L’estrattivismo come cultura


Raúl Zibechi

Nella misura in cui l’estrattivismo e i processi politici consolidati in questo modello cominciano a mostrare crepe, per la brusca caduta dei prezzi delle commodities, ci troviamo in condizioni migliori per capire le loro caratteristiche profonde e i limiti delle analisi precedenti. Una di esse, e qui dobbiamo fare autocritica in prima persona, consiste nell’aver guardato in primo luogo al lato ambientale e predatore della natura del modello di conversione dei beni comuni in merci.

Ora possiamo fare un passo avanti, cosa che hanno già fatto gli zapatisti più di un decennio fa, quando hanno definito il modello come “quarta guerra mondiale”. L’altro errore importante è stato considerare l’estrattivismo come modello economico, seguendo il concetto di “accumulazione per espropriazione” di David Harvey. Pertanto, all’errore di aver incentrato le critiche – in modo quasi esclusivo – sull’aspetto ambientale, si è aggiunto l’economicismo sofferto da molti di noi che si sono formati con Marx.

Il capitalismo non è un’economia, ma un tipo di società (o formazione sociale), anche se evidentemente esiste un’economia capitalista. Con l’estrattivismo succede qualcosa di simile. Se l’economia capitalista è accumulazione per mezzo di estrazione del plusvalore (riproduzione estesa del capitale), la società capitalista ha prodotto la separazione della sfera economica dalla politica. L’economia estrattiva, di conquista, furto e saccheggio, è appena un aspetto di una “società estrattiva”, o “formazione sociale estrattiva”, che è la caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio del capitale finanziario.

Al di là dei termini, va sottolineato  che viviamo in una società la cui cultura dominante è di appropriazione e furto. Perché insistere sull’esistenza di una cultura estrattivista diversa da quella egemonica, in altri periodi del capitalismo? Perché ci aiuta a capire com’è il mondo nel quale viviamo e le caratteristiche del modello contro il quale ci ribelliamo.

Per capire meglio in cosa consiste quella cultura, sarebbe necessario compararla con la cultura egemonica di periodi precedenti, per esempio durante il predominio dell’industria e dello Stato sviluppista. In quel periodo, i lavoratori manuali dell’industria provavano orgoglio per il loro lavoro e per essere produttori di ricchezza sociale (sebbene di una parte sostanziale di quella ricchezza se ne appropriasse il padrone) . Quell’orgoglio prendeva la forma di coscienza di classe quando si individuavano i propri interessi mediante la resistenza agli sfruttatori.

Non era lo sciocco orgoglio di chi si crede superiore, ma il risultato del posto che gli operai avevano nella società; posto che non avevano ereditato, ma costruito con una lunga e paziente lotta. Tra la metà del XIX secolo e i primi decenni del XX, gli operai – e alle volte le operaie – si sono formati alla luce di una candela dopo estenuanti giornate di 12 ore di lavoro, hanno creato propri spazi di incontro e di svago (centri culturali, teatri, biblioteche, cooperative, sindacato), hanno istituito forme di vita basate sull’aiuto reciproco, hanno creato meraviglie come la Comune di Parigi e la Rivoluzione d’Ottobre, oltre a più di una decina di insurrezioni urbane. Avevano ragioni per nutrire autostima.

Nella vita quotidiana, la cultura operaia ruotava attorno al lavoro, all’austerità per convinzione, al risparmio come norma di vita e alla solidarietà per religione. La tuta da lavoro e il berretto erano segni d’identità con cui giravano per i loro quartieri, perché non volevano vestirsi come i padroni; tutto nelle loro vite, dall’abitazione fino alle loro maniere, li differenziava dagli sfruttatori. Questa cultura aveva tratti oppressivi, come ben sanno le donne e i figli e le figlie degli operai dell’industria. Ma era una cultura propria, basata su una crescita personale autonoma, non nell’imitazione di quelli che stanno in alto.

Questo lungo giro vuole portare a un punto nodale: la cultura operaia poteva connettersi con l’emancipazione. La cultura estrattivista va nel senso opposto. Anche se portava elementi oppressivi, quella cultura conteneva aspetti preziosi, potenzialmente anticapitalisti.

La cultura estrattivista è il risultato del mutamento generato dal neoliberalismo, a cavallo del capitale finanziario. Il lavoro non ha il minimo valore positivo, posto che adesso occupano il saccheggio e le altre facce della medaglia, il consumismo e l’ostentazione. Dove c’era l’orgoglio del fare, oggi la cultura ruota attorno all’esibizione di marche e di mode. Mentre gli operai di un tempo condannavano il furto, per ragioni strettamente etiche, oggi si festeggia l’appropriazione, anche quando la vittima è un vicino, un amico e perfino un familiare.

Certamente, non tutta la società esibisce questo modo di vivere. Ma si tratta di forme che hanno guadagnato terreno in società dove i giovani non hanno un impiego dignitoso né un posto nella società, né la possibilità di formarsi lavorando, né di conseguire una minima ascesa sociale dopo anni di sacrifici. E non hanno nemmeno memoria di quel passato, che è la cosa più deleteria, poiché attenta alla dignità.

L’estrattivismo ha dissolto i soggetti, perché nella cosiddetta “produzione” semplicemente non ci sono. Perfino nella sfera della riproduzione, il sistema si sforza di mercificare tutto, dalle nascite al cibo, scagliandosi contro il ruolo centrale delle donne in questi spazi. Da qui l’importanza delle microresistenze: il tianguis [mercato tradizionale del Messico e del Centro America], il quartiere, i territori popolari, gli spazi collettivi di diverso tipo. Sono le microresistenze che alimentano le grandi ribellioni.

Se è vero che la cultura egemonica sotto l’estrattivismo ostacola i processi emancipatori, l’organizzazione e le resistenze, ci troviamo di fronte all’imperiosa necessità di lavorare nella direzione opposta a quella cultura. Le fondamenta del mondo nuovo sono qui, nella vita quotidiana. Ecco perché l’impegno nei lavori collettivi, in tutte le resistenze. Quei lavori modellano una cultura nuova, che riscatta il meglio della cultura operaia e prova (non sempre) a limitare le oppressioni.

14 ottobre 2016

La Jornada

Traduzione per Comune-info di Daniela Cavallo

http://comune-info.net/2016/10/lestrattivismo-come-cultura/

Traduzione di Daniela Cavallo per Comune-info:
Raúl ZibechiEl extractivismo como cultura” pubblicato il 14-10-2016 in La Jornadasu [http://www.jornada.unam.mx/2016/10/14/opinion/020a2pol] ultimo accesso 03-11-2016.

 

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