo convoca la rabbia, lo convoca la speranza e il dolore al medesimo tempo. Lo convoca la collera, anche per questo non appartiene a nessuno ed è stato un atto di abuso quando Macri ha nominato Fabiana Túnez ad un incarico burocratico, per essere in modo presunto referente dell’organizzazione del Non Una di Meno. Non ci si indigna per Macri, perché i patriarchi hanno sempre fatto questo per controllare e placare una forza che mobilita. Indigna perché è soltanto un esempio di questa tipica voracità parassitaria che consiste nel mostrare la mobilitazione per appropriarsi della sua anima.
Il Non Una di Meno non ha delle padrone, questa è la sua potenza.
Il Non Una di Meno non ha un discorso ufficiale, ha una parola diretta.
La sua poesia è rabbiosa, molto rabbiosa.
Il Non Una di Meno è la forza depatriarcalizzatrice che è un punto di partenza e un orizzonte al medesimo tempo, perché ne consegue che ciò che vogliamo è depatriarcalizzare. Per questo il Non Una di Meno parla di libertà, di felicità, di tranquillità.
Non di uguaglianza, non di inclusione, non di equità.
Non con frasi fatte da ong, il cui discorso non ha spazio nel Non Una di Meno.
Depatriarcalizzare vuol dire cambiare tutto: dal nome delle strade fino all’invisibilizzazione delle donne.
Per questo il Non Una di Meno non è una lista di richieste che può essere adattata, né negoziata da nessuno.
Che vogliono queste donne?
La risposta è semplice: TUTTO
Potrebbe essere riassunto molto bene in un nostro graffito: VOGLIAMO TUTTO IL PARADISO.
Tutto questo non solo ha a che vedere con il basta alla violenza maschilista, ma anche con ciò che il neoliberalismo ha pensato per le donne, per questo anche le sarte, le boliviane esiliate in Argentina dal neoliberalismo boliviano -le fruttivendole, le fornaie- le operaie delle fabbriche occupate e tutte quelle di una lunga e infinita lista, sono lì.
Nessuno non vuole esserci perché l’appuntamento è con sé stessa.
È anche l’indignazione contro il kirchnerismo? Forse Cristina non ha deciso per le donne? Ricordiamo che ha deciso di non depenalizzare l’aborto per curare le sue relazioni con la chiesa, ricordiamo che ha creato programmi assistenzialisti -finanziati con la rendita del pacchetto di compagnie transgeniche e dello sfruttamento minerario- per contenere il neoliberalismo, ma solo contenerlo e nulla più.
Per questo il Non Una di Meno non è anti macrista pro kirchnerista, ma li fa fuori ambedue e con porzioni di ripudio uguali.
Il Non Una di Meno e il femminismo
Il Non Una di Meno è un altro femminismo. È il femminismo intuitivo, questo femminismo che non apprendi in un’aula, ma che è quello che ha il sapore salato delle lacrime di tua madre. È il femminismo depatriarcalizzatore del tutto oggi e ora. È il femminismo senza controllo di contenuti, è il femminismo che appare dal basso e non dall’alto.
E, allo stesso tempo, non è il femminismo, ma i femminismi.
Il Non Una di Meno è il femminismo per il quale una donna presidente, 10 o 50% di deputate, piani di uguaglianza e altre sciocchezze non significano nulla.
Il Non Una di Meno argentino è il femminismo per il quale la tesi neoliberale e tecnocratica della “uguaglianza” non è risultato altro che una vetusta frase logora e senza contenuto.
In questo senso il femminismo del Non Una di Meno è al medesimo tempo una domanda allo stesso femminismo, alla burocrazia di genere che ha voluto addomesticare le donne con il proprio discorso di uguaglianza. Alle accademiche femministe che si rinchiudono nel proprio circolo elitario.
Il Non Una di Meno è una convocazione alla lotta e alla sovversione di strada e insolente, alla parola diretta e alla semplice eloquenza.
Era stato molto importante parlare chiaro chiaro e senza parole ricercate.
Era stato molto importante parlare a partire dalla realtà e non dalla teoria per poter costruire teoria.
Era stato molto importante parlare a partire dalla strada.
Per questa medesima cosa sento una profonda emozione quando riconosco che i più diversi gruppi di donne hanno preso i graffiti di Mujeres Creando, perché a loro piacciono, perché a loro sono familiari, perché le divertono.
Nei cartelli non ci sono citazioni di Foucault, Judith Butler o Federici.
Per stare nella strada bisogna parlare chiaro e semplice.
