La Colombia ha detto No: uno stato debole, due paesi forti


Raúl Zibechi

Raúl Zibechi analizza la sconfitta del processo di pace nel referendum di domenica 2 ottobre. Le ragioni del No, le differenze tra la campagna e la città, l’ombra della destra di Uribe e il fattore religioso e militare. Appunti per pensare “un paese diviso in due metà che non si riconoscono, né lo faranno”.

Le due Colombie che si sono scontrate domenica 2 ottobre incarnano due mondi che si sospettano e si temono. Una realtà che precede, di gran lunga, la posizione ideologica che è posteriore e viene a giustificare distanze culturali nelle quali prendono forma le differenze politiche. Questi due mondi hanno potuto di più dei lunghi negoziati a L’Avana tra governo e FARC, che hanno sopravvalutato il massiccio appoggio internazionale alla firma della pace, e hanno mandato all’aria il più serio e fermo tentativo di superare una guerra di 52 anni.

Non è stata sufficiente la promessa della presidente del FMI, Christine Lagarde, di aprire una linea di credito speciale di 11.000 milioni di dollari per la Colombia, né il suo illimitato sostegno al processo di pace con la sua presenza a Cartagena: “Vediamo il processo di pace come uno stimolo allo sviluppo, all’attrazione di investimenti stranieri diretti addizionali, ad una maggiore fiducia nel paese, ad una maggiore sicurezza e certezza per coloro che cercano di investire bene il proprio denaro intorno al mondo” (Semana, 26 settembre 2016).

Il Sì aveva tutto il loro favore, dal governo e dall’opposizione moderata di sinistra, riunita nel Polo Democratico, fino ai governi della regione e alle organizzazioni finanziarie internazionali. La relazione di forze era così grande, che tutti hanno creduto alle inchieste che pronosticavano fino ad un 60 per cento di voti favorevoli. Tra coloro che hanno scommesso sul No, spicca il Centro Democratico di Álvaro Uribe, ex presidente ed ex alleato dell’attuale presidente Juan Manuel Santos, che può essere considerato il principale vincitore del fracasso governativo.

Tuttavia, non si dovrebbe vedere Uribe come l’artefice della sconfitta del Sì. Al contrario, l’abilità dell’ex presidente è consistita nel captare la rabbia e il rancore verso le FARC di una metà dei colombiani. Antipatia che il suo governo (2002-2010) ha contribuito come pochi a potenziare, alleato alle forze armate e ad una parte sostanziale della classe imprenditoriale, in particolare degli allevatori, ma anche dei paramilitari e narcotrafficanti.

Spiegare la sorpresa

Una parte considerevole delle analisi sullo stretto risultato del referendum hanno enfatizzato su questioni puntuali legate ai risultati e sugli errori della campagna. “Mentre la campagna del No ha proseguito in modo unificato le direttive dell’uribismo, quella del Sì è risultata dispersa”, sostiene uno dei periodici più prestigiosi (El Espectador, 4 ottobre 2016). Allude alla molteplicità di sostegni che ha ricevuto il Sì, dal governo e dai gruppi conservatori fino al centrosinistra e ai verdi, passando per i diversi movimenti sociali. L’argomento segnala che se tutti coloro che appoggiavano la pace avessero fatto una campagna unificata, i risultati sarebbero stati diversi.

Tra gli argomenti meno solidi, è apparso quello che attribuisce all’uragano Matthew, nella costa caraibica, l’astensione di più di centomila votanti nella regione più favorevole alla pace. Le medesime premesse difendono coloro che si lamentano della bassa partecipazione, giacché l’astensione ha raggiunto il 63 per cento. Bisogna ricordare che da sempre le elezioni in Colombia sono caratterizzate dalla bassa partecipazione. In ogni caso, bisognerebbe pensare alle ragioni per cui la classe politica ha una tale stentata credibilità.

La pubblicazione La Silla Vacía [La Sedia Vuota] (nome che fa riferimento all’assenza di Manuel Marulanda ai negoziati di pace dei ’90 nel Caguán), una delle più solide nell’analisi della politica colombiana, ha dato cinque ragioni che spiegherebbero il fracasso del Sì. La prima consiste nell’aver sottostimato il rifiuto della popolazione nei confronti della FARC, che Uribe ha saputo capitalizzare lanciando la parola d’ordine che il Sì è come dire “Essere Furfante Paga”, giacché si oppone al fatto che i guerriglieri non ricevano dure condanne. Durante la campagna ha diffuso annunci tipo “Timochenko presidente”, forse il più efficace per far pensare che il dirigente delle FARC sarebbe stato il prossimo governante.

