Sebbene ci sia una euforia di pace che si traduce in slogan o in frasi di cliché che si ripetono da tutte le parti, quando si va a fondo un poco su ciò che c’è dietro a questi slogan o sugli aspetti che queste frasi superficiali eludono, appaiono molte preoccupazioni.
Negli ultimi anni la Colombia ha vissuto una ricerca di accordo di pace tra il governo e la guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), dopo sessanta anni di conflitto armato che ha lasciato molti milioni di vittime e che su molti aspetti ha portato al progressivo degrado della guerra.
Questo processo è andato progressivamente rivelando i labirinti, a volte senza uscita, in cui è necessario addentrarsi per cercare degli accordi di pace. Durante l’ultimo ciclo di violenza il paese ha già vissuto 33 anni di processi di pace fracassati, senza contare i negoziati, gli accordi e le eliminazioni di ex combattenti di precedenti cicli che si identificano con le medesime cause. Una lunga tradizione dimostra che gli accordi non vengono rispettati e che i combattenti ribelli sono eliminati dopo il disarmo, ma non solo loro bensì le forze sociali e politiche che gli sono vicine.
Pochi giorni fa a L’Avana è stato firmato un documento che definisce il penultimo dei 6 punti dell’agenda concordata all’inizio dei dialoghi, che ora include l’impegno di un cessate il fuoco bilaterale e probabilmente definitivo. Nonostante ciò, il paese si trova profondamente polarizzato per la crescita e il crescente potere di posizioni politiche di estrema destra. Sembra che rivivano le posizioni della Guerra Fredda, potenziate dalla potenza economica di una imprenditoria multinazionale che difende rabbiosamente i propri interessi escludenti con mezzi molto potenti.
Sebbene ci sia un’euforia di pace che si traduce in slogan o in frasi di cliché che vengono ripetute da tutte le parti, quando si va a fondo un poco su ciò che c’è dietro a questi slogan o sugli aspetti che queste frasi superficiali eludono, appaiono molte preoccupazioni. Alcuni analisti più critici richiamano l’attenzione su certe contraddizioni, come le seguenti:
- Si percepisce un doppio linguaggio. Con uno si afferma che il processo non si è focalizzato come una resa di delinquenti ribelli ma come un riconoscimento di una guerra che aveva radici sociali e nella quale i due poli hanno commesso crimini; mentre l’altro, usato dal governo fuori dal tavolo dei dialoghi, è tutto focalizzato sulla resa, la sconfitta e la sottomissione ad una legalità e ad una struttura di potere presuntemente democratica. Il governo e la classe dominante ripetono che il processo è frutto di un trionfo militare dello stato che ha piegato la guerriglia e l’ha obbligata a sedersi al tavolo del negoziato.
- Anche se nei formalismi del tavolo dei negoziati si sia accettato di discutere le radici del conflitto, soprattutto sui temi della terra e della democrazia, ha predominato il deciso rifiuto del governo di toccare anche in una minima parte il modello economico e il modello politico, rimanendo tutte le proposte relative a queste radici del conflitto come “eccezioni” o “conferme” di cui è stato impossibile discutere. Il governo ripete che non negozia il modello vigente e che invita la guerriglia solo, una volta abbandonate le armi, a presentarsi ai dibattiti elettorali per chiedere alla società di appoggiare le proprie proposte di riforma. Questo sarebbe normale se ci fosse democrazia, ma il governo sa che fino a quando non riformerà il sistema elettorale, uno dei più corrotti del mondo, e il sistema di proprietà dei mezzi di informazione di massa né la guerriglia né nessun movimento di opposizione potrà conquistare trionfi democratici.
- Molte polemiche interminabili hanno alla fine portato i ribelli ad accettare la simmetria del trattamento verso i combattenti di ambedue i lati, non riconoscendo la gravità enormemente maggiore dei crimini di stato e le caratteristiche del delitto politico e del diritto alla ribellione. Hanno anche dovuto accettare l’immunità degli ex presidenti di fronte alla giustizia e alla rottura delle responsabilità di comando, ambedue principi consacrati dallo Statuto di Roma il cui non riconoscimento rafforza e amplia l’impunità di routine.
- Lo sviluppo dei dialoghi ha prodotto perplessità nelle classi più coscienti della società, comprovando che lo stato è semplicemente ricorso alla negazione dei più grandi ostacoli per la pace, considerandoli come inesistenti o realtà del passato già superate: il paramilitarismo, la dottrina militare del nemico interno e della sicurezza nazionale e la criminalizzazione della protesta sociale. Nessuno può intendere che nemmeno i negoziati abbiano portato ad un accordo sulla riduzione della forza armata dello stato ma, piuttosto, ad annunciare che questa forza verrà aumentata e rinforzata.