Che ti comprenda quella al lato e rida con te.
Senza tetazo non c’è femminismo
Il tetazo (il seno nudo) non è un’aneddoto ribelle, ma fa parte di questa medesima forza rabbiosa che sta smuovendo questo movimento storico.
Il tetazo non scaturisce come azione in una cattedra su corpo e potere, scaturisce in una spiaggia popolare, in un aneddoto di polizia.
Il tetazo è la necessità di replicare ciò che a noi dicono di noi. È la rabbia contro l’insulto che non tollereremo più, è la rottura contro il controllo sui nostri corpi.
È il “ho perso la dignità e non tornerò a trovarla”.
È la necessità di mettere il corpo nella strada e tornare a lottare dal corpo nudo, dalla nudità, dall’indecenza, dall’irriverenza e la sfrontatezza.
Il tetazo è andare un passo più in là senza necessità di permessi, né coordinamenti. Andare urgentemente ai piedi dell’Obelisco e portare questa rabbia al centro della città e affrontare ogni morbosità, ogni burla e ogni critica con pura nudità.
Il tetazo è anche la dimostrazione che il Non Una di Meno funziona come un virus esplosivo dentro le anime e non risponde ad una agenda di date che sono un pretesto. Il tetazo è stato il giorno che doveva essere per rispondere ad un’aneddoto di polizia che è più di un aneddoto, è un esempio di un controllo sui nostri corpi che non accetteremo più. Il dinamismo, la capacità di risposta, la pelle fatta politica ed azione di strada questo è il tetazo e per ciò questo tetazo è semplicemente imprescindibile per un femminismo che respira da tutti i pori della pelle.
Si può esportare il Non Una di Meno?
Il Non Una di Meno non può essere esportato. È un processo sociale che riflette questo stato di depatriarcalizzazione di cui noi donne siamo protagoniste in questa parte del mondo, ma esportarlo è un’azione “utilitaristica”, è una “impostura” ed è, da ultimo, la dimostrazione per tutte quelle che nella propria valigia di ong e di partito si portano il Non Una di Meno dall’Argentina nei loro rispettivi paesi perché non sono capaci di generare processi propri. Con parole d’ordine proprie, con profondità sociale propria che è vitale per ogni processo sociale.
È una verità che le frontiere non esistono e che il femminismo è una lotta internazionalista senza frontiere. Questo è molto certo, ma questo non vuol dire che tu adotti una parola d’ordine per mimetizzare la propria incapacità di generare un processo con una propria identità politica.
So ciò di cui parlo, perché parlo a partire da Mujeres Creando della Bolivia.
La Bolivia figura nella lista di paesi che si uniscono allo sciopero. Ma noi non ci uniamo: non scioperiamo l’8 marzo. Non perché non siamo profondamente collegate con voi, non perché non siamo complici e sorelle, ma precisamente perché lo siamo.
La strada è la mia casa senza marito, il mio lavoro senza padroni: il caso boliviano
In Bolivia alcune parlano di sciopero, ma il fatto è che lo sciopero delle donne né mette insieme, né entusiasma, né convoca nessuna donna. E questo ha a che vedere con molte ragioni molto proprie del processo boliviano.
Rispettiamo che voi abbiate fatto lì vostra la parola d’ordine dello sciopero, una parola d’ordine che è nata nelle Europe per opera delle femministe marxiste che hanno introdotto l’idea dello sciopero delle donne per il riconoscimento del lavoro domestico come lavoro. Lo sciopero delle donne è sorto in un contesto centro europeo, di stato sociale di benessere, dove la massa salariata era molto grande ed era anche ampiamente composta da donne: in un contesto così è nata l’idea dello Sciopero delle Donne. Quando lì è arrivata la distruzione dello stato sociale europeo di benessere le femministe non sono riuscite ad organizzare nessuna risposta politica collettiva a questo smantellamento.
Qui in Bolivia lo sciopero è stato una parola d’ordine operaia e soprattutto mineraria che ha potuto estendersi poco a settori come quello della sanità o dell’educazione, che sono quelli che hanno un posto di lavoro nello stato. Al di là di questo nessuno sciopero ha funzionato socialmente come azione mobilitante.
In un contesto neoliberale di economia informale all’80%, come quella boliviana, ciò che hanno fatto le donne come processo di ribellione è prendere la strada come mezzo di sussistenza e incominciare a creare forme di emancipazione economica, in un’economia di sussistenza. In un terreno così la convocazione dello sciopero è per una piccola élite che non vive ai livelli di sussistenza e che non ha nessun collegamento con la maggioranza delle donne.