La seconda ragione sarebbe l’aver sottostimato il rifiuto nei confronti di Santos da parte della popolazione. In effetti, il governo ha meno del 30 per cento di approvazione, per cui il presidente “si è trasformato fin dall’inizio in un ostacolo per il plebiscito” (lasillavacia.com, 3 ottobre 2016). Dopo evidenzia che i partigiani del No hanno avuto l’abilità di non opporsi alla pace, ma di puntare su “un migliore accordo”. Anche Ingrid Bentancourt, ex prigioniera della guerriglia, ha assicurato il suo appoggio al Sì “anche se nel mio caso non ci sarà giustizia” (Semana, 24 settembre 2016).

La pubblicazione attribuisce alle FARC e al governo degli atteggiamenti di superbia. Questo, mostrando la pace come qualcosa di irreversibile e per una frase di Santos quando è stato consultato riguardo la domanda del referendum, se fosse quella idonea: “Il presidente ha la facoltà di redigere la domanda come vuole”. Uno stile da capo e autoritario, per cui molti hanno sentito che voleva spazzar  via il paese.

La guerriglia non è rimasta indietro, e ha mostrato “tutto meno che umiltà”, in particolare nel discorso di Timochenko a Cartagena dove “è salito sul palco come una stella del rock” e non ha osato chiedere perdono faccia a faccia, mostrando “superiorità morale”. In effetti, i dirigenti della guerriglia hanno agito riaffermando le proprie posizioni e non hanno mai inteso che si trattava di conquistare la volontà di quest’altra metà del paese che li conosce solo attraverso la pubblicità negativa dei loro nemici.

Da ultimo, si accenna al proverbiale conservatorismo dei colombiani, cattolici e omofobici. La ministra dell’Educazione, Gina Parody, ha messo in circolazione dei libretti di educazione sessuale che hanno provocato dibattiti che hanno polarizzato il paese, con affollati cortei contro il governo. Uribe ha fatto un appello a recuperare la “famiglia tradizionale”, mentre il procuratore Alejandro Ordóñez ha affermato che gli accordi de L’Avana volevano cambiare istituzioni sacre come il matrimonio. Il governo, in una riunione con varie centinaia di pastori cristiani, non ha potuto convincere la chiesa cattolica che le denunce non erano vere, ma “non molti gli hanno creduto” (Semana, 2 ottobre 2016).

Campagna e città

La cosa certa è che la società colombiana vive, da decenni, una profonda e crescente polarizzazione che sicuramente ha il suo punto di partenza nell’assassinio del dirigente liberale Jorge Eliécer Gaitán, il 9 aprile 1948, che segnò l’inizio di una guerra civile tra liberali e conservatori che negli anni 60 creò le condizioni per la nascita delle FARC. Ma questa guerra non ha danneggiato ugualmente tutti i colombiani, in primo luogo gli abitanti rurali.

Il Gruppo per la Memoria Storica denuncia che tra il 1958 e il 2012 il conflitto ha causato la morte di 220.000 persone, di cui più dell’80 per cento sono civili che sono stati le principali vittime del conflitto. Parallelamente, il Registro Unico delle Vittime dice che fino a marzo 2013 ci sono stati 25 mila scomparsi e quasi sei milioni di sfollati in un paese di 48 milioni di abitanti. Gli uni e gli altri provengono dalle aree rurali che hanno maggiormente votato per la pace, come il Chocó, Cauca, Guaviare, Nariño, Caquetá, Vaupés, Meta e Putumayo, dove il Sì si è imposto con una certa ampiezza. Per questo si dice che le vittime della guerra hanno votato affermativamente.

Al contrario, nelle grandi città e zone urbane ha trionfato il No. Come segnala la giornalista Constanza Vieira, “la Colombia ha esibito la sua peculiare confusione da doppia personalità, che fa sì che si parli di due Colombie: la più sviluppata, predominante nelle Ande, ha votato in maggioranza No. Il paese della periferia, con minore densità di popolazione, lo ha fatto per il Sì, insieme a Bogotà, di circa otto milioni di abitanti” (IPS, 3 ottobre 2016).

La cosa interessante, e veramente complessa, è che il paese “moderno” dà le spalle alla pace e si allea con l’ultradestra Uribe. Salvo che a Bogotà, che ha sperimentato un processo di democratizzazione, con due decenni di governi municipali progressisti, fatto che non impedisce che alcuni dei sindaci siano stati processati per corruzione.

Le ragioni di questa presunta sfasatura tra modernità e comportamento politico conservatore bisognerebbe cercarle, soprattutto, in due questioni. La prima è relativa agli scenari della guerra. Per i cittadini, il conflitto è qualcosa che succede lontano dalla loro vita quotidiana, tra contendenti con i quali non hanno alcun contatto. Questa popolazione non solo non soffre la guerra, ma si informa attraverso i media sempre controllati dall’alleanza tra uno stato militarista e gli impresari amici dei militari.