- Il ricorso alla giustizia transizionale, che è stato il punto di arrivo sul tema delle vittime del conflitto, uno degli aspetti più controversi dei negoziati e che più tempo ha richiesto, non lascia tranquilli numerosi analisti di ambedue i lati. È stata concordata una Giurisdizione Speciale per la Pace, ideata da un gruppo di giuristi di alto livello, all’interno dei criteri fondamentali della giustizia transizionale. Certamente, il diritto nazionale lì non opererà ma solo i trattati internazionali; ci saranno anche magistrati stranieri; coloro che confesseranno dei crimini internazionali, siano guerriglieri, militari, imprenditori o altri, avranno pene alternative e non la prigione, e coloro che non confesseranno saranno condannati alla prigione. La formula è stata elogiata da molti anche se viene criticata la flagrante violazione di alcuni articoli dello Statuto di Roma per favorire i governanti. Nonostante ciò, suddetta formula alberga due principi che possono distruggere le scarse aspettative di giustizia: i principi di dar la priorità e di esaminare i massimi responsabili. Già ci sono applicazioni in corso di questi principi da parte della giustizia colombiana, di fronte a concrete modalità di genocidio, che annunciano l’utilizzo corrotto di questi principi come meccanismi privilegiati di impunità. Questo fa guardare con riserva all’accordo di giustizia.
- In generale, le motivazioni di dissuasione che sono state utilizzate per promuovere gli accordi di pace riposano nell’impossibilità pratica di ottenere cambiamenti sociali attraverso la lotta armata, dato il mostruoso e sconcertante potere delle armi statali, appoggiate dalla potenza imperiale di maggiore portata distruttiva della recente storia dell’umanità: gli Stati Uniti. Spicca per la sua assenza, nonostante ciò, ogni considerazione etica sulle grida e le sofferenze che hanno portato i combattenti a sollevarsi in armi contro lo stato. Il discorso politico predominante è pragmatico ed egoista, e mostra un’arrogante indifferenza per le reali possibilità di giustizia. I discorsi del presidente Santos all’estero hanno insistito, prima di tutto, su una pace che beneficerà gli imprenditori e gli investitori transnazionali, che potranno intensificare la loro estrazione di risorse naturali. Nel frattempo, il suo governo reprime con crudele violenza le proteste sociali delle comunità colpite dalla distruzione ecologica e sociale che queste imprese multinazionali hanno causato e continuano a causare.
Da parte dell’estrema destra si condanna il processo perché favorisce l’impunità dei ribelli, sicuramente responsabili di non pochi crimini di guerra, ma da parte del movimento popolare si teme di più l’impunità dei potenti e degli agenti dello stato e del paramilitarismo, i cui crimini di guerra, di lesa umanità e genocidio superano enormemente in quantità e crudeltà i crimini degli insorti. Questa impunità si traduce nella continuità di un potere repressivo che continuerà a colpire i settori più indifesi della società e bloccherà con violenza le riforme sociali che con urgenza sono richieste.
Nonostante gli sforzi formali per costruire uno Stato di Diritto, soprattutto a partire dalla Costituzione del 1991, il potere reale lo continua ad esercitare una minoranza potente strutturata secondo gli interessi transnazionali, giungendo a configurare uno stato squizofrenico nel quale il formale si sostiene sul legale e il reale si sostiene sulle mille reti clandestine di violenza parastatale, il cui legame con lo stato è decisamente negato dai funzionari del regime e dai grandi mezzi di informazione.
La prima esperienza recente di giustizia transizionale la realizzò nel 2005 un governo di estrema destra, quello dell’ex presidente Álvaro Uribe, con la Legge 975, paradossalmente chiamata “Legge di Giustizia e Pace”. Allora ci fu un negoziato con i paramilitari, che apertamente appoggiarono la sua candidatura alla presidenza. Dopo i negoziati con i capi paramilitari più noti, questi ottennero di essere sottoposti ad una giustizia indulgente nella quale la pena massima fluttuava tra i 5 e gli 8 anni, anche se in ciascun caso i crimini atroci assommavano a molte migliaia. Certamente, si smobilitarono 32.000 paramilitari autori di 42.000 crimini atroci ma furono condannati alle pene minime solo 22 di loro e quasi tutti sono in libertà dal 2015.