Femminismi dell’8 marzo
L’esportazione/importazione utilitaristica e semplicista del Non Una di Meno risponde all’esaurimento dei femminismi 8 marzo. Questi “femminismi” tra virgolette che si mobilitano una volta o due l’anno: 8 marzo e 25 novembre, sempre le medesime noiose, ripetitive e senza movimento sociale reale, senza sogni, senza orizzonti, senza linguaggi.
In questo meccanismo utilizza la meravigliosa massa delle donne argentine, i loro affollati cortei, le loro belle ribellioni e le trasformano in foto, in paesaggi di fondo di qualche femminismo che, già morto, in qualche punto della Spagna le usa come riferimento di quello che non sono disposte a fare. Mi dispiace compagne e amiche spagnole, ma è di nuovo un’azione coloniale per appropriarsi della foto e del sudore argentino, senza riflettere né costruire il proprio.
Io per tutto questo -noi per tutto questo-, che non è poco, non ci uniamo in Bolivia né allo sciopero, né molto meno al Non Una di Meno. Vogliamo apprendere da voi, vogliamo conoscere come avete costruito questo immenso tessuto, vogliamo accompagnarvi nel processo di affilare bene le punte e ci affascina come i nostri graffiti circolino in quasi tutti i gruppi.
Per questo non ci uniamo. Noi sappiamo che il processo di depatriarcalizzazione -al quale abbiamo dato un prezzo- è un processo in tutta questa America Latina, sappiamo che è un processo che parte dalle donne del mondo “popolare”, da quelle povere, da quelle che lottano per la sussistenza, dalle lesbiche, dalle disoccupate, dalle violentate. Sappiamo che stiamo costruendo poco a poco il “indigene, puttane e lesbiche insieme irrequiete e gemellate”.
Per questo crediamo che questo dello sciopero in 33 paesi sia una demagogia utilitaristica che usando una lotta serve a creare confusione. Noi sappiamo che ciò che stiamo sommando è l’argentino Non Una di Meno, il paraguaiano Non sono mezza arancia di nessuno, sono un frutto intero e in tutte le varietà, il peruviano Di farti la cena di farti il letto mi è passata la voglia di fare l’amore con te, il boliviano Né sottomessa né devota: libera, carina e folle, e se andiamo più in là di questo bel continente come non aggiungere la Processione del Santissimo Cazzo a Siviglia.
Quello che voglio dire è che ciascun processo lotta con un linguaggio proprio, con un punto di appoggio o molti punti di appoggio propri, processi reali e non artificiali come quelli che si vogliono organizzare a partire dall’uso utilitaristico della mobilitazione argentina. Lo sappiamo perché in questa costruzione ci siamo e perché sappiamo che questa ribellione è semplicemente gigantesca e abbraccia dalla prostituzione al lesbismo, dall’aborto al lavoro domestico, dalla lotta quotidiana fino all’utopia. Questa è la ribellione depatriarcalizzatrice che cantano le rapper e che dipingono quelle che fanno i murales, questa è la depatriarcalizzazione che i nostri corpi sudano.
Senza una politica concreta non c’è utopia
Come donne che si impegnano sulle cose urgenti, sul femminicidio concreto per il quale bisogna cercare giustizia, sull’autopsia mal fatta che bisogna denunciare, sul docente molestatore che bisogna espellere.
Sappiamo che bisogna mettere in discussione il microcredito e l’indebitamento delle donne e che la licenza per i bordelli autogestiti è così urgente come tutto il resto.
Sappiamo che il nostro quotidiano è la produzione di giustizia concreta.
Sappiamo che questa giustizia concreta, che questa politica concreta, è quella che tesse solidarietà consistenti, è quella che tesse pratiche politiche che ci avvicinano all’utopia e che -come la presa della strada- sono anche semplicemente imprescindibili.
Per questo a partire da questa concreta politica femminista capisco che la sfida è trasformare la rabbia in azione quotidiana.
Vieni, vieni, vieni, vieni compagna
che qui si sta lottando per la pazzia totale!!
05/03/2017
lavaca
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
María Galindo, “Ni una Menos Argentina: la rebelión de las mujeres de abajo. Por María Galindo” pubblicato il 05-03-2017 in lavaca, su [http://www.lavaca.org/notas/ni-una-menos-argentina-la-rebelion-de-las-mujeres-de-abajo-por-maria-galindo/] ultimo accesso 08-03-2017. |