Nonostante ciò, nelle città da un lato si respira prosperità, e all’altro estremo povertà. Ma in un paese come la Colombia l’una e l’altra non si guardano, ancor meno interagiscono. Sei colombiani su dieci che non votano di solito si trovano tra la metà più povera della popolazione, fatto che spiega il piccolo peso di una sinistra che da tempo è, inoltre, sconnessa dalla realtà.

La seconda questione è relativa al crescente peso delle “chiese da garage”, che negli ultimi 20 anni sono proliferate a tal punto che il governo ha voluto controllarle attraverso un registro che registra 5.071 chiese non cattoliche annotate presso il Ministero degli Interni (Caracol, 17 gennaio 2014). Ogni giorno si presentano tre nuove chiese, oltre a quelle che funzionano in modo “illegale”.

Nella loro immensa maggioranza sono piccoli templi evangelici o pentecostali a cui si recano decine di persone. Probabilmente avranno una incidenza simile alle chiese pentecostali del Brasile, che contano su potenti mezzi di comunicazione, grandi templi e un numeroso gruppo di deputati e senatori. Ma in Colombia il fenomeno non conta su studi che permettano di conoscere la quantità di fedeli, né le sue caratteristiche. Sappiamo che le entrate di queste chiese informali erano, appena 3 anni fa, di 10 miliardi di pesos, mentre il bilancio statale per l’educazione era di appena 1,2 miliardi (dinero.com, 24 aprile 2013).

Il fattore militare

Non c’è dubbio che l’universo religioso giochi un rilevante ruolo nel consolidamento del conservatorismo. Queste migliaia di chiese si sono mostrate restie all’accordo di pace. Una delle scarse ricerche accademiche su queste chiese, realizzata dal giornalista Ricardo Sarmiento, divide le chiese in tre categorie: le chiese locali o “chiese da garage”, quasi sempre pentecostali con una sede unica e che influenzano solo persone dei dintorni dove sono insediate, che si stima in una media di circa 50 persone; quelle che hanno varie sedi a Bogotà e in differenti regioni del paese; e le “mega-chiese” che appartengono a congregazioni internazionali.

Questo universo in espansione geometrica ha una potente influenza sul comportamento dei settori popolari. Le piccole “chiese da garage” stanno in quartieri periferici, funzionano in case di famiglie e a differenza delle grandi congregazioni, “questo protestantesimo informale cresce senza necessità di aiuto economico estero”, come sostiene il lavoro del sociologo William Beltrán. Aggiunge che questo tipo di organizzazione religiosa può essere considerata come “una forma di resistenza sociale” dei più poveri, che partecipano a movimenti religiosi perché “favoriscono spazi di organizzazione comunitaria per i poveri, gli sfollati e gli emarginati che trovano nel seno della comunità la possibilità di ristrutturare il senso della propria esistenza e la propria identità”.

I poveri hanno trovato un rifugio tra i pentecostali, che ravvivano il fuoco conservatore delle loro culture ancestrali. L’altro rifugio sono le forze armate, dove i più giovani -e spesso ribelli- vogliono approdare per dare un senso alle proprie vite e una entrata sicura. Ambedue i fatti, constatabili in qualsiasi giro per le città colombiane, mostrano la brutale distanza esistenziale e politica della sinistra con quella che dovrebbe essere, e una volta fu, la propria base sociale.

Rimane un elemento che ha posto sul tavolo il giornalista Héctor Abad Faciolince, sostenitore del Sì. In Colombia ci sono circa duemila militari prigionieri, per condanne che hanno a che vedere con il conflitto armato, per violazioni dei diritti umani, tra i vari delitti.

Termina il suo articolo, scritto abbastanza prima del referendum, con un paragrafo lucido e complesso: “Se il presidente Santos vuole veramente la pace con tutto il paese, deve offrire ai militari, e a Uribe, e agli interessi e alle paure che lui rappresenta, un accordo che li ripari. Temo che qui continuerà la guerra se alcuni militari e civili riceveranno più pene e disonore della guerriglia. Se Santos definisse un accordo speciale per i militari e i civili implicati nel conflitto (e solo lui ha il potere di farlo), credo che perfino il Centro Democratico voterebbe per il Sì nel plebiscito. Qui c’è una certa destra che non riposerà fino a quando non vedrà prigioniera o morta la cupola guerrigliera; e certa sinistra che non sarà contenta fino a quando non vedrà prigioniero Uribe e i suoi amici. Questa sinistra e questa destra, bisogna disarmarle con un perdono speciale” (El Espectador, 30 luglio 2016).

11/10/2016

lavaca

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Raúl ZibechiColombia dijo No: un Estado débil, dos países fuertes” pubblicato il 11-10-2016 in lavacasu [http://www.lavaca.org/notas/colombia-dijo-no-un-estado-debil-dos-paises-fuertes/] ultimo accesso 25-10-2016.

 

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