A questa strategia di negoziazione con gruppi che non potevano essere identificati come delinquenti politici, dato che erano agenti clandestini dello stesso stato, l’ex presidente Uribe aggiunse altre strategie affinché il paramilitarismo continuasse ad essere attivo: la configurazione di un paramilitarismo legalizzato, legando vari milioni di persone a compiti di guerra mediante reti di informatori e cooperanti, e rimodellando gli statuti delle compagnie private di sicurezza per vincolarle a compiti bellici come ausiliari della forza armata ufficiale.
Il paramilitarismo illegale, in grandi frange, è ritornato molto velocemente alle sue azioni criminali con i suoi medesimi obiettivi, cioè: persecuzione di ogni movimento sociale o di protesta mediante scritti di chiara ispirazione controinsurrezionale, anticomunista e fascista; sostegno incondizionato al governo e alle sue forze armate; appoggio alle imprese transnazionali, la cui distruzione ecologica chiamano “progresso”; e con un sostegno finanziario nella reti più potenti del narcotraffico. Per loro il governo ha coniato nuove sigle che li iscrivono nella delinquenza comune, estranea ad ogni relazione con lo stato. Oggi le frange legali e quelle illegali del paramilitarismo, protette da un linguaggio che le copre con la decisa negazione della loro esistenza, si organizzano e coordinano con calcolata astuzia.
Dall’inizio degli attuali negoziati, le FARC avevano affermato che mai si sarebbero sottoposte alla giustizia colombiana, data la sua estrema corruzione, la sua responsabilità nella mostruosa impunità dei crimini più atroci dello stato e del paramilitarismo, e la sua svergognata parzialità e dipendenza dal regime, concetti che condividono grandi frange di popolazione che considerano la giustizia come eticamente collassata. Molte formule sono state proposte per cercare imparzialità, inclusa la creazione di una corte penale regionale sostenuta da regimi progressisti dell’America Latina. E mentre gli insorti cercavano strutture giudiziarie più indipendenti, gli agenti dello stato erano tormentati dalla valutazione di quanto avvenuto in altri paesi che avevano emesso leggi audaci di impunità per militari e funzionari, leggi che sono state successivamente invalidate dai tribunali internazionali.
L’ex presidente César Gaviria ha presentato una lettera pubblica chiedendo che fossero blindate in modo definitivo le misure di impunità per proteggerle da un eventuale successivo non riconoscimento da parte di tribunali internazionali o delle medesime corti nazionali. Per questo, l’accordo include anche alcuni meccanismi di blindatura per il futuro che non smettono di essere fragili e, analizzandoli, si scopre con maggior forza la dipendenza del diritto rispetto alla politica e agli andirivieni dei potenti di turno.
Nel momento in cui scrivo ancora non è stato firmato l’accordo definitivo, ma già si pensa che il processo sia irreversibile e che in poche settimane sarà convocata la cerimonia solenne della firma. È stato già concordato un calendario di consegna delle armi alle Nazioni Unite e di concentramento provvisorio dei guerriglieri in 23 zone rurali, mentre si cominciano a dotare di mezzi i diversi punti degli accordi. Come lo riconosce la mente dei negoziati da parte del governo, quello che si firmerà non è propriamente la pace ma un cessate il fuoco. La pace bisognerà cominciare a costruirla, principalmente nelle zone in cui la guerra è stata più intensa.
In questo momento la polarizzazione è molto grande e molti di noi pensano che, fino a quando non sarà data soluzione alle radici più profonde del conflitto, che sono l’estrema disuguaglianza, la concentrazione della proprietà della terra, la mancanza di democrazia e la criminalità statale tendente a reprimere ogni protesta sociale e a distruggere ogni movimento di base che cerca modelli alternativi e giusti di società, il conflitto si può riattivare senza che siano prevedibili le sue conseguenze.
È necessario annotare che, per il momento, l’accordo verrà firmato con la guerriglia delle FARC e che l’altra guerriglia che ha importanza numerica e storica, l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), non è ancora riuscita a giungere ad accordi minimi di agenda per iniziare il dialogo con il governo, anche se ha fatto passi significativi.
Roma, 4 luglio 2016
desde los márgenes
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Javier Giraldo M., “¿Paz en Colombia?” pubblicato il 04-07-2016 in desde los márgenes, su [http://www.javiergiraldo.org/spip.php?article257] ultimo accesso 03-10-2016